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S.Messe (settimana)
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Elena Tasso

Elena Tasso

Nei giorni 21-22-23 giugno si è svolto un pellegrinaggio al santuario di Nostra Signora de La Salette. Il pellegrinaggio è stato organizzato dalla Comunità dei Missionari di Torino che sono responsabili delle parrocchie di Sant Ermenegildo e della Visitazione, dalle Missionarie di Maria Riconciliatrice e dai Laici. Abbiamo chiesto se potevamo aggiungerci a loro. Ci hanno accettato. Il giorno 20 sera, per noi 15 laici Salettini di Roma l’appuntamento era nella sala parrocchiale della Visitazione dove siamo stati accolti con affetto, cordialità e cortesia da queste persone che non conoscevamo. Si è instaurato immediatamente un clima di fraternità ed amicizia che è progredito ogni giorno. A completare l’accoglienza siamo stati anche accompagnati ed ospitati per la notte nei locali delle due parrocchie e nelle case private delle Sorelle Missionarie.

All’alba siamo partiti, con due pullman. La prima tappa è stata la visita al santuario di Notre Dame de Laus, situato relativamente vicino a La Salette. Questo santuario, poco conosciuto ma ricco di spiritualità e preghiera, sorge dove la Santa Vergine è apparsa alla pastorella Benoìte Rencurel per ben 54 anni dal 1664 al 1718.

Arriviamo a sera a La Salette accolti da un violento temporale che evidenzia maggiormente la maestosità della montagna. Il giorno dopo abbiamo potuto partecipare a tutte le cerimonie che si sono svolte nella basilica, e nella sala delle proiezioni. Abbiamo fatto la Via Crucis e la fiaccolata serale incuranti delle pozzanghere e del fango ma con tanta serenità che ci dava anche l’osservare l’erba e le foglie che, lentamente facevano cadere a terra le gocce e che le appesantivano e si lasciavano asciugare. Che ci sia un simbolismo?

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Dopo la Messa internazionale della domenica e la solenne Processione Eucaristica che l’ha seguita, sul sagrato della basilica è stato allestito un tavolino con sopra ceste di panini e baguette.

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Il pane pubblicamente ed accuratamente benedetto è stato distribuito ad ogni persona che a sua volta lo spezzava e lo dava “condividendolo “ ad un’altra. E’ stato veramente commovente: tutti mangiavamo pane che avevamo ricevuto e dato. Il piazzale era gremito (pare ci fossero oltre 600 persone) e tutti, sotto il sole cocente e soprattutto sotto il materno sguardo della Bella Signora, eravamo felici.

La sera, a Torino, abbiamo terminato il nostro pellegrinaggio con “una pizza comunitaria”.

Si ritorna da La Salette con bagagli di emozioni, sentimenti, propositi, esperienze che difficilmente si dimenticano e che soprattutto ritornano quando…. Il sole non è cocente. Aggiungiamo nuovi bagagli: l’esperienza di avere vissuto con i fratelli e le sorelle pellegrini torinesi giorni di preghiera, ma anche di profonda amicizia, fraternità, generosità, di condivisione ed aiuto reciproco.

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Un grazie particolare a Padre Heliodoro, a Fratel Luca e a tutta la Comunità dei Missionari. Ringraziamo le Sorelle Missionarie che, non solo ci hanno ospitato, ma coccolato e ricolmato di attenzioni, per tutte ricordiamo Rosy e Mariangela. Ringraziamo anche il nostro Padre Adriano per la sua pazienza e disponibilità. Con la chitarra ha accompagnato le nostre preghiere e con la sua possente voce ha guidato i nostri deboli canti non solo, ma si è anche caricato ….dei nostri trolley

I magnifici 15

Le letture liturgiche di questa domenica hanno come filo conduttore la vera conversione che operando in noi ci trasforma in creature nuove. Ci si apre alla carità quando si scopre dentro di noi il piacere di fare il bene senza mettere cautele e senza frontiere, senza limiti e senza fini personali.
Nella prima lettura, tratta dal libro del Deuteronomio,
si afferma che la parola del Signore è molto vicina, è nella bocca e nel cuore di ognuno. La fedeltà non è compito impossibile, ma alla portata di tutti. Vera saggezza per Israele è osservare i comandi e i decreti di Dio.
Nella seconda lettura, San Paolo nella suo Inno Cristologico inviato ai Colossesi esalta la figura di Cristo, il suo primato e la sua funzione nella creazione e nella ri-creazione dell’uomo.
Nel Vangelo, Luca con la parabola del buon samaritano mette a fuoco l’amore cristiano, che si esprime in azioni e in parole e ci insegna che non basta credere, occorre tradurre la fede in opere nella vita quotidiana, incominciando dalle piccole cose, dai piccoli gesti.

Dal libro del Deuteronòmio
Mosè parlò al popolo dicendo: «Obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge, e ti convertirai al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima.
Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te,né troppo lontano da te.
Non è nel cielo, perché tu dica: “Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Non è di là dal mare, perché tu dica: “Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica».
Dt 30,10-14

Il libro del Deuteronomio, secondo la tradizione ebraica e molte confessioni religiose cristiane, sarebbe stato scritto da Mosè, ma molti esegeti moderni ritengono che tutto il Pentateuco sia in realtà una raccolta di vari scritti di epoche diverse, formatasi nel periodo post-esilico. Per quanto riguarda il Deuteronomio almeno la parte centrale, si pensa che sia stata composta da un movimento profetico sorto intorno all‘VIII-VII Sec. a.C., nel periodo della conquista assira, ed alla seguente riforma del re Giosia. Si presenta come il testamento di Mosè, la raccolta cioè delle ultime sue disposizioni che avrebbe espresso poco prima della sua morte, quando ormai il popolo, radunato nelle steppe di Moab, sta per iniziare il suo ingresso nella terra promessa. Questo testo fa parte del terzo e ultimo discorso attribuito a Mosè.
Il versetto con cui inizia il brano “Obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge, e ti convertirai al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima” è staccato dai seguenti e fa corpo con la parte precedente dove si afferma che qualunque possa essere la condotta di Israele, Dio accorderà sempre il Suo perdono se c’è un sincero pentimento. Dopo il versetto iniziale nel brano si prospetta un avvenire gioioso che avrà luogo quando Israele obbedirà a tutti i comandamenti del Signore e si convertirà a Lui con tutto il cuore e con tutta l’anima. Si apre così un’epoca in cui si manifesterà il vero significato della legge di Dio. A proposito di questa legge si dice: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te,né troppo lontano da te”. La legge di Dio non è dunque una realtà estranea all’uomo, difficile da capirsi e quindi imposta dall’esterno, anche se con l’autorità stessa di Dio.
Per chiarire il suo pensiero, l’autore nega che il comandamento di Dio si trovi in due luoghi lontani e inaccessibili, cioè nel cielo o al di là del mare. Per quanto riguarda il cielo egli afferma: “Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Se il comando di Dio fosse nell’alto dei cieli, difficilmente si troverebbe qualcuno capace di andarlo a prendere, e così sarebbe impossibile eseguirlo. Anche a proposito del mare egli dice: “Non è di là dal mare, perché tu dica: “Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Dopo aver negato che il comandamento di Dio si trovi in luoghi lontani e inaccessibili, l’autore conclude: “Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica”. In questo versetto non si parla più di comandamento, ma di “parola”: questo termine era usato nella tradizione sinaitica per designare i singoli comandamenti del decalogo (Es 20,1). Qui invece indica l’unico comandamento di cui solo la circoncisione del cuore permette l’osservanza, cioè l’amore di Dio.
In realtà non si tratta di un comandamento in senso proprio, ma di un’ispirazione che viene da Dio e si fa sentire nel profondo del cuore, in modo tale che il credente sia portato a osservarla spontaneamente.

Salmo 18 - I precetti del Signore fanno gioire il cuore.
La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.

I precetti del Signore sono retti,
fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido,
illumina gli occhi.

Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.

Più preziosi dell’oro,
di molto oro fino,
più dolci del miele
e di un favo stillante.

Il salmista ha sperimentato nella sua vita quanto sia giusta la legge del Signore, tanto che fa gioire il cuore.
La legge, i suoi comandi, sono limpidi, perché non oscurano gli occhi portandoli a veder in modo malvagio le cose, ma li liberano dalle oscurità per dare loro la capacità di un luminoso vedere la bellezza delle cose,che inneggiano al Creatore e servono l’uomo.
“Il timore del Signore è puro”, perché non è come quello di chi teme la punizione perché colpevole, ma è il timore puro di chi teme di giungere a rattristare Dio con la disobbedienza alla legge d’amore verso lui e verso gli altri.
Il salmista comincia a focalizzarsi sull’effetto della legge su di lui; di lui che è piccolo, ma che è istruito dai giudizi di Dio, che sono contenuti nella legge, poiché Dio giudica gli uomini con quella legge.
Il salmista è consapevole di avere tante mancanze di cui non si rende pienamente conto: le “inavvertenze”. Di queste chiede a Dio perdono. Egli, infatti, anche se osserva la legge non reputa per niente di osservarla perfettamente e sa che sta nell’orgoglio la ragione di una scarsa osservanza. Orgoglio che se non dominato conduce l’uomo al grande peccato, cioè al peccato di una grande e palese disobbedienza alla legge.
Per ultimo, il salmista, chiede a Dio che ascolti, nella sua bontà misericordiosa, la sua preghiera che sgorga da un cuore retto e non doppio, consapevole di non poter nascondere nulla a Dio: “Davanti a te i pensieri del mio cuore”.
Infine, il salmista, sigilla la sua preghiera dicendo: “Signore, mia roccia e mio redentore”. “Mia rupe”, perché è la sua difesa dai suoi nemici (I nemici sono innanzi tutto i demoni Cf. Ef 6,12); ed è “mio redentore”, perché con la sua legge e la sua grazia lo ha strappato dal buio dell’ignoranza e del peccato.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Colossési
Cristo Gesù è immagine del Dio invisibile,
primogenito di tutta la creazione,
perché in lui furono create tutte le cose
nei cieli e sulla terra,
quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni, Principati e Potenze.
Tutte le cose sono state create
per mezzo di lui e in vista di lui.
Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono.
Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa.
Egli è principio,primogenito di quelli che risorgono dai morti,
perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose.
È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza
e che per mezzo di lui e in vista di lui
siano riconciliate tutte le cose,
avendo pacificato con il sangue della sua croce
sia le cose che stanno sulla terra,
sia quelle che stanno nei cieli.
Col 1,15-20

La Lettera ai Colossesi, è stata scritta da S.Paolo durante la sua prigionia a Roma, attorno al 62; (altri esperti sostengono che l’autore della lettera sia un suo discepolo e che l’abbia scritta dopo la morte dell’Apostolo (64-67), verso fine I secolo). Probabilmente Paolo non si era mai recato a Colosse, che era allora una piccola città dell’entroterra dell’Asia minore (circa 124 km a nord di Efeso) e il Vangelo era stato portato lì da alcuni missionari da Efeso, fra questi Èpafra, al quale Paolo dà la sua approvazione all’inizio della lettera (1,7).
La lettera è composta da 4 capitoli contenenti meditazioni teologiche su Gesù, la Chiesa, la salvezza per grazia, ed infine alcune , esortazioni di condotta morale.
Il brano riporta il celebre inno cristologico, che inizia con una ampia formula di ringraziamento, poi Paolo esprime mediante un dittico il primato di Cristo:
Nell’ordine della creazione naturale:
Cristo Gesù è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: … Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono.
Poi nell’ordine della “ricreazione” soprannaturale, cioè dal punto di vista salvifico
Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.
Il soggetto è Cristo preesistente, sempre però considerato nella persona storica ed unica del Figlio di Dio fatto uomo. E’ proprio questo essere concreto ed incarnato che è detto immagine di Dio, perchè riflette in una natura umana e visibile l’immagine di Dio-invisibile. E’ questo Cristo incarnato che può essere detto primogenito di tutta la creazione e che gode di un primato unico . Nell’ordine poi della salvezza, egli può essere considerato il capo della Chiesa, perchè è il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, ed è Colui che ha unito a sé tutte le cose.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».
Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre.
Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».
Lc 10 , 25-37

La parabola molto conosciuta, quella del Buon Samaritano, l’evangelista Luca la inserisce nel cosiddetto capitolo missionario che inizia con Gesù che designa altri settantadue discepoli e li manda in missione. Chi segue veramente Cristo deve sentirsi missionario del suo Vangelo, ed essere missionari significa anche farsi samaritani per gli altri.
Il brano inizia dalla domanda avanzata da un dottore della Legge, che per mettere alla prova Gesù chiese: : “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”.
Il dottore con questa domanda voleva controllare se Gesù impartisse insegnamenti contrari alla legge e alla tradizione e trarne motivo di accusa. Gesù, ancora una volta, non cade nel tranello e risponde:.
“Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?”. Gesù sa che colui che pone la domanda è un esperto della legge, che conosce benissimo la risposta. Ecco perché, facendo ricorso ad una dialettica antica, risponde ponendo a sua volta due domande, lasciando così pronunciare la risposta al suo interlocutore. Le domande, poste da Gesù, sembrano simili, ma non lo sono; una cosa è “Cosa c’è scritto nella legge” e un’altra è “Come leggi”, cioè come si interpreta quello che c’è scritto.. Lo scriba rispose: : "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore... e il prossimo tuo come te stesso“. Lo scriba risponde citando il cosiddetto Shemà Israel…, professione di fede del pio israelita. La risposta mette insieme versetti del Deuteronomio (6,5) e del Levitico (19,18).. Come si può notare, Luca evita di ripetere il verbo amerai, questo perché si tratta di un solo precetto che se anche porta verso obiettivi distinti questi non diversi. Amare Dio e amare il prossimo è la stessa cosa; l’uno non è possibile senza l’altro.
Gesù allora disse: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai” condividendo la risposta del dottore.
“Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?”.
Il dottore poteva essere soddisfatto, ma non arrende e pone una nuova domanda sempre per mettere Gesù in difficoltà. Il problema che assilla questo esperto della legge è capire chi è il prossimo. In quel tempo c’era una discussione intorno a chi dovesse essere considerato, per un israelita, suo prossimo: i più generosi arrivavano a considerare prossimo i connazionali, i parenti e i proseliti; altri restringevano il campo, escludendo il nemico personale, chi non apparteneva al proprio partito e la pensava diversamente, come facevano i farisei. Quindi la domanda era importante. Gesù risponde raccontando la parabola:
“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto ” Di quest’uomo sappiamo che stava tornando da Gerusalemme ed era diretto a Gerico. Si può notare che sta facendo un cammino a ritroso rispetto a Gesù, che sta andando a Gerusalemme (Lc 9,51). Gerico è la città più bassa della terra, è ad oltre 300 metri sotto il livello del mare, quindi indica un luogo di morte, va controcorrente rispetto a Cristo, ma addirittura si allontana anche da Gerusalemme, luogo della presenza di Dio.
L’immagine di quest’uomo che scende da Gerusalemme a Gerico, che giace mezzo morto pieno di ferite, a cui viene portato via tutto, è l’emblema dell’isolamento del dolore. Egli rimane solo con il peso insostenibile del male.
“Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre”. Il sacerdote è il custode della Legge e il levita è l’addetto al culto. Questi lo vedono e gli girano intorno e continuano per la loro strada, con totale indifferenza; vedono, ma non provvedono.
Alla luce di quanto era contemplato nei loro regolamenti si può dire che il sacerdote e il levita pensano che l’uomo sia morto e non potevano toccare un cadavere, altrimenti si sarebbero contaminati; stavano andando a prestare il loro culto nel tempio e quindi dovevano sottrarsi all’impurità. Essi, quindi preferiscono il culto, il loro servizio religioso, all’esercizio della carità. Questi hanno paura di contaminarsi per questo non si compromettono!
“Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione.”
I samaritani non appartenevano del tutto al popolo di Dio: addirittura erano considerati dai giudei quasi eretici; eppure proprio uno di loro riconosce l’uomo nel bisogno e si china su di lui. Egli dimostra un amore spontaneo e disinteressato, tenero e servizievole, personale ed efficace. Il samaritano, come il sacerdote e il levita, vede, ma a differenza loro, si commosse.
“Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura”
Il samaritano non solo va verso l’uomo, lo vede e si commuove, ma anche si china su di lui per curarlo, versando vino per purificare le ferite e olio per lenirle. Egli si sporca le mani, non ha paura di contaminarsi.
Il samaritano che si china è immagine di Dio che si china sulle ferite dell’uomo. Dio in Gesù Cristo si è chinato, cioè è sceso al nostro livello, ha svuotato completamente se stesso assumendo una condizione di schiavo diventando simile agli uomini (Fil 2,7).
“lo portò in un albergo e si prese cura di lui” La locanda rappresenta la Chiesa, dove Gesù vuole riunire quanti sono feriti dalla vita. È bello pensare la Chiesa, come dice Papa Francesco, come ad un ospedale da campo dopo una battaglia in cui è' inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto" ”. Si nota che il Samaritano non rivolge alcuna parola al mal capitato; nemmeno chiede il perché di quello che è successo e questo ci fa capire che l’amore non ha bisogno di esprimersi con le parole; che il dolore non chiede ragioni. Il silenzio del buon Samaritano è un amore che non ha bisogno di parole!
“Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. I due denari impegnati dal samaritano rappresentano ciò che serve per vivere bene in attesa che il Signore ritorni. I Padri della Chiesa vedono ciò che Gesù lascia per la nostra salvezza: Sacra Scrittura e i Sacramenti; questi sono strumenti di grazia che aiutano nel cammino verso di Lui.
Gesù termina l’esposizione della sua parabola con una domanda: “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”.
Gesù ha capovolto, dunque, la domanda iniziale: la questione vera non è più “«Chi è il mio prossimo?”, ma “A chi posso farmi prossimo?”. Sapere chi è il prossimo, senza farsi prossimo non serve a molto. Questo il grande insegnamento finale di Gesù!
“Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così”
In questo caso la parola “compassione” racchiude due concetti propri di Dio: fedeltà e solidarietà. Dio è fedele all’uomo quando è a lui solidale, quando cioè viene in aiuto alle sue esigenze. È questa la compassione che Gesù vuole: fedeltà a Dio è solidarietà verso i bisognosi.
Lo scriba questo l’ha compreso bene! Gesù quindi conferma la sua risposta e lo invita a fare altrettanto.
Solo chi soffre con chi soffre vive la carità; le ferite della vita non cercano spiegazione ma condivisione e compassione ed è questa compassione che Dio ci ha rivelato in Cristo.

 

*****

“Oggi la liturgia ci propone la parabola detta del “buon samaritano”, tratta dal Vangelo di Luca . Essa, nel suo racconto semplice e stimolante, indica uno stile di vita, il cui baricentro non siamo noi stessi, ma gli altri, con le loro difficoltà, che incontriamo sul nostro cammino e che ci interpellano. Gli altri ci interpellano. E quando gli altri non ci interpellano, qualcosa lì non funziona; qualcosa in quel cuore non è cristiano. Gesù usa questa parabola nel dialogo con un dottore della legge, a proposito del duplice comandamento che permette di entrare nella vita eterna: amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come sé stessi.. “Sì – replica quel dottore della legge – ma, dimmi, chi è il mio prossimo?”.
Anche noi possiamo porci questa domanda: chi è il mio prossimo? Chi devo amare come me stesso? I miei parenti? I miei amici? I miei connazionali? Quelli della mia stessa religione?... Chi è il mio prossimo?
E Gesù risponde con questa parabola. Un uomo, lungo la strada da Gerusalemme a Gerico, è stato assalito dai briganti, malmenato e abbandonato. Per quella strada passano prima un sacerdote e poi un levita, i quali, pur vedendo l’uomo ferito, non si fermano e tirano dritto. Passa poi un samaritano, cioè un abitante della Samaria, e come tale disprezzato dai giudei perché non osservante della vera religione; e invece lui, proprio lui, quando vide quel povero sventurato, «ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite […], lo portò in un albergo e si prese cura di lui» ; e il giorno dopo lo affidò alle cure dell’albergatore, pagò per lui e disse che avrebbe pagato anche tutto il resto.
A questo punto Gesù si rivolge al dottore della legge e gli chiede: «Chi di questi tre – il sacerdote, il levita, il samaritano – ti sembra sia stato il prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». E quello naturalmente - perché era intelligente - risponde: «Chi ha avuto compassione di lui» . In questo modo Gesù ha ribaltato completamente la prospettiva iniziale del dottore della legge – e anche la nostra! –: non devo catalogare gli altri per decidere chi è il mio prossimo e chi non lo è. Dipende da me essere o non essere prossimo - la decisione è mia -, dipende da me essere o non essere prossimo della persona che incontro e che ha bisogno di aiuto, anche se estranea o magari ostile. E Gesù conclude: «Va’ e anche tu fa’ così» . Bella lezione! E lo ripete a ciascuno di noi: «Va’ e anche tu fa’ così», fatti prossimo del fratello e della sorella che vedi in difficoltà. “Va’ e anche tu fa’ così”. Fare opere buone, non solo dire parole che vanno al vento. Mi viene in mente quella canzone: “Parole, parole, parole”. No. Fare, fare. E mediante le opere buone che compiamo con amore e con gioia verso il prossimo, la nostra fede germoglia e porta frutto. Domandiamoci – ognuno di noi risponda nel proprio cuore – domandiamoci: la nostra fede è feconda? La nostra fede produce opere buone? Oppure è piuttosto sterile, e quindi più morta che viva? Mi faccio prossimo o semplicemente passo accanto? Sono di quelli che selezionano la gente secondo il proprio piacere? Queste domande è bene farcele e farcele spesso, perché alla fine saremo giudicati sulle opere di misericordia. Il Signore potrà dirci: Ma tu, ti ricordi quella volta sulla strada da Gerusalemme a Gerico? Quell’uomo mezzo morto ero io. Ti ricordi? Quel bambino affamato ero io. Ti ricordi? Quel migrante che tanti vogliono cacciare via ero io. Quei nonni soli, abbandonati nelle case di riposo, ero io. Quell’ammalato solo in ospedale, che nessuno va a trovare, ero io.
Ci aiuti la Vergine Maria a camminare sulla via dell’amore, amore generoso verso gli altri, la via del buon samaritano.
Ci aiuti a vivere il comandamento principale che Cristo ci ha lasciato. E’ questa la strada per entrare nella vita eterna.”

Papa Francesco Parte dell’ Angelus del 3 luglio 2016

Le letture che la liturgia di questa domenica ci presenta richiamano la missionarietà di tutta la Chiesa e non solo di alcuni suoi membri. L’invio in missione dei discepoli da parte di Gesù coinvolge oggi la Chiesa intera, non solo alcuni suoi membri:tutti possono essere missionari, tutti possono sentire quella chiamata di Gesù e andare avanti e annunciare il Regno!
Nella prima lettura, il profeta Isaia dopo il ritorno dall’esilio, ricorda agli sfiduciati la promessa divina: Gerusalemme sarà una città di prosperità e di gioia; in essa Dio si presenterà come consolatore del suo popolo. La pace, cioè la prosperità, la benedizione, è per coloro che l’aspettano e accolgono il vangelo.
Nella seconda lettura, San Paolo concludendo la sua lettera ai Galati, parla ancora di coloro che annunciano un altro vangelo e afferma che per lui non c’è altro vanto che la croce di Cristo. Solo la croce infatti, e chi la vive nella propria vita, può abbattere ciò che è vecchio e donare al mondo una nuova vita, che è fatta di unità e di pace.
Nel Vangelo, Luca ci racconta che Gesù sceglie settantadue collaboratori e li manda davanti a sé. Spiega prima loro che nel campo di Dio c’è crisi di operai, non di lavoro. E comanda di pregare “il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! “ Questi discepoli dovranno avere la mitezza dell’agnello, essere liberi da ogni peso, e legami terreni, portare pace e annunciare la venuta del Regno di Dio.
Il risultato è sorprendente e i discepoli pieni di gioia al ritorno riferiscono che anche i demòni sono sottomessi. Gesù partecipa alla loro gioia perchè vede che il potere di Satana sta per incrinarsi, ma li esorta a rallegrarsi soprattutto perchè i loro nomi sono scritti nei cieli».

Dal libro del profeta Isaìa
Rallegratevi con Gerusalemme,
esultate per essa tutti voi che l’amate.
Sfavillate con essa di gioia
tutti voi che per essa eravate in lutto.
Così sarete allattati e vi sazierete
al seno delle sue consolazioni;
succhierete e vi delizierete
al petto della sua gloria.
Perché così dice il Signore:
«Ecco, io farò scorrere verso di essa,
come un fiume, la pace;
come un torrente in piena, la gloria delle genti.
Voi sarete allattati e portati in braccio,
e sulle ginocchia sarete accarezzati.
Come una madre consola un figlio,
così io vi consolerò;
a Gerusalemme sarete consolati.
Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore,
le vostre ossa saranno rigogliose come l’erba.
La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi»
Is 66,10-14c

Questo brano appartiene al "Terzo Isaia" (TritoIsaia) (capitoli 56-66), il profeta della situazione successiva al ritorno dall'esilio babilonese. Dopo l’editto di Ciro che autorizzava il ritorno dall’esilio e la ricostruzione di Gerusalemme, il profeta vede di nuovo la città della storia della salvezza avvolta dall’amore di Dio e rivolge il suo messaggio agli israeliti impegnati a ricostruire la comunità religiosa di Gerusalemme.
Il profeta si presenta come l’inviato dello Spirito del Signore per annunciare la buona notizia ai poveri e a prendersi cura dei disperati (61,1). Davanti al problema del rifiuto e del disprezzo nei confronti degli stranieri, alcuni suoi scritti rivelano un atteggiamento eccezionalmente aperto verso di loro, accetta addirittura che partecipino al culto insieme alla comunità (56,3-7). In altri invece annuncia un giudizio tremendo contro le nazioni straniere (63,1-6; 66,14-16; 66,24). A partire dal c. 60, emerge una svolta impressionante: se prima abbondavano gli oracoli di giudizio e di castigo, ora sono le promesse di salvezza a caratterizzare i suoi interventi. I cc. 63-64 sono una meditazione sulla storia come luogo della rivelazione di Dio, e nei cc. 65-66 (da cui è preso il nostro brano liturgico) si avverte un clima pieno di speranza e gioia. Israele ha un valido motivo per sperare in un futuro migliore: Dio non abbandonerà il suo popolo. Alla fine del libro, la prospettiva si universalizza come mai in precedenza: tutti i popoli formano con Israele una grande comunità cultuale e liturgica: “Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria”
I versetti del brano liturgico sono un vero inno di gioia per la rinascita di Gerusalemme. Anzitutto il profeta invita coloro che amano la città santa a rallegrarsi con lei. L’invito è rivolto a tutti gli abitanti di Gerusalemme, soprattutto quelli che erano desolati e depressi per la situazione di rovina in cui era caduta la città. Ora tutto è cambiato, la città è risorta, ed essi devono rallegrarsi. Gerusalemme è immaginata come una madre che allatta i suoi figli, li riempie di consolazione e li inonda della sua gloria.
L’abbondanza di cui gode la città non è frutto del lavoro dei suoi abitanti, ma il segno di una benevolenza divina che raggiunge abbondantemente tutti i suoi abitanti. Infatti essa deriva direttamente da Dio, il quale farà scorrere verso di essa, come un fiume ricco d’acqua, la pace, e con questa la gloria delle genti
Viene qui ripreso un tema tipico del Terzo Isaia che descrive il futuro radioso di Gerusalemme come l’arrivo dei gentili che, in pellegrinaggio, si recano al tempio per adorare il Dio di Israele portando con sé in dono tutti i loro beni (Is 60,1-22). Ritorna poi nuovamente l’immagine della madre che allatta i suoi figli, li porta in braccio, li fa sedere sulle sue ginocchia e li accarezza. Questa volta il soggetto non è più direttamente la città, ma Dio stesso che ha profuso in essa i suoi doni. Nei confronti degli abitanti di Gerusalemme, Dio è come una madre che consola i suoi figli, e lo fa proprio nella città in cui vivono. Infine Dio fa' una solenne promessa: “Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore,le vostre ossa saranno rigogliose come l’erba. La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi”.
Si può notare come in un momento nel quale in primo piano si trova la preoccupazione per la ricostruzione del tempio, questo brano va veramente contro corrente. In esso l’accento viene posto non sull’edificio materiale, ma sulla nascita di un popolo fedele a Dio. Senza di esso il tempio non ha ragione di esistere. Non si tratta però dell’effetto di un’iniziativa umana, ma di un’opera compiuta direttamente da Dio. Solo Dio infatti può dare vita a un popolo. Si tratta quindi di un dono straordinario, di fronte al quale non c’è altro da fare che rallegrarsi con animo grato perchè la nascita di una comunità giusta e santa, prospera e pacifica, è un vero miracolo di Dio. La nascita di una tale comunità è una cosa meravigliosa e inattesa, è questa la speranza che il Terzo Isaia coltiva e mantiene viva tra i giudei rimpatriati a Gerusalemme.

Salmo 65 - Acclamate Dio, voi tutti della terra.
Acclamate Dio, voi tutti della terra,
cantate la gloria del suo nome,
dategli gloria con la lode.
Dite a Dio: «Terribili sono le tue opere!».
«A te si prostri tutta la terra,
a te canti inni, canti al tuo nome».
Venite e vedete le opere di Dio,
terribile nel suo agire sugli uomini.

Egli cambiò il mare in terraferma;
passarono a piedi il fiume:
per questo in lui esultiamo di gioia.
Con la sua forza domina in eterno.

Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio,
e narrerò quanto per me ha fatto.
Sia benedetto Dio, che non ha respinto
la mia preghiera,
non mi ha negato la sua misericordia.

Il salmo è stato scritto nel postesilio, come è facile ricavare dalla menzione di grandi prove nazionali:
“Ci hai purificati come si purifica l’argento (…). Hai fatto cavalcare uomini sopra le nostre teste (…), poi ci hai fatto uscire verso l'abbondanza”. L’universalismo del salmo è espresso nell’invito a tutta la terra a dare gloria a Dio. Il salmista anima poi il gruppo orante che lo attornia a presentare a Dio il desiderio che sia celebrato in tutta la terra: “Dite a Dio: ”. Il salmista riprende il suo invito a tutte le genti, invitandole ad avvicinarsi ad Israele per udire le grandi opere che Dio ha compiuto per il suo popolo, compresa la liberazione da Babilonia: “Venite e vedete le opere di Dio, terribile nel suo agire sugli uomini. Egli cambiò il mare in terra ferma…”. Dio ha piegato i nemici del suo popolo, compresi i babilonesi: “contro di lui non si sollevino i ribelli”. Il salmista ancora invita i popoli a lodare Dio: “Popoli, benedite il nostro Dio, fate risuonare la voce della sua lode…”. Poi il salmista si rivolge direttamente a Dio facendo memoria della catastrofe della deportazione a Babilonia: “O Dio, tu ci hai messi alla prova; ci hai purificati come si purifica l’argento (…). Hai fatto cavalcare uomini sopra le nostre teste (…), poi ci hai fatto uscire verso l'abbondanza”. Il cavalcare uomini sopra le teste era una efferatezza egizia, assira, babilonese e poi anche persiana. I vinti venivano legati e calpestati dai carri dei vincitori. Il salmista, dopo essersi rivolto a Dio nella memoria dei grandi avvenimenti della nazione, che sente suoi per appartenenza, si riferisce a Dio come persona singola, che ha una sua storia di dolore, e che nell’angoscia ha pronunciato voti. Questi voti li assolverà perché è stato beneficato da Dio secondo il suo desiderio espresso nella preghiera, ma anche secondo la giustizia di Dio: “Se nel mio cuore avessi cercato il male, il Signore non mi avrebbe ascoltato”.
Il salmo, che noi recitiamo in Cristo, ci collega alla grande storia di Israele, alla quale siamo stati innestati per mezzo di Cristo (Cf. Rm 11,24), il quale è la ragione di ogni liberazione, di ogni grazia che viene dal Padre. Noi entriamo nelle sue chiese non offrendo sacrifici di montoni, capri e tori, ma il sacrificio di noi stessi, in unione al sacrificio del Cristo presente sugli altari (Cf. Ps 39,7). Perfettamente nostra è l’invocazione a tutte le genti a venire e vedere. A vedere in noi, nella Chiesa, la grande opera della redenzione.
commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Galati
Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo.
Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura. E su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l’Israele di Dio.
D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo.
La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito, fratelli. Amen.
Gal 6,14-18

Il brano liturgico è tratto dall’epilogo della lettera ai Galati nella quale Paolo traduce in termini esortativi le sue riflessioni sulla giustificazione per mezzo della fede e non delle opere. L’Apostolo inizia l’epilogo facendo notare che esso è scritto di sua mano, forse per sottolineare quanto lui tenga a quanto dice. Poi Paolo si lascia andare e torna ad accusare coloro che vogliono imporre ai Galati la circoncisione e questo per vari motivi di interesse personale, e il brano inizia sottolineando che, diversamente da quanto facevano i suoi avversari, il suo vanto consiste:
“nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo”. In altre parole, aderendo pienamente alla fede a Gesù crocifisso, egli ha rotto radicalmente con il mondo e con tutti i suoi desideri accettandone tutte le conseguenze in termini di sofferenze e di persecuzioni.
Paolo poi prosegue sottolineando che “Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura”. Con questa espressione, egli indica il nuovo rapporto con Dio, proprio dei tempi escatologici, che si consegue in forza della fede in Cristo (v. 2Cor 5,17). Paolo ribadisce dunque ciò che già prima aveva affermato: quello che importa non è la circoncisione, ma “la fede che opera per mezzo dell’amore” (Gal 5,6). A tutti coloro che condividono questo principio egli assicura quella pace e quella misericordia che saranno le prerogative dell’ “Israele di Dio”.
Egli conclude con una severa ammonizione:
“D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo”.
Le “stigmate di Gesù” non sono certo le ferite dei chiodi nelle mani e nei piedi, che sono state prerogativa di alcuni santi della storia cristiana, come S.Francesco d’Assisi e S.Pio, ma le conseguenze, visibili sul suo corpo, delle sofferenze e delle persecuzioni subite a causa di Cristo. Sono queste stigmate che per lui prendono il posto del marchio impresso nella carne dalla circoncisione (Gal 5,11). Nessuno dunque ha il diritto di porre ostacoli alla sua opera apostolica, accusandolo e denigrandolo presso le comunità da lui fondate.
Dopo aver così fortemente riaffermato l’autenticità delle sue scelte, Paolo giunge ai saluti: La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito, fratelli. Amen.
In questa formula, si può facilmente intravedere l’affetto che l’apostolo conserva ai Galati essi restano per lui fratelli, con i quali vuole condividere fino in fondo la grazia di Gesù Cristo.

Dal vangelo secondo Luca
[In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi.
Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.
In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra.
Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”.] Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città».
I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».
Lc 10, 1-12, 17-20

In questo brano del Vangelo, Luca ci racconta che Gesù, in cammino verso Gerusalemme, chiama a condividere la sua predicazione, altri settantadue discepoli, e il testo precisa:, " designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi” . Il n.72 è sicuramente simbolico e in questo caso viene preso per sottolineare l’aspetto universale della missione dato che la tradizione giudaica contemplava nel n. 72 tutte le nazioni pagane sparse per il mondo.
Poi Gesù fa le sue raccomandazioni e dice: “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! “ L’immagine della messe ormai matura richiama il giorno del giudizio finale e la prospettiva è dunque escatologica: la fine è ormai vicina e Gesù cerca dei collaboratori che lo aiutino a raccogliere il popolo di Israele e condurlo incontro al suo Dio. Poi Gesù dà istruzioni sull’equipaggiamento dei discepoli missionari e prospetta loro anche l’eventualità del rifiuto: Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città».
Al rifiuto da parte di una città i discepoli devono reagire scuotendo sui responsabili la polvere dei loro piedi. L’atto di scuotere la polvere dei piedi equivale a un gesto profetico che indica l’esclusione dalla salvezza escatologica e la minaccia della condanna nel giudizio. La mancata adesione al vangelo comporta nel giorno del giudizio finale una sorte peggiore di quella toccata alla città di Sodoma, prototipo nell’A.T. della città maledetta da Dio per i suoi peccati.
Luca descrive il ritorno dei settantadue discepoli che tornarono pieni di gioia e dicevano: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». E’ evidente che ciò che più rallegra gli inviati è la sottomissione dei demoni.
Luca vede la missione essenzialmente come una liberazione dell’uomo dalle forze sataniche del male che secondo la mentalità corrente si rendevano palesi nelle malattie. In risposta a quanto riferiscono i discepoli Gesù commenta: “Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli”.
La visione della caduta di satana risente del linguaggio apocalittico del tempo: in Is 14,12 la sconfitta del re di Babilonia viene immaginata come la caduta di Lucifero, la stella del mattino.
Con questa immagine Gesù dichiara che, con la venuta del regno di Dio, che ha iniziato a esercitare la sua azione mediante la sua opera, le potenze del male sono private del loro dominio sull’umanità. Egli aggiunge: “Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi” Il potere conferito da Gesù si esercita su serpenti e scorpioni, che rappresentano le forze del male che si oppongono a loro e su ogni potenza del nemico senza esserne danneggiati.
Questa espressione è ricavata dal Salmo 91,13 che era stato citato esplicitamente da satana in occasione della tentazione di Gesù nel deserto (Lc 4,10-11).
Pur avendo ricevuto tale potere, i discepoli non devono rallegrarsi per questo, ma piuttosto perché i loro nomi sono scritti nei cieli cioè perché ad essi è riservato come ricompensa il regno di Dio.
Ciò che conta non è il risultato dell’azione evangelizzatrice, ma lo spirito con cui è portata a termine.
Alla fine di ogni esperienza missionaria c’è la celebrazione universale della gloria di Dio e della salvezza del mondo: ma il cammino di questa esperienza (che si identifica con la nostra esperienza quotidiana di testimoni cristiani) è un cammino complesso e difficile. Gesù continua a ricordarci che: “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai” … sono parole che oggi, in tempi di scarse vocazioni e di crescente egoismo e individualismo, risultano chiarissime e allarmanti. Quando poi Gesù dice: “ vi mando come agnelli in mezzo a lupi” ricorda a tutti che il cristiano sta dalla parte della mansuetudine, e deve farsi messaggero di pace in una società che non smette di esaltare i conflitti e il proprio tornaconto.

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“L ’odierna pagina evangelica, tratta dal capitolo decimo del Vangelo di Luca , ci fa capire quanto è necessario invocare Dio, «il signore della messe, perché mandi operai per la sua messe». Gli “operai” di cui parla Gesù sono i missionari del Regno di Dio, che Egli stesso chiamava e inviava «a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Loro compito è annunciare un messaggio di salvezza rivolto a tutti. I missionari annunziano sempre un messaggio di salvezza a tutti; non solo i missionari che vanno lontano, anche noi, missionari cristiani che diciamo una buona parola di salvezza. E questo è il dono che ci dà Gesù con lo Spirito Santo. Questo annuncio è dire: «E’ vicino a voi il Regno di Dio» , perché Gesù ha “avvicinato” Dio a noi; Dio si è fatto uno di noi; in Gesù, Dio regna in mezzo a noi, il suo amore misericordioso vince il peccato e la miseria umana.
E questa è la Buona Notizia che gli “operai” devono portare a tutti: un messaggio di speranza e di consolazione, di pace e di carità. Gesù, quando manda i discepoli davanti a sé nei villaggi, raccomanda loro: «Prima dite: “Pace a questa casa!”. […] Guarite i malati che vi si trovano» . Tutto questo significa che il Regno di Dio si costruisce giorno per giorno e offre già su questa terra i suoi frutti di conversione, di purificazione, di amore e di consolazione tra gli uomini. È una cosa bella! Costruire giorno per giorno questo Regno di Dio che si va facendo. Non distruggere, costruire!
Con quale spirito il discepolo di Gesù dovrà svolgere questa missione? Anzitutto dovrà essere consapevole della realtà difficile e talvolta ostile che lo attende. Gesù non risparmia parole su questo! Gesù dice: «Vi mando come agnelli in mezzo a lupi». Chiarissimo. L’ostilità è sempre all’inizio delle persecuzioni dei cristiani; perché Gesù sa che la missione è ostacolata dall’opera del maligno. Per questo, l’operaio del Vangelo si sforzerà di essere libero da condizionamenti umani di ogni genere, non portando borsa, né sacca, né sandali, come ha raccomandato Gesù, per fare affidamento soltanto sulla potenza della Croce di Cristo. Questo significa abbandonare ogni motivo di vanto personale, di carrierismo o fame di potere, e farsi umilmente strumenti della salvezza operata dal sacrificio di Gesù.
Quella del cristiano nel mondo è una missione stupenda, è una missione destinata a tutti, è una missione di servizio, nessuno escluso; essa richiede tanta generosità e soprattutto lo sguardo e il cuore rivolti in alto, per invocare l’aiuto del Signore. C’è tanto bisogno di cristiani che testimoniano con gioia il Vangelo nella vita di ogni giorno. I discepoli, inviati da Gesù, «tornarono pieni di gioia».
Quando noi facciamo questo, il cuore si riempie di gioia. E questa espressione mi fa pensare a quanto la Chiesa gioisce, si rallegra quando i suoi figli ricevono la Buona Notizia grazie alla dedizione di tanti uomini e donne che quotidianamente annunciano il Vangelo: sacerdoti - quei bravi parroci che tutti conosciamo -, suore, consacrate, missionarie, missionari… E mi domando - sentite la domanda -: quanti di voi giovani che adesso siete presenti oggi nella piazza, sentono la chiamata del Signore a seguirlo? Non abbiate paura! Siate coraggiosi e portare agli altri questa fiaccola dello zelo apostolico che ci è stata data da questi esemplari discepoli.”
Papa Francesco Parte dell’ Angelus del 3 luglio 2016

Le letture liturgiche di questa domenica ci aiutano a porre la nostra attenzione sulla sequela di Gesù: seguire il Signore è percorrere la sua stessa strada.
La prima lettura, tratta dal primo dei Re, il profeta Elia gettando il suo mantello sulle spalle del discepolo Eliseo, lo invita a seguirlo e lo riveste del suo stesso ministero profetico. Eliseo accetta e per lui si aprirà per sempre l’orizzonte nuovo, luminoso, ma anche tormentato della missione profetica.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Galati, San Paolo afferma che con Cristo siamo stati chiamati a libertà, e la libertà del cristiano dà la capacità di portare a compimento la legge e di mettersi al servizio del prossimo. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
Nel Vangelo, San Luca ci fa comprendere che chi intende mettersi alla sequela di Gesù non deve più guardare al passato, ma è chiamato ad occuparsi di nuova vita. Deve perciò tagliare i legami con le idee vecchie e con gli interessi individuali, essere disposto a tutto, e avere il coraggio, di andare anche controcorrente.

Dal primo libro dei Re
In quei giorni, il Signore disse a Elìa: «Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto».
Partito di lì, Elìa trovò Eliseo, figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elìa, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quello lasciò i buoi e corse dietro a Elìa, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elìa disse: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te». Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con la legna del giogo dei buoi fece cuocere la carne e la diede al popolo, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elìa, entrando al suo servizio.
1Re19,16b, 19-21

Il primo libro dei re, come il secondo, è un testo contenuto sia nella Bibbia ebraica (Tanakh, dove sono contati come un testo unico) che in quella cristiana. Sono stati scritti entrambi in ebraico e secondo molti esperti, la loro redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte, in particolare della cosiddetta fonte deuteronomista del VII secolo a.C., integrata da tradizioni successive. E’ composto da 22 capitoli descriventi la morte di Davide, Salomone, la scissione del Regno di Israele dal Regno di Giuda, il ministero del Profeta Elia (nel nord) e i vari re di Israele e Giuda, eventi datati attorno al 970-850 a.C..
Il ciclo di Elia (1Re 17,1 - 22,54; 2Re 1) rappresenta, insieme a quello di Eliseo, il nucleo centrale dei due libri dei Re, di cui mette chiaramente in luce il carattere profetico.
Riepilogando l’antefatto del brano che la liturgia ci propone, sappiamo che dopo il sacrificio del Carmelo (1Re 18,16-46), il profeta Elia, perseguitato da Gezabele, moglie di Acab, si reca al monte Oreb. Durante il cammino nel deserto è sostenuto da Dio, come Israele al tempo dell’esodo, con un pane e un’acqua miracolosi (1Re 19,1-8). Dopo aver camminato quaranta giorni e quaranta notti nel deserto, egli giunge al monte della rivelazione, dove Dio gli appare non nell’uragano, nel terremoto o nei lampi, ma “nel mormorio di un vento leggero” e questo significa che anche Elia, come Mosè, riceve la parola di Dio, non però mediante i fenomeni esterni della teofania, bensì nell’intimo del suo cuore, “pieno di zelo per il Signore”.
Sul monte Oreb Dio affida ad Elia tre compiti il cui scopo è quello di preparare le persone che scateneranno il castigo divino sul popolo peccatore (1Re 19,15-16). Per prima cosa dovrà consacrare Cazael come re di Damasco (2Re 8,7-15); in seguito dovrà ungere Ieu come re di Israele (2Re 9,1-13); infine dovrà ungere come suo successore Eliseo figlio di Safat (1Re 19,19-21). Elia non sarà dunque solo nella sua adesione incondizionata a DIO! Di ritorno dall’Oreb, Elia adempie per primo il terzo dei compiti che gli erano stati affidato, la chiamata di Eliseo.
Il testo liturgico si apre con l’ordine dato da DIO ad sull’Oreb: “Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto”. La scena dell’incontro di Elia con Eliseo si svolge probabilmente nel villaggio stesso in cui viveva Eliseo, Abel-Mecola. Eliseo è intento a un impegnativo lavoro agricolo, infatti: “arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo”. Al vederlo, “Elìa, gli gettò addosso il suo mantello”.
La sacralità del mantello di Elia apparirà in seguito, nella scena del congedo di Elia da Eliseo (2Re 2,8.l3-14), dove sono attribuite a esso proprietà miracolose. Il gesto di Elia però non ha un carattere miracoloso, e neppure indica un passaggio di poteri da Elia al nuovo discepolo. Questi due significati del mantello appariranno in occasione della dipartita di Elia. Qui invece si tratta di un segno di appropriazione, con il quale Dio prende possesso di un uomo per conferirgli una missione. Eliseo comprende immediatamente il significato del gesto di Elia infatti lascia subito i buoi e corre dietro a Elìa, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elìa gli risponde: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te».
Da quel momento la vita di Eliseo, contadino di Abel-Mecolà, villaggio della Transgiordania, è stravolta. Gli è stato consentito solo il congedo ufficiale dal suo nucleo familiare attraverso un pasto d’addio cotto proprio con gli attrezzi dell’aratro, che erano il simbolo della sua antica professione. Poi per Eliseo, si aprirà per sempre l’orizzonte nuovo, luminoso, ma anche tormentato della missione profetica
La chiamata di Eliseo dà un’idea dell’origine e della radicalità della vocazione profetica. Infatti non è Eliseo che si mette a disposizione di Dio e neppure Elia che decide di chiamarlo al suo servizio, ma è Dio stesso che dà a Elia il compito di andarlo a cercare e di coinvolgerlo nella missione di guida spirituale del popolo.

Salmo 15 - Sei tu, Signore, l’ unico mio bene.
Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Ho detto al Signore: «Il mio Signore sei tu».
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.

Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio animo mi istruisce.
Io pongo sempre davanti a me il Signore,
sta alla mia destra, non potrò vacillare.

Per questo gioisce il mio cuore
ed esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,
perché non abbandonerai la mia vita negli inferi,
né lascerai che il tuo fedele veda la fossa.

Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena alla tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.

Il salmista si rivolge a Dio con pace avendo eletto il Signore, quale suo rifugio. Non mancano a lui le difficoltà, gli avversari violenti. Senza l’unione con lui ogni cosa non sarebbe più per lui un bene. Egli ama i santi, i giusti; nel compimento messianico che è la Chiesa, i fratelli in Cristo. Egli si sente in forte comunione con loro, e trova forza da questo. Gli empi, che incalzano costruendo e affermando idoli, non lo sgomentano perché la sua vita è nelle mani di Dio, e niente per lui sarebbe sulla terra un bene senza il sommo bene, che è Dio: “Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene”. L’orante considera come Dio lo aiuta e conforta e come per lui questo sia tutto. La sorte (il sorteggio) (Cf. Gd 17,1; Nm 26,55; ecc.) che assegnò un tempo i vari territori ai casati di Israele, ora è violata dall’ingiustizia dei dominatori idolatri, ma questo fa comprendere meglio all’orante che la vera sua sorte la sua vera sicurezza e forza è proprio il Signore, che gli dà pace e letizia: “Signore è mia parte di eredità e mio calice”. L’orante non tiene per se tutto questo, ma lo partecipa ai fratelli per un nutrirsi reciproco di luce. Non ha odio per gli empi e non li esclude dalla volontà salvifica di Dio: sono essi stessi ad escludersi da questa volontà con “le loro libagioni di sangue”, cioè i loro crimini, vero culto del male. Il salmista è certo che Dio non lo abbandonerà negli inferi una volta lasciata la terra: “non abbandonerai la mia vita negli inferi”. Ed egli sa che “il tuo Santo”, cioè il Cristo (Cf. At 13,35), avrà - ha avuto - vittoria sulla corruzione della tomba. Il salmista sa che percorrendo giorno dopo giorno “il sentiero della vita”, giungerà all’eterna dolcezza del cielo, alla destra di Dio, che è espressione letteraria indicante il glorioso essere con Dio. In assoluta eccellenza è Cristo che nella gloria è alla destra del Padre.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Galati
Fratelli, Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri! Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.
Gal 5,1. 13-18

Paolo, scrive la lettera ai Galati tra il 50 e il 57 durante il suo terzo viaggio, probabilmente da Efeso o da Macedonia, per controbattere ad una predicazione fatta da alcuni ebrei cristiani, dopo che l'apostolo aveva lasciato la comunità, i quali avevano convinto alcuni Galati che l'insegnamento di Paolo era incompleto e che la salvezza richiedeva il rispetto della Legge di Mosè, in particolare della circoncisione. Paolo condanna tale orientamento, proclamando la libertà dei credenti e la salvezza per mezzo della fede. La lettera è importante anche perchè si trovano delle informazioni storiche sulla vita di Paolo prima della conversione, sulla sua conversione, sugli anni successivi, i suoi rapporti con Pietro, con Gerusalemme, con Barnaba.
Paolo in questo brano inizia la sua esortazione con una frase che è tutto un programma: “Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù”
Dobbiamo tener presente che nel mondo ebraico la libertà era concepita come un dono di Dio, che dopo aver liberato il Suo popolo dalla schiavitù degli egiziani, lo aveva unito a sé mediante l’alleanza e gli aveva dato la Sua legge: lo scopo della legge infatti era quello di creare tra gli israeliti quello spirito di fratellanza e di solidarietà in forza del quale la libertà sarebbe diventata la prerogativa di tutti. In questa prospettiva essi consideravano il codice mosaico come il dono più grande che Dio aveva fatto al suo popolo e la chiamavano “legge di libertà”.
Per Paolo è la liberazione ottenuta da Cristo che dà la libertà piena, infatti egli vede proprio nella liberazione dalla legge il punto di partenza di un cammino serio e impegnativo verso la libertà piena. Ciò si comprende solo ricordando che per lui il termine “legge”, designava un semplice elenco di precetti che l’uomo, con le sue sole forze, doveva compiere per rendersi gradito a Dio. In altre parole la legge, staccata dall’azione liberatrice di Dio, era diventata una pura norma incapace di dare la vita all’uomo peccatore, e come tale era paragonabile al pedagogo che controlla il bambino finché sopraggiunge il maestro (v.3,25) . Solo Cristo ha potuto togliere di mezzo la legge così intesa, in quanto ha liberato l’uomo dal suo peccato e lo ha fatto diventare figlio di Dio.
Nei versetti non riportati dal brano liturgico (vv. 2-12) Paolo aveva messo in guardia i galati nei confronti della circoncisione e di tutto ciò che essa comporta, cioè la pratica di tutta la legge. Coloro che cercano di imporla loro vogliono separarli da Cristo, e così facendo li pongono su una strada sbagliata. Essi devono dunque decidere se stare dalla sua parte o da quella dei suoi avversari. Ma devono anche sapere che nel primo caso scelgono la libertà, mentre nel secondo, pur pensando di fare proprie le prerogative del popolo eletto, scelgono in realtà un regime di schiavitù che svuota il vangelo del suo contenuto essenziale: la croce di Cristo. Il punto che l’apostolo vuole fare capire con chiarezza è uno solo: se egli si contrappone ai giudaizzanti, non è per difendere la sua autorità di apostolo, ma per garantire la verità e l’autenticità del vangelo. I galati possono rifiutare le sue direttive, ma così facendo abbandonano Cristo e rinunziano alla sua grazia.
Nel brano liturgico Paolo afferma: Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso”.
I credenti non solo sono stati liberati, ma sono chiamati alla libertà: la libertà dunque non è solo un dono, ma anche un impegno. Questa libertà però non deve diventare un alibi per vivere secondo la carne, (cioè vivere senza regole e principi morali, in cui ogni cosa che si desidera è permessa), al contrario l’essere diventati liberi deve spingerli a mettersi a servizio gli uni degli altri nell’amore.
Tutta la legge si riassume infatti nel precetto che impone di amare il prossimo come se stessi. Paolo non predica dunque l’abolizione della legge in quanto tale, ma solo la liberazione da una legge concepita come una norma oggettiva da praticare con le proprie forze.
Purtroppo i galati non sono su questa strada, infatti l’apostolo li ammonisce dicendo: “Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!“ Essi vorrebbero praticare la legge, ma intanto vengono meno proprio al suo comandamento fondamentale, e così facendo si distruggono a vicenda.
Paolo passa poi a spiegare come la libertà dalla legge diventi effettiva solo in forza dello Spirito:”Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne.”
Per evitare di cedere ai desideri della carne, ossia ai desideri mondani, che sono all’origine di un comportamento peccaminoso, contrario alle esigenze della legge, il credente deve camminare secondo lo Spirito, cioè lasciarsi guidare dalla potenza di Dio che si manifesta nella sua azione.
Questo concetto lo approfondisce in questo modo:
“La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste”.
Con il termine “carne” Paolo qualifica l’uomo peccatore nel senso che ponendo se stesso egoisticamente al centro di tutte le cose, trasgredisce anche il comandamento del Decalogo “non desiderare” che rappresenta anch’esso, come il comandamento dell’amore, la sintesi di tutti i precetti divini.
Paolo infine conclude: “Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.”
Colui che si lascia guidare dallo Spirito non ha più desideri mondani. La vittoria sul desiderio mondano, e quindi la possibilità di amare i fratelli, dipende dunque essenzialmente dal dono dello Spirito.
In questo testo Paolo mette con forza l’accento sulla libertà in quanto dono che viene fatto da Cristo al credente. Questa consiste fondamentalmente nell’eliminazione di un rapporto servile con la legge.
Paolo sottolinea però con chiarezza che questa libertà non consiste nel fare i propri comodi, ma nell’osservare il precetto fondamentale dell’amore, in cui tutta la legge è riassunta.
Ma la pratica dell’amore non è una cosa che competa all’uomo se prima non ha accettato in se stesso il dono dello Spirito. Solo lo Spirito infatti è capace di sostituire i desideri del mondo con altri desideri che portano all’amore e al dono di sé (questo concetto lo tratta ancora in Rm 5,5; 8,1-4).
Questo dono ha origine fondamentalmente dall’esempio di Cristo, dalla Sua totale dedizione al Padre e ai fratelli. Solo chi assume lo Spirito di Gesù, che è anche lo Spirito di Dio, può essere veramente libero nella pratica dell’amore verso i fratelli.

Dal vangelo secondo Luca
Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.
Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».
Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».
Lc 9, 51-62

Questo brano è tratto dalla seconda parte del vangelo di Luca, che viene denominata “La Salita verso Gerusalemme”.
Il brano inizia con una frase emblematica “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme” e precisa che “mandò messaggeri davanti a sé”. Si può notare un riferimento a Malachia (Ml 3,1) dove Dio invia un angelo a preparare la sua venuta nel tempio di Gerusalemme e Luca interpreta questo incarico come l’invio di messaggeri ufficiali davanti al Messia per preparargli la strada verso Gerusalemme, dove avrebbe portato a termine la Sua missione.
Gli inviati “si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme.” C’è da tener presente che i samaritani erano i nemici tradizionali dei giudei e spesso ne ostacolavano il passaggio nella loro regione, per questo di solito i giudei evitavano di passare nel loro territorio.
Luca e Giovanni (Lc 4,1-42, Gv 4,1-42) sono i soli a menzionare il passaggio di Gesù in questo territorio.
“Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò.”
Da questo episodio si rivela il carattere impulsivo e vendicativo dei figli di Zebedeo, e può comprendere perchè Gesù diede loro il soprannome di Boanèrghes, cioè figli del tuono.
“E si misero in cammino verso un altro villaggio.”
Può darsi che Gesù visto il rifiuto dei Samaritani abbia deviato il suo cammino, prendendo la strada che per giungere a Gerusalemme attraversa la Perea. L'interesse di Luca in questa sezione è però soprattutto di presentare Gesù in “viaggio”, non importa quindi precisare di quale altro villaggio si tratti.
Dopo l’episodio dei samaritani Luca inserisce tre scene di vocazione.
Nella prima scena, a un certo punto si presenta a Gesù un tale che gli dichiara la sua ferma decisione di seguirlo dovunque egli vada. La risposta di Gesù è significativa:”Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. Prima di decidersi a seguire Gesù bisogna riflettere seriamente, perché si tratta di una scelta che implica privazioni, rischi, mancanza di sicurezze terrene, per cui una vita comoda e tranquilla non si addice a chi intende mettersi al Suo seguito.
Nella seconda scena è Gesù che rivolgendosi ad un altro dice : «Seguimi!». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». C’è da tenere presente che nella società ebraica non c’era solo il compito di adempiere a tutti i doveri connessi con la sepoltura del padre, ma anche di assisterlo nell’ultimo periodo della sua vita.
Già Eliseo aveva chiesto di poter salutare i genitori prima di seguire Elia (1Re 19-20), ed è possibile che Luca vi si ispiri; ma ora il futuro discepolo domanda una proroga per un motivo ben più grave: il sacrosanto dovere di provvedere alla sepoltura del padre, richiesto dal quarto comandamento della legge e considerato un'importante opera di misericordia.. A questo riguardo Gesù esprime il suo pensiero con un’affermazione paradossale, formulata in perfetto stile semitico, uno stile che usa toni forti e dichiarazioni esplosive: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio”. Mettendosi al seguito di Gesù il discepolo ha scelto la “vita” e non deve più immischiarsi in faccende che riguardano coloro che sono ancora spiritualmente “morti”. Gesù considera quindi la sequela come un impegno talmente decisivo e radicale da far passare in secondo ordine persino gli obblighi più importanti e i legami familiari più stretti.
L’ultima scena riguarda un tale che prendendo lui stesso l’iniziativa si rivolge a Gesù dicendogli: “Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia”. Costui si impegna a seguirlo, ma prima chiede di potersi accomiatare da quelli di casa sua. Ma Gesù risponde: “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio”.
L’aratro, simbolo del lavoro abbandonato da Eliseo, diventa segno del nuovo lavoro dell’apostolo “coltivatore” (chiamando i primi discepoli Gesù aveva parlato di pescatori di uomini) Ma c’è un’altra differenza più rilevante, tra queste scene di vocazione: nella chiamata per il Regno proposta da Cristo non c’è spazio per il “congedo da quelli di casa”.
Chi intende mettersi alla sequela di Gesù non guarda più al passato, è chiamato ad occuparsi di nuova vita; taglia i legami con le idee vecchie e con gli interessi individuali; deve essere mobile, disposto ad avventurarsi nel territorio del rinnovamento e della perfezione, affronta il rischio della novità, ama l’azzardo della libertà, il cui conseguimento è per lui fondamento di uno spirito di servizio e di solidarietà.

 

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“Il Vangelo di questa domenica mostra un passaggio molto importante nella vita di Cristo: il momento in cui – come scrive san Luca – «Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme». Gerusalemme è la meta finale, dove Gesù, nella sua ultima Pasqua, deve morire e risorgere, e così portare a compimento la sua missione di salvezza.
Da quel momento, dopo quella “ferma decisione”, Gesù punta dritto al traguardo, e anche alle persone che incontra e che gli chiedono di seguirlo, dice chiaramente quali sono le condizioni: non avere una dimora stabile; sapersi distaccare dagli affetti umani; non cedere alla nostalgia del passato.
Ma Gesù dice anche ai suoi discepoli, incaricati di precederlo sulla via verso Gerusalemme per annunciare il suo passaggio, di non imporre nulla: se non troveranno disponibilità ad accoglierlo, si proceda oltre, si vada avanti. Gesù non impone mai, Gesù è umile, Gesù invita. Se tu vuoi, vieni. L’umiltà di Gesù è così: Lui invita sempre, non impone.
Tutto questo ci fa pensare. Ci dice, ad esempio, l’importanza che, anche per Gesù, ha avuto la coscienza: l’ascoltare nel suo cuore la voce del Padre e seguirla. Gesù, nella sua esistenza terrena, non era, per così dire, “telecomandato”: era il Verbo incarnato, il Figlio di Dio fatto uomo, e a un certo punto ha preso la ferma decisione di salire a Gerusalemme per l’ultima volta; una decisione presa nella sua coscienza, ma non da solo: insieme al Padre, in piena unione con Lui!
Ha deciso in obbedienza al Padre, in ascolto profondo, intimo della sua volontà. E per questo la decisione era ferma, perché presa insieme con il Padre. E nel Padre Gesù trovava la forza e la luce per il suo cammino. E Gesù era libero, in quella decisione era libero. Gesù vuole noi cristiani liberi come Lui, con quella libertà che viene da questo dialogo con il Padre, da questo dialogo con Dio. Gesù non vuole né cristiani egoisti, che seguono il proprio io, non parlano con Dio; né cristiani deboli, cristiani, che non hanno volontà, cristiani «telecomandati», incapaci di creatività, che cercano sempre di collegarsi con la volontà di un altro e non sono liberi. Gesù ci vuole liberi e questa libertà dove si fa? Si fa nel dialogo con Dio nella propria coscienza. Se un cristiano non sa parlare con Dio, non sa sentire Dio nella propria coscienza, non è libero, non è libero.
Per questo dobbiamo imparare ad ascoltare di più la nostra coscienza. Ma attenzione! Questo non significa seguire il proprio io, fare quello che mi interessa, che mi conviene, che mi piace... Non è questo! La coscienza è lo spazio interiore dell’ascolto della verità, del bene, dell’ascolto di Dio; è il luogo interiore della mia relazione con Lui, che parla al mio cuore e mi aiuta a discernere, a comprendere la strada che devo percorrere, e una volta presa la decisione, ad andare avanti, a rimanere fedele.
Noi abbiamo avuto un esempio meraviglioso di come è questo rapporto con Dio nella propria coscienza, un recente esempio meraviglioso. Il Papa Benedetto XVI ci ha dato questo grande esempio quando il Signore gli ha fatto capire, nella preghiera, quale era il passo che doveva compiere. Ha seguito, con grande senso di discernimento e coraggio, la sua coscienza, cioè la volontà di Dio che parlava al suo cuore. E questo esempio del nostro Padre fa tanto bene a tutti noi, come un esempio da seguire.
La Madonna, con grande semplicità, ascoltava e meditava nell’intimo di se stessa la Parola di Dio e ciò che accadeva a Gesù. Seguì il suo Figlio con intima convinzione, con ferma speranza. Ci aiuti Maria a diventare sempre più uomini e donne di coscienza, liberi nella coscienza, perché è nella coscienza che si dà dialogo con Dio; uomini e donne, capaci di ascoltare la voce di Dio e di seguirla con decisione capaci di ascoltare la voce di Dio e di seguirla con decisione.”

Papa Francesco Parte dell’ Angelus del 30 giugno 2013

Lunedì, 24 Giugno 2019 14:25

Oratorio Estivo 2019

Essere chiAMATI! E’ questo il tema che guida il nostro oratorio in questa estate 2019! Molte sono state le esperienze durante quest’anno che hanno guidato i giovani dell’ oratorio: il sinodo, il campo invernale con l’approfondimento dell’esortazione apostolica di papa Francesco Gaudete et Exsultate e infine la GMG in diretta da Roma dal tema: Ecco la serva del Signore; avvenga per me secondo la tua parola. E senza accorgercene (solo a cose fatte :-) ) ecco che la Provvidenza ci stava guidando ad un grande messaggio, che non potevamo ignorare, né tantomeno evitare di testimoniare a tutti i bambini e alle famiglie che hanno deciso di passare con noi queste prime settimane estive.

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Coraggio, Alzati, Ti chiama: è un invito tanto grande, tanto bello, che per noi non poteva passare inosservato

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Tutti capiranno se parli il linguaggio dell’amore e della verità (papa Francesco)

 

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Scoprire di essere chiamati attraverso i propri talenti.. è questo il filo conduttore che lega le attività svolte dai bambini durante tutti i giorni, sotto lo sguardo dei giovani animatori decisi a renderli in prima persona, protagonisti dei grandi doni che ognuno di loro custodisce nel proprio cuore.

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Un grazie davvero di cuore a Dio, al parroco

e ai sacerdoti che continuamente ci supportano e

sopportano le nostre ansie e preoccupazioni, ai

ragazzi dell’oratorio e alle strade che il Signore

ci ha fatto incrociare con quelle di altri ragazzi

che ci stanno aiutando in questo servizio..


Se fai come Lui, tu che sei creatura

imparerai a creare !! 

 

Vi aspettiamo per altre 2 settimane, fino al 5 luglio! 

 

Gruppo Kairos

 

 

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

Parrocchia Nostra Signora de La Salette
Piazza Madonna de La Salette 1 - 00152 ROMA
tel. e fax 06-58.20.94.23
e-mail: email
Settore Ovest - Prefettura XXX - Quartiere Gianicolense - 12º Municipio
Titolo presbiterale: Card. Polycarp PENGO
Affidata a: Missionari di Nostra Signora di «La Salette» (M.S.)
 

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