Le letture liturgiche di questa domenica ci invitano a riflettere sulla dimensione dell’attesa che è parte costitutiva ed essenziale della vita cristiana. Nell’attesa del Signore dobbiamo evitare la frenesia del fare e la freddezza dell’attesa. Il Signore ci invita alla vigilanza attiva facendo il bene in ogni luogo ed in ogni occasione che ci si presenta.
La prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, fa memoria della liberazione dalla schiavitù in Egitto, e ricorda le promesse fatte da Dio ai Padri. In forza di questa fede nella parola di Dio i figli di Israele vivono nella sicurezza e nella speranza della salvezza
La seconda lettura, tratta dalla lettera Ebrei, presenta la fede modellata dai patriarchi antichi. “La fede” – sottolinea l’autore – “è fondamento delle cose che si sperano e prova delle cose che non si vedono”. La fede dà dunque una grande sicurezza che l’uomo acquisisce attraverso il tentativo di conoscere “le cose che non si vedono” e il tentativo di realizzare “le cose che si sperano” .
Nel Vangelo di Luca, Gesù completa l’insegnamento sulla condotta del cristiano nei confronti dei beni di questo mondo. Le parole di Gesù su questo tema sono in un primo tempo generali e valevoli per tutti i discepoli: ignorando il tempo della venuta del Signore, il discepolo deve tenersi sempre pronto. Ma l’intervento del solerte Pietro, fa si che il Signore applichi i principi enunciati alla condizione di coloro che sono i capi della comunità. A costoro che hanno ricevuto di più Dio richiederà di più nel giorno del giudizio.
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Dal libro della Sapienza
La notte [della liberazione]
fu preannunciata ai nostri padri,
perché avessero coraggio,
sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà.
Il tuo popolo infatti era in attesa
della salvezza dei giusti, della rovina dei nemici.
Difatti come punisti gli avversari,
così glorificasti noi, chiamandoci a te.
I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto
e si imposero, concordi, questa legge divina:
di condividere allo stesso modo
successi e pericoli, intonando subito le sacre lodi dei padri.
Sap 18, 6-9
Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico. E’ stato scritto in greco, caso unico in tutto l’Antico Testamento, ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. probabilmente da Filone o da un suo discepolo. Si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”) ed è composto da 19 capitoli.
L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, per mettere questo scritto, come del resto il Qoelet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele.
L’autore in questa opera si preoccupa di insegnare la vera sapienza, quella necessaria per condurre una vita retta, non quella scienza che si può acquistare vivendo e pensando, ma una sapienza che viene da Dio. Ogni sapienza divina, di fatto, ha rivelato, guidando magistralmente la storia del popolo eletto, che la vera felicità appartiene agli amici di Dio. In altre parole, non scoprono il senso della vita se non coloro cui il Signore lo rivela.
L’Autore stimolato dall’ambiente circostante, ci dona un primo abbozzo di filosofia religiosa che s’unisce a una bella meditazione di fede cui la liturgia si è spesso ispirata. All’incrocio dell’Antica Alleanza e dell’ellenismo si può affermare che il libro della Sapienza prepara Giudei e Greci alla venuta di Gesù Cristo.
In questo brano l’autore richiama il preannunzio della Pasqua fatto ai patriarchi: “Quella notte fu preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà”.
Con queste parole egli interpreta la notte pasquale come il compimento di una parola già annunciata ai patriarchi (Gn 15,13-14). Alle promesse fatte ai patriarchi fa riscontro l'attesa del popolo: “Il tuo popolo infatti era in attesa della salvezza dei giusti, della rovina dei nemici. Difatti come punisti gli avversari, così glorificasti noi, chiamandoci a te”.
L’attesa dunque è duplice: della salvezza per i giusti e della rovina per i nemici. Sullo sfondo vi è già l'evento pasquale, che riguarda non più l'epoca patriarcale, bensì l’ultimo tempo del soggiorno in Egitto.
L’autore definisce gli israeliti come “tuo popolo” e “giusti”. Nel linguaggio biblico “popolo” è un appellativo quasi esclusivo di Israele, ma ciò che lo determina è lo stretto rapporto con Dio. È in questa particolare relazione con Dio che Israele in quanto popolo nasce, è qualificato e trova la sua vera identità. L'appellativo “i giusti” a partire da Sap 10,20 fino alla fine si riferisce sempre a Israele, ma si tratta di un Israele ideale, sistematicamente contrapposto agli egiziani e si identifica storicamente con la figura del giusto dei primi capitoli del libro. È questo popolo che, nonostante la persecuzione, Dio glorifica, cioè lo conduce al successo. Infine la chiamata e la glorificazione di Israele sono ulteriormente precisate nella descrizione della celebrazione pasquale: “I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, questa legge divina: di condividere allo stesso modo successi e pericoli, intonando subito le sacre lodi dei padri”.
L’autore rilegge dunque la Pasqua alla luce dell'alleanza, facendola diventare il momento dell'unità, dove attorno all‘alleanza e alla circoncisione il popolo ritrova la sua vera identità.
In questo brano la storia di Israele, da Abramo fino ai tempi dell’autore, viene riletta in chiave di salvezza, cioè come frutto di un intervento costante di Dio che si manifesta soprattutto nella celebrazione pasquale. Questa era stata promessa ai patriarchi, si è realizzata nel contesto dell’esodo e continua ad essere celebrata come espressione di un dono divino. Nella Pasqua Dio si mostra sempre disponibile a intervenire in favore del Suo popolo, glorificandolo e chiamandolo a sé. L’intervento divino comporta la punizione dei suoi avversari, ma questa non rappresenta lo scopo dell’iniziativa divina: essa è semplicemente l’altra faccia della medaglia, cioè la conseguenza non voluta della salvezza donata a Israele. La fede di questo popolo consiste dunque nella certezza che Dio non lo abbandona mai, nonostante le dolorose traversie della storia.
Salmo 32 - Beato il popolo scelto dal Signore.
Esultate, o giusti, nel Signore;
per gli uomini retti è bella la lode.
Beata la nazione che ha il Signore come Dio,
il popolo che egli ha scelto come sua eredità.
Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.
L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,
come da te noi speriamo.
Il salmo comincia con un’esortazione alla gioia. Infatti la tentazione della tristezza è sottile, porta l’anima a stancarsi nel perseverare nel bene e, alla fine, a rivolgersi al male come fonte sicura di consolazioni.
La tristezza non s’accompagna con la lode, ma con la lamentosità, e dunque bisogna mantenersi nella gioia per lodare il Signore, e del resto lodare il Signore mantiene nella gioia, quella vera, che non è euforia, ma realtà dell’amore.
Il salmista esorta ad allontanarsi dalla tristezza accompagnando la lode con la cetra, con l’arpa a dieci corde. La lode sia canto. Canto che nasce dall’amore, dal cuore, da un cuore puro. Non canto di bella voce, ma canto di bel cuore. “Cantate un canto nuovo”, esorta il salmista; il che vuol dire che il canto sia nuovo nell’amore. Si potranno usare le stesse parole, ma il canto sarà sempre nuovo se avrà la novità dell’amore. Non c’è atto d’amore che non possa dirsi nuovo se fatto con tutto il cuore.
“Con arte”, bisogna suonare, nell’esultanza e non nell’esaltazione.
Il salmista dice il perché della lode a Dio; perché “retta è la parola del Signore”, cioè non mente, costruisce, guida, dà luce, dà pace e gioia. E ogni opera sua è segnata dalla fedeltà all’alleanza che egli ha stabilito col suo popolo.
Egli ama il diritto e la giustizia, cioè la pace tra gli uomini, la comunione della carità, il rispetto dei diritti dell’uomo.
Egli ha creato le cose come dono all’uomo, per cui ogni cosa ha una ragione d’amore: “dell'amore del Signore è piena la terra”.
La creazione procede dal suo volere, dalla sua Parola. Tutte le cose sono state create con un semplice palpito del suo volere.
Le stelle, che nella volta celeste si muovono (moto relativo al nostro punto di vista) come schiere. Le acque del mare sono ferme come dentro un otre: esse non possono dilagare sulla terra. Nelle cavità profonde della terra ha confinato parimenti le acque abissali, che sfociano in superficie nelle sorgenti. Esse sono chiuse (“chiude in riserve gli abissi ”), e non diromperanno sulla terra unendosi a quelle dei mari e del cielo per sommergere la terra (Cf. Gn 1,6-10; 7,11).
Il salmista proclama il suo amore a Dio a tutta la terra, invitando tutti gli uomini a temere Dio, cioè a temere di offenderlo perché egli è infinitamente amabile. Gli abitanti del mondo tremino davanti a lui, perché misericordioso, ma è anche giusto giudice e non lascia impunito chi si ribella a lui. Egli è l’Onnipotente perché: “parlò e tutto fu creato, comandò e tutto fu compiuto”.
I popoli, le nazioni, che vogliono costruirsi senza di lui non avranno che sconfitta. I loro progetti sono vani, non avranno successo. Al contrario il disegno salvifico ed elevante del Signore rimane per sempre. Nessuno lo può arrestare. Esso procede dal suo cuore, cioè dal suo amore - “i progetti del suo cuore” - e rimane per sempre, per tutte le generazioni.
Il salmista poi celebra Israele; il nuovo Israele, quello che ha come capo Cristo, e del quale Israele un giorno farà parte (Rm 11,15).
Nessuno sfugge allo sguardo del Signore: “guarda dal cielo: egli vede tutti gli uomini”. E lui sa ben vedere il cuore dell’uomo poiché lui l’ha creato, e sa “comprendere tutte le sue opere”, perché sa vedere il merito o il demerito sulla base dell’adesione all’orientamento al bene del cuore, e alla grazia che egli dona.
La sua grazia è la forza dell’uomo nelle situazioni di difficoltà. L’uomo non deve credere di salvarsi dalle catastrofi sociali perché possiede cavalli, ma deve rivolgersi a Dio, che può “liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame”.
Il salmista, unito ai giusti, esprime una dolce professione di fede in Dio, una dolce speranza in lui: “L’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo”; conclude poi con un’ardente invocazione: “Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo”.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. Per questa fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio.
Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava.
Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso.
Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare.
Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. Chi parla così, mostra di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città.
Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: «Mediante Isacco avrai una tua discendenza». Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo.
Eb 11,1-2, 8-19
L’autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso concordemente questa attribuzione.
L’autore è certamente di origine giudaica, perchè conosce perfettamente la Bibbia, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se rimaste sconosciute. Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravviare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica .
Nella prima parte della lettera si descrive il ruolo di Cristo nel piano di Dio (1,5 - 2,18) e nella seconda parte si presenta Gesù come sommo sacerdote (3,1 - 5,10). La salvezza da lui portata è delineata nella parte centrale della lettera (5,11 - 10,39) e dopo (11,1 - 12,13), l’autore affronta il tema della risposta che la comunità deve dare a questa salvezza. Questa risposta consiste essenzialmente nella fede perseverante, mediante la quale si ha accesso ai beni che il sacrificio di Cristo ha acquistati.
In questo brano l’autore inizia con un’affermazione solenne:
La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede.
In questa espressione la fede è presentata come la certezza di ottenere un giorno quelle realtà che, proprio perché non si vedono, sono oggetto di speranza. In altre parole l’autore intende affermare che il credente è colui che non si ferma alle realtà visibili e materiali, ma si orienta con piena fiducia verso beni futuri (trascendenti), non ancora visibili ma attestati dalla parola di Dio e quindi sicuramente disponibili.
Nella parte che il brano liturgico non riporta, l’autore ricorda i nomi di patriarchi pre-abramitici poi presenta; Abramo, Sara, Isacco e Giacobbe. L’esperienza di Abramo mostra chiaramente che la fede, vissuta come apertura a un futuro che Dio promette, consiste in un rapporto personale con Lui, in forza del quale è possibile superare la precarietà e la miseria di una vita segnata inesorabilmente dalla morte.
È così che Abramo. proprio per aver accettato per fede la morte del figlio, ottiene una specie di risurrezione anticipata, che troverà compimento nella risurrezione di Cristo e di coloro che crederanno in Lui. La fede dei patriarchi è quindi solo una prefigurazione della fede di cui godono i credenti in Cristo.
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno.
Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.
Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».
Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli. Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più».
Lc 12, 32-48
Questo brano fa ancora parte dell’ampio discorso di Gesù sulla fiducia in Dio. Dopo la parabola del ricco stolto e l'invito ad arricchire davanti a Dio, il lungo brano di oggi si divide in due parti. La prima prosegue e conclude il discorso sul distacco dai beni terreni, iniziato nel vangelo della scorsa domenica, e ribadisce che per il cristiano Dio deve avere il primato su tutto. La seconda parte verte su un tema tipico della tradizione cristiana e di Luca: la vigilanza.
Luca scrive il suo vangelo in un momento in cui la venuta in gloria del Signore Gesù, ritenuta imminente nei primi tempi della comunità cristiana, risulta sempre più lontana, con il conseguente rischio di un affievolimento dell'attesa o addirittura della dimenticanza. Ebbene – come viene detto attraverso le tre parabole del brano dette appunto "della vigilanza" - occorre essere sempre all'erta, pronti, come se il Signore potesse sopraggiungere da un momento all'altro.
L'introduzione del brano è ricca di tenerezza: Gesù invita a non temere, chiamando i suoi amici "piccolo gregge". Gesù si rivolge ad un gregge piccolo ma illuminato e sostenuto dallo Spirito, e usa immagini un po' distanti, che non indicano un'attesa positiva: il servo che attende il padrone; la casa che attende il ladro. Colpisce subito l’immagine del padrone che parte e affida la sua casa ai servi dimostrando di non avere sospetti e di avere piena fiducia in loro. Dio è come questo padrone che ha un cuore colmo di amore e ci affida la casa, le persone, il mondo. Dio non smetterà mai di avere fede nell'uomo e Gesù commenta: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli….”
Non è certo facile stare svegli, non è un fatto dovuto e tanto meno un obbligo. Quell'attesa fino all'alba però ha il potere di emozionare e sorprendere Dio. Genera infatti in Lui una reazione quasi esagerata, sorprendente, perché accade l'impensabile: Dio da padrone diventa servitore.. è Gesù che lo dice “in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli.”
Possiamo perciò con questo dedurre che Dio non è il Padrone dei padroni, bensì è il servitore della vita.
Con una domanda Pietro interrompe la serie delle parabole: “Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?”. Pietro, sembra pensare ancora a qualche privilegio, avendo abbandonato ogni cosa per andare con Gesù (Mt 19,27). Gesù aiuta a maturare la coscienza di Pietro rispondendo indirettamente con la parabola del “buon amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito” e continua affermando “Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così” .
Con l’intervento di Pietro, portavoce degli apostoli e rappresentante dell'autorità ecclesiale, Luca vuole chiarire chi siano i destinatari dell'insegnamento della parabola: sono tutti i credenti, ma in modo speciale i responsabili della comunità ai quali Luca dedica la parabola dell’amministratore fedele che rappresenta tutti i capi delle comunità.
A costoro che hanno ricevuto di più, Gesù dice: A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più”. Ossia Dio chiederà molto a colui a cui ha dato molto, perché i carismi ricevuti sono doni da tenere per sé, ma da amministrare a favore degli altri.
“Alla fine della vita”, dice S. Giovanni della Croce, “saremo giudicati sull'amore” . Sono queste parole che ci fanno comprendere meglio il desiderio di Dio: Egli ci dà molto, perché potremo essere in grado di portare molto frutto, un frutto che rimanga.
Il primo frutto che il Signore attende da noi è la conversione, è il compiere opere di giustizia.
Nell’Apocalisse, nelle Lettere alle Chiese, le prime parole che Egli rivolge a ognuna di esse sono: “Conosco le tue opere”. Non dice: “Conosco il tuo cuore”, perché ci sono molti che si professano credenti, ma conducono poi una vita apparentemente onesta, ma falsa, e sono anche in grado di dichiarare: “la mia coscienza è apposto” e chiamano Dio come testimone concludendo: “Dio conosce il mio cuore”.
Ora Dio guarda sì il nostro cuore, le nostre intenzioni, ma guarda anche le nostre opere!
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“Nell’odierna pagina del Vangelo, Gesù parla ai suoi discepoli dell’atteggiamento da assumere in vista dell’incontro finale con Lui, e spiega come l’attesa di questo incontro deve spingere ad una vita ricca di opere buone. Tra l’altro dice: «Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma». E’ un invito a dare valore all’elemosina come opera di misericordia, a non riporre la fiducia nei beni effimeri, a usare le cose senza attaccamento ed egoismo, ma secondo la logica di Dio, la logica dell’attenzione agli altri, la logica dell’amore. Noi possiamo, essere tanto attaccati al denaro, avere tante cose, ma alla fine non possiamo portarle con noi. Ricordatevi che “il sudario non ha tasche”.
L’insegnamento di Gesù prosegue con tre brevi parabole sul tema della vigilanza. Questo è importante: la vigilanza, essere attenti, essere vigilanti nella vita. La prima è la parabola dei servi che aspettano nella notte il ritorno del padrone. «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli» : è la beatitudine dell’attendere con fede il Signore, del tenersi pronti, in atteggiamento di servizio. Egli si fa presente ogni giorno, bussa alla porta del nostro cuore. E sarà beato chi gli aprirà, perché avrà una grande ricompensa: infatti il Signore stesso si farà servo dei suoi servi - è una bella ricompensa - nel grande banchetto del suo Regno passerà Lui stesso a servirli. Con questa parabola, ambientata di notte, Gesù prospetta la vita come una veglia di attesa operosa, che prelude al giorno luminoso dell’eternità. Per potervi accedere bisogna essere pronti, svegli e impegnati al servizio degli altri, nella consolante prospettiva che, “di là”, non saremo più noi a servire Dio, ma Lui stesso ci accoglierà alla sua mensa. A pensarci bene, questo accade già ogni volta che incontriamo il Signore nella preghiera, oppure nel servire i poveri, e soprattutto nell’Eucaristia, dove Egli prepara un banchetto per nutrirci della sua Parola e del suo Corpo.
La seconda parabola ha come immagine la venuta imprevedibile del ladro. Questo fatto esige una vigilanza; infatti Gesù esorta: «Tenetevi pronti, perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». Il discepolo è colui che attende il Signore e il suo Regno. Il Vangelo chiarisce questa prospettiva con la terza parabola: l’amministratore di una casa dopo la partenza del padrone. Nel primo quadro, l’amministratore esegue fedelmente i suoi compiti e riceve la ricompensa. Nel secondo quadro, l’amministratore abusa della sua autorità e percuote i servi, per cui, al ritorno improvviso del padrone, verrà punito. Questa scena descrive una situazione frequente anche ai nostri giorni: tante ingiustizie, violenze e cattiverie quotidiane nascono dall’idea di comportarci come padroni della vita degli altri. Abbiamo un solo padrone a cui non piace farsi chiamarsi “padrone” ma “Padre”. Noi tutti siamo servi, peccatori e figli: Lui è l’unico Padre.
Gesù oggi ci ricorda che l’attesa della beatitudine eterna non ci dispensa dall’impegno di rendere più giusto e più abitabile il mondo. Anzi, proprio questa nostra speranza di possedere il Regno nell’eternità ci spinge a operare per migliorare le condizioni della vita terrena, specialmente dei fratelli più deboli. La Vergine Maria ci aiuti ad essere persone e comunità non appiattite sul presente, o, peggio, nostalgiche del passato, ma protese verso il futuro di Dio, verso l’incontro con Lui, nostra vita e nostra speranza.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 7 agosto 2016
1. Lunedì 5 agosto – memoria della Dedicazione della Basilica di S. Maria Maggiore, onoreremo la Madre di Dio acclamata con questo titolo nel concilio di Efeso del 431.
2. Martedì 6 agosto celebreremo la festa della Trasfigurazione del Signore. La data del 6 agosto, considerata il culmine della luce estiva, fu scelta per significare che lo splendore del Volto di Cristo illumina il mondo intero.
3. Giovedì 8 agosto – memoria di S. Domenico, sacerdote.
4. Venerdì 9 agosto – festa di Santa Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein) vergine e martire, Patrona d’Europa.
5. Sabato 10 agosto – festa di San Lorenzo, diacono e martire.
Le letture liturgiche di questa domenica sono quanto mai attuali perchè contribuiscono a dimensionare i nostri problemi, proponendoci valori più alti che danno più senso e significato alla vita.
La prima lettura, tratta dal libro del Qoelet, riporta i versetti celeberrimi che tutti ad orecchio conoscono “Vanità delle Vanità…tutto è vanità”. Le cose della terra non danno sicurezza, sfumano in un attimo, ed è vano, alla luce della fede contare su di esse.
Nella seconda lettura, San Paolo continuando la sua lettera ai Colossesi, ci ricorda che nel battesimo è avvenuta in noi una profonda trasformazione: il modo di vivere che abbiamo “rivestito” è quello stesso di Cristo e pertanto dobbiamo rivolgerci alle “cose di lassù”. Non possiamo tornare a vivere da idolatri, assolutizzando i beni di questo mondo.
Nel Vangelo, Luca racconta di come Gesù, per far comprendere come le ricchezze siano passeggere, racconta la parabola del ricco stolto, che dopo un abbondante raccolto, si preoccupava solo di come doveva conservarlo. Il possesso dei beni terreni è in realtà illusorio: perchè ci si illude di possederli, ma in fondo non si possiedono ed è la morte che rivela in modo evidente questa verità. Gesù non vuole inculcare in chi lo ascolta il timore di una morte improvvisa, ma indicare che il fondamento sicuro dell’esistenza è Dio solo. In Lui acquista significato anche l’uso delle cose, per se stesse buone se non saranno più strumento di divisione, ma di comunione. L’uomo non le deve tenere egoisticamente per sé, ma trasformale in “mezzi” d’amore.
Dal libro del Qoèlet
Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità. Chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male.
Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!
Qo 1,2; 2,21-23
Il libro del Qoèlet, o Ecclesiaste è stato scritto in ebraico intorno al 250 a.C , quando la Palestina, sottomessa ai Tolomei (successori di Alessandro Magno) cominciava a sentire l’influsso ellenistico. La presentazione che porta la firma di Salomone, è solo un espediente letterario per dare più valore al testo, che è stato scritto da un pio giudeo, rimasto anonimo, che riporta le parole di un saggio. (Qoèlet vuol dire uomo che ha da dire una parola forte come predicatore, oratore sapiente) Il discorso di Qoèlet è di volta in volta solenne, travolgente, intimo, confidenziale, vivace, calmo, propenso a sintetizzare il pensiero in un proverbio, in un detto. Il libro presenta un Salomone disilluso nelle sue molte esperienze di ricerca della felicità, ma pur vincente, pronto a dire parole che hanno il sapore di una consegna del meglio di sé.
Lo scopo generale del libro è stato quello di aiutare gli Israeliti a non lasciarsi afferrare dal benessere proposto dalla cultura ellenistica in cui si trovavano al tempo del dominio dei Tolomei.
Il libro ha avuto anche lo scopo di non far guardare con nostalgia al tempo in cui Israele era politicamente grande con Salomone, perché Salomone afferma che il nucleo della pace, del godere giustamente delle cose presenti, sta nel vivere alla presenza di Dio, a cui seguirà la ricompensa eterna nell’aldilà.
La frase iniziale del brano è quella in cui si compendia tutta la riflessione dell’autore: “Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità” Essa è una dichiarazione di principio: tutto è “vanità” e questo termine significa propriamente “vapore, che si disperde nell’aria”, “alito” e designa qualcosa di vuoto, effimero, senza consistenza. Qui l’autore dice per la prima volta, il suo nome, Qoèlet, che riappare altre sei volte nel seguito del libro (1,2.12; 7,27; 12,8.9.10) . Dopo aver affermato di essere giunto al punto di disperare in cuor suo per tutta la fatica che aveva sostenuto sotto il sole, ne dà questo motivo: “Chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male". Se uno si impegna a fondo nella vita, può ottenere dei buoni risultati in campo materiale, ma alla morte, tutto quello che ha accumulato non gli serve più, anzi deve lasciarlo magari a uno che invece non ha saputo impegnarsi nella vita e non ha messo da parte nulla. L’autore aggiunge ancora un’altra sua considerazione: Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità! Anche durante la sua vita, l’uomo paga il suo successo in campo economico con preoccupazioni e affanni, al punto tale che perde persino la possibilità di riposare nella notte.
Qoèlet conclude che anche questo è una grande vanità, perché sacrifica per le cose materiali quel poco di piacere che potrebbe avere in questa vita.
L’insegnamento di Qoèlet è concreto; si svolge, come in questo brano, a considerare le situazioni della vita. L’autore può sembrare, ad un osservatore poco attento, un pessimista, ma non è affatto così; è solo uno che è alla continua ricerca e meditazione su ciò che lo circonda.
Il libro contribuì certamente a mantenere aperti gli Israeliti all’attesa messianica, intesa come attesa di Colui che avrebbe portato luce dall’alto.
Questo libro è importante anche per noi cristiani per non finire, sottoposti alle tante pressioni del mondo di oggi e a correre dietro al vento... Ci ricorda le cose terrene, ci fa percepire il loro limite, e invitandoci al distacco da esse, prepara in un certo senso la via ai “beati i poveri” del vangelo.
Salmo 89 - Signore, sei stato per noi un rifugio di generazione in generazione.
Tu fai ritornare l’uomo in polvere,
quando dici: «Ritornate, figli dell’uomo».
Mille anni, ai tuoi occhi,
sono come il giorno di ieri che è passato,
come un turno di veglia nella notte.
Tu li sommergi:
sono come un sogno al mattino,
come l’erba che germoglia;
al mattino fiorisce e germoglia,
alla sera è falciata e secca.
Insegnaci a contare i nostri giorni
e acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna, Signore: fino a quando?
Abbi pietà dei tuoi servi!
Saziaci al mattino con il tuo amore:
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:
rendi salda per noi l’opera delle nostre mani,
l’opera delle nostre mani rendi salda.
Il salmo illustra la condizione precaria della vita dell'uomo esposta alle sofferenze del quotidiano unitamente a quelle dei rivolgimenti storici causati per le lotte di potere. Il salmista procede con un tono sapienziale, rischiarato dalla consapevolezza della brevità dei giorni dell'uomo. Questa consapevolezza è tanto importante che egli la invoca per tutti gli uomini: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio”.
La composizione del salmo molto probabilmente è avvenuta nel tempo di pace relativa quando Antioco V ridiede la libertà religiosa ad Israele (163 a.C.).
Il salmista si rivolge a Dio come rifugio di Israele. Rifugio certo, perché Dio non è una creazione dell'uomo, egli, infatti, da sempre esiste: “Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, o Dio”; "Mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato".
Il salmista ha il vivo ricordo di tracotanti superbi entrati nel tempio di Gerusalemme credendo di affermarsi su Dio: Tolomeo III e Tolomeo IV erano entrati nel tempio offrendo sacrifici ai loro dei (ca. 220-221 a.C.); Antioco IV Epifane lo saccheggiò e vi fece sacrifici a Giove (ca. 169-167 a.C).
Ma l'uomo è un nulla di fronte a Dio, che per l'antico peccato lo fa ritornare polvere (Gn 3,19): “Tu fai ritornare l'uomo in polvere”. L'ira di Dio travolge i superbi: “Tu li sommergi: sono come un sogno al mattino, come l'erba che germoglia; al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca”; “Sì, siamo distrutti dalla tua ira”; “Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua collera”.
L'ira di Dio è rivolta a portare l'uomo al ravvedimento. E' saggezza sapere che la collera di Dio non è una finta, ma una realtà dura che incombe sui ribelli. E' saggezza temere la collera di Dio e non sfidarla, come già fece il faraone (Es 9,30): “Chi conosce l'impeto della tua ira e, nel timore di te, la tua collera?”.
Il salmista si colloca tra tutti gli uomini, ma anche presenta fin dall'inizio la sua appartenenza ad Israele: “Signore, tu sei stato per noi un rifugio...”; e per Israele invoca pace e gioia dopo giorni e anni di afflizione: “Ritorna, Signore: fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi!...Rendici la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti".
Commento di P.Paolo Berti .
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Colossési
Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra.
Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.
Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria.
Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato.
Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti.
Col 3,1-5, 9-11
Paolo, continuando la sua lettera ai Colossesi, dopo aver chiarito il vero senso del battesimo, in questo brano passa a considerarlo nella realtà della vita di ogni giorno. Per l’apostolo l’etica del cristiano non è altro che coerenza alla nuova realtà presente in lui per la solidarietà con la vita del risorto, afferma infatti: se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio.
L’esistenza del cristiano qui in terra ha già in sé un tocco misterioso e divino: è, infatti, già comunione ineffabile con il Cristo glorioso e, attraverso Lui, con il Padre infatti afferma: …la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Ciò che è visibile per il momento è solo la loro morte, perché la loro nuova vita, in quanto partecipazione alla vita di Cristo in Dio, non è visibile agli occhi del corpo. Ma “Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.“ Paolo ha già spiegato che la risurrezione dei morti non avrà luogo al momento del ritorno di Gesù, ma è già avvenuta, e sottolinea che solo quando egli verrà, la loro nuova vita sarà manifestata, in quanto anch’essi parteciperanno alla Sua gloria.
Nonostante siano già morti e risuscitati con Cristo, i credenti devono ancora portare a termine il loro passaggio attraverso la morte, senza del quale non possono ottenere pienamente la nuova vita in Cristo.
Paolo poi ammonisce: “Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria …”
Quaggiù sulla terra tutto questo ora non appare e rimane celato ai nostri occhi umani perchè viviamo il già e il non ancora. Sarà la parusia a svelare un giorno, nel giorno di Cristo Gesù, la portata arcana che la vita dei cristiani aveva già in questo mondo.
Negli ultimi versetti riportati in questo brano. Paolo ricorda che ci siamo svestiti dell’uomo vecchio con tutti i suoi errori, e ora viviamo rivestiti dell’uomo nuovo, che si rinnova continuamente per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato.
Questo stato però non è raggiunto una volta per tutte, ma deve continuamente essere ricercato, puntando a una conoscenza sempre più approfondita di Dio per diventare simili a lui. La vita cristiana si distingue dunque per il suo dinamismo interno, che porta ad approfondire sempre più il rapporto con Dio.
Questa crescita nella fede ha una conseguenza comunitaria: Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti.
Nella comunità, l’ideale da raggiungere è l’unità, che presuppone la rimozione di tutte le barriere che dividono le persone in vista di una vera uguaglianza. Questa unità sarà un giorno la particolarità dell’umanità rinnovata. Essa però deve essere anticipata nella vita della comunità, che diventa così un segno efficace della potenza di Dio che opera nella storia umana.
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?».
E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».
Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».
Lc 12, 13-21
Questo brano tratto dal Vangelo di Luca fa parte della lunga descrizione del viaggio di Gesù, dalla Galilea fino a Gerusalemme, in cui l’evangelista mette la maggior parte delle informazioni che è riuscito a raccogliere su Gesù e che non si trovano negli altri vangeli.
Il brano inizia riportando una richiesta che uno della folla fa a Gesù: “Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”. Il problema è attuale anche oggi, la distribuzione dell’eredità tra i familiari sopravissuti è una questione delicata e, molte volte, è occasione di dispute e di tensioni interminabili. C’è da tener presente però che a quel tempo, l’eredità aveva anche a che fare con l’identità delle persone (1 Re 21,1-3) e con la sopravvivenza (Nm 27,1-11). Il problema maggiore era la distribuzione delle terre tra i figli del defunto padre. Con una famiglia grande, c’era il pericolo che l’eredità si dividesse in piccoli pezzi di terra che non avrebbero più potuto garantire la sopravvivenza di tutti. Per questo, onde evitare il disfacimento dell’eredità e mantenere vivo il nome della famiglia, il primogenito riceveva il doppio degli altri figli (Dt 21,17). Gesù risponde: ”O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”. Rifiutando così il ruolo di mediatore e li ammonisce dicendo: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».
La cupidigia, l'accumulo dei beni materiali, l'eredità, la fama, il potere, non entrano nella scala dei valori di Gesù, poiché, quando il guadagno occupa il cuore, l’uomo non sa come distribuire l’eredità con equità e con pace. Poi Gesù racconta una parabola per aiutare le persone a riflettere sul senso della vita:
“La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti?”
L’uomo ricco appare davvero ossessionato per suoi beni che erano aumentati improvvisamente per il raccolto abbondante. Pensa solo a costruire magazzini più grandi per raccogliere “tutto il grano e i suoi beni”. Non è la prima volta che nel Vangelo ritroviamo qualcuno che “ragiona tra sé”. Spesso capita se avanziamo la pretesa di essere nel giusto anche dinanzi a Dio. Il ragionare tra sé non porta alla condivisione del cuore, ma a trasformare la benedizione in maledizione: il dono di Dio, la Sua benedizione diviene qui strumento di morte. Quest’uomo è stato fortunato e, nella sua fortuna, ha scelto la solitudine, la crescita del proprio io.
“ Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”.
Questo ricco si stava preparando un comodo programma di vita, ma evidentemente privo di amore!
La parabola del ricco “stolto” condanna proprio questo assurdo comportamento; egli ricorda che i beni, lungamente agognati, non liberano dalla morte, ma addirittura compromettono la vita perché privano della tranquillità e soprattutto impoveriscono il cuore impedendogli di aprirsi verso gli altri nella carità e nell’amore.
Gesù continua commentando: “Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”.
Il Signore lo definisce “stolto” perché quest’uomo non ha capito la vita perché non l’ha vissuta. In realtà quello che lui ha vissuto è un suo sogno personale, la realtà della vita non l’ha certo compresa e non l’ha accettata giustamente. Perché la vita dell’uomo non si fonda sull’avere, non si riduce all’avere, ma è dono da accogliere con riconoscenza e con gioia nella grazia del Signore.
Il protagonista della parabola era così impegnato a farsi ricco che non ha avuto né il tempo né l’energia per arricchire davanti a Dio. Questo ricco della parabola si è illuso di aumentare i suoi guadagni e non si è accorto di ciò che stava perdendo.
“Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio”.
Gesù chiarisce questo concetto poco dopo, nello stesso Vangelo di Luca: " fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma. Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.(Lc 12, 33-34).
Il pensiero della morte, inevitabile per tutti, poveri e ricchi, è importante per scoprire il vero senso della vita. Rende tutto relativo, poiché mostra ciò che perisce e ciò che rimane.
Chi cerca solo di avere e dimentica l’essere, perde tutto nell’ora della morte. Quest'uomo ricco aveva dimenticato l'essenziale: nessuno è padrone della propria vita come dei propri beni, perché, pensiamoci bene, tutto ci è stato dato in prestito, tutto, e per prima cosa la vita che dobbiamo restituire, a Chi ce l’ha donata con tanto di interessi!
Ci dobbiamo rendere conto che la felicità non sta nel possesso dei beni, ma di mettere a frutto ciò che abbiamo su questa terra, finché ci stiamo, amando Dio e il nostro prossimo come noi stessi.
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“Il Vangelo di questa domenica ci richiama l’assurdità di basare la propria felicità sull’avere. Il ricco dice a se stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni…riposati, mangia, bevi e divertiti! Ma Dio gli dice: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai accumulato, di chi sarà? (cfr Lc 12,19-20).
Cari fratelli e sorelle, la vera ricchezza è l’amore di Dio condiviso con i fratelli. Quell’amore che viene da Dio e fa che noi lo condividiamo tra noi e ci aiutiamo tra noi. Chi ne fa esperienza non teme la morte, e riceve la pace del cuore. Affidiamo questa intenzione, l’intenzione di ricevere l’amore di Dio e condividerlo con i fratelli, all’intercessione della Vergine Maria.”
Papa Francesco Angelus 4 agosto 2013
Le letture liturgiche di questa domenica ci aiutano a comprendere quanto sia forte il potere della preghiera che è il dono più grande che ci è stato dato. La preghiera è un colloquio tra l’uomo e Dio e non sempre ha bisogno di parole, perché non bisogna confondere la preghiera con le preghiere: l’incontro con Dio può avvenire anche nel più completo silenzio.
La prima lettura, tratta dal libro della Genesi, ci riporta lo stupendo dialogo tra Dio e Abramo che implora la salvezza di Sòdoma e Gomorra, in un crescendo di ardite richieste: si cercano i giusti per salvare i peccatori.
Nella seconda lettura, San Paolo nella sua lettera ai Colossesi, afferma che Gesù Cristo, con la sua morte e risurrezione ci ha liberato dal peso dei nostri peccati e con Lui siamo diventati nuove creature
Nel Vangelo, Luca introduce come sfondo una richiesta avanzata da un discepolo che chiede a Gesù di insegnare loro a pregare. La preghiera del Padre nostro che Gesù propone chiarisce molto bene che si prega non solo per noi stessi, ma per il prossimo e nella misura che noi perdoniamo agli altri saremo perdonati. Poi Gesù racconta due parabole per esemplificare la fiducia totale che l’orante deve avere nei confronti di Dio Padre. Dio non è un estraneo indifferente, a Lui ci si può rivolgere con l’audacia e la serenità che si ha con una persona amata, avendo la certezza che nessuno può amarci più di Lui.
Dal libro della Genesi
In quei giorni, disse il Signore: «Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!».
Quegli uomini partirono di là e andarono verso Sòdoma, mentre Abramo stava ancora alla presenza del Signore. Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?». Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo». Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne troverò quarantacinque».
Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta». Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta». Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci».
Gn 18,20-32
Questo brano è il proseguimento della scena di domenica scorsa in cui dopo la bella ospitalità che Abramo aveva offerto ai suoi ospiti, la promessa di un figlio era divenuta certa: “Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio”. Nel momento del congedo Abramo accompagna i tre ospiti verso il monte da dove si poteva vedere il panorama di Sodoma, la regione prospera dove risiedeva il nipote Lot.
Qui inizia il brano liturgico la cui scena si carica di tensione e paura. Dio parla ad Abramo come ad un amico fedele confidandogli i suoi propositi: “Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave…” dalle città di Sodoma e Gomorra sale a Dio come un respiro un grido di peccato e di ingiustizia. Troviamo un’immagine dalle caratteristiche umane quando Dio continua dicendo: Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere”
Ma Abramo, consapevole della tragedia imminente, apre una specie di trattativa con Dio per allontanare la distruzione finale. Il dialogo stupendo tra Dio ed Abramo, che implora la salvezza di Sodoma e Gomorra è un crescendo di ardimento in cui quasi si percepisce come il cuore di Abramo sia pieno di emozione: è molto titubante all'inizio, poi man mano la sua preghiera diventa più intensa, pressante, profonda perché ha compreso la disponibilità del Signore a voler perdonare più che punire.. In sei tappe i giusti richiesti passano da 50 a 10, mentre ogni volta Abramo inizia la sua richiesta con parole sempre più umili e nello stesso tempo ardite. “Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci”. Si può notare che nella sua trattativa Abramo non osa abbassare al di sotto di 10 il numero dei giusti, forse perchè sentiva che dei veri giusti non c’erano, ma il numero 10 era anche il numero minimo per costituire nell’ebraismo una comunità .
Nota
Troveremo circa mille anni dopo, che Dio parlando a Geremia (5,1) si dichiara disposto a perdonare a Gerusalemme, se vi trovasse almeno un solo giusto: “Percorrete le vie di Gerusalemme,osservate bene e informatevi,cercate nelle sue piazze se trovate un uomo,uno solo che agisca giustamente e cerchi di mantenersi fedele,e io le perdonerò, dice il Signore”.
E’ in Isaia (c.53) diventa realtà che un solo giusto (il Servo del Signore) può salvare tutto il popolo.
Salmo 137 Nel giorno in cui ti ho invocato mi hai risposto.
Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore:
hai ascoltato le parole della mia bocca.
Non agli dèi, ma a te voglio cantare,
mi prostro verso il tuo tempio santo.
Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà:
hai reso la tua promessa più grande del tuo nome.
Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto,
hai accresciuto in me la forza.
Perché eccelso è il Signore, ma guarda verso l’umile;
il superbo invece lo riconosce da lontano.
Se cammino in mezzo al pericolo, tu mi ridoni vita;
contro la collera dei miei avversari stendi la tua mano.
La tua destra mi salva.
Il Signore farà tutto per me.
Signore, il tuo amore è per sempre:
non abbandonare l’opera delle tue mani.
Il salmista ringrazia Dio per avere ascoltato la sua preghiera e avergli usato misericordia. La tradizione parla del re Davide, ma più probabilmente si tratta di Ezechia dopo la clamorosa liberazione di Gerusalemme dall'assedio degli Assiri (2Re 19,35): “Hai reso la tua promessa più grande del tuo nome”.
Egli vuole cantare la sua lode al cospetto di Dio, rifiutando ogni adesione agli idoli: "Non agli dèi, ma a te voglio cantare".
Dio ha risposto alla sua supplica rendendolo più forte di fronte ai sui nemici: “Hai accresciuto in me la forza”.
Il salmista professa la sua fede nel futuro messianico che vedrà “tutti i re della terra” lodare il Signore. Sarà quando “ascolteranno le parole della tua bocca”, dove per “bocca” si deve intendere il futuro Messia.
I re, i popoli, celebreranno le vie del Signore annunciate dal Messia.
Il salmista ha grande fiducia in Dio, affinché la sua missione di re abbia successo: "Il Signore farà tutto per me". Il salmista termina invocando: “Non abbandonare l'opera delle tue mani”, cioè la dinastia di Davide.
Noi crediamo che giungerà il tempo della “civiltà dell'amore”, quando i popoli e i potenti che li governano, si apriranno a Cristo. Ogni cristiano deve adoperarsi per questo tempo con la forza (“hai accresciuto in me la forza”) che sgorga dalla partecipazione Eucaristica.
La nostra battaglia non è contro nemici fatti di carne e sangue, come ci dice san Paolo (Ef 6,12), ma “contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male”, cioè contro i demoni.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Colossesi
Fratelli, con Cristo sepolti nel battesimo,con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti.
Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce.
Col 2,12-14
Continuando la sua lettera ai Colossesi, Paolo dopo aver affermato che in Gesù abita tutta la pienezza della divinità ed essi hanno avuto parte alla sua pienezza, che fa di Lui il capo di ogni principato e di ogni potestà (Col 2,9-10) e continuando sottolinea che in lui essi hanno ricevuto non una circoncisione fatta da mano di uomo mediante la spogliazione del corpo di carne, cioè la circoncisione fisica, ma la vera circoncisione di Cristo (Col 2,11), egli spiega in questo brano in che cosa consiste la circoncisione di Cristo:
“con Cristo sepolti nel battesimo,con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti.”
Diversamente dalla circoncisione fisica, la “circoncisione di Cristo” ha luogo in rapporto con Cristo e in unione con Lui. Essa consiste nel battesimo, che è presentato da Paolo, nella polemica contro i giudaizzanti, come la vera circoncisione (Fil 3,3).
Paolo riprende questa immagine definendo il battesimo come un essere sepolti con Cristo, cioè come una partecipazione alla Sua morte, e come una risurrezione con Lui.
Gli effetti del battesimo vengono così descritti “Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce”.
Prima di diventare cristiani, i pagani erano morti a causa delle loro colpe e della loro incirconcisione. L’idea qui espressa si riferisce chiaramente a Gal 2,15 dove Paolo definisce così la differenza tra giudei e gentili: “Noi che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge; poiché dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno”.
Al termine del brano, nell’ultima parte omessa dalla liturgia “avendo privato della loro forza i Principati e le Potestà ne ha fatto pubblico spettacolo dietro al corteo trionfale di Cristo”, Paolo afferma che così facendo Dio ha spogliato i principati e le potestà e ne ha fatto pubblico spettacolo, trionfando su di loro in Cristo.*
Con la sua morte in croce e la sua resurrezione, Gesù ha aperto dunque nuove prospettive che non hanno più nulla a che fare con la legge e con il peccato.
* Nota:
Dietro la legge ebraica, Paolo scorge, secondo una vecchia tradizione, le potenze angeliche ( Gal 3,19+). Esse avevano usurpato, nello spirito dell’uomo (cf. v 18), l’autorità del creatore. Sopprimendo con la croce di Suo Figlio il sistema della legge, Dio ha sottratto a queste potenze lo strumento del loro dominio; esse appaiono ormai sottomesse al Cristo.
Dal Vangelo secondo Luca
Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”». Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.
Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».
Lc 11,1-13
Gesù continua il suo cammino verso Gerusalemme, e dopo l'episodio di Marta e Maria, in cui è stata sottolineata
l'importanza dell'ascolto della Parola di Gesù, Luca inizia un nuovo capitolo in cui dà alcuni insegnamenti di tipo diverso.
Il primo riguarda la preghiera e ci viene proposto in questo brano che la liturgia propone. Gesù insegna ai suoi a pregare attraverso la preghiera del Padre nostro che è la versione più breve rispetto a quella di Matteo che tutti conosciamo a memoria. ( Il fatto che ci siano due versioni del Padre Nostro ci fa capire che Gesù non ha dato una preghiera fissa, con parole precise, come facevano tutti i rabbini del tempo, ma alcuni punti su cui orientarsi.) Poi vi è la colorita parabola dell'amico importuno seguita dall'esortazione ad insistere nella preghiera, per chiedere in particolare il dono dello Spirito Santo.
“Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli».
Non conosciamo il nome del discepolo (forse perchè ognuno di noi si possa sentire coinvolto in prima persona) che aveva atteso che Gesù finisse di pregare per farsi avanti e chiedergli a nome degli altri: “Signore, insegnaci a pregare..“ Sul modo di pregare anche Giovanni Battista istruiva i suoi seguaci, per cui il richiedente attendeva un insegnamento vivo, carico di esperienza.
“Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno;
La paternità di Dio su Israele era già un dato assodato nella tradizione biblica e giudaica. Almeno dalla fine del I sec. a.C., Dio viene invocato con il titolo “Padre nostro” nella preghiera delle Diciotto Benedizioni, recitata quotidianamente dal giudeo. Nella cultura palestinese, la parola “padre” include non solo una nota di intimità , ma anche di sovranità. Dio è Padre in quanto Creatore, Signore del popolo che Egli ha scelto. E proprio come tale DIO dimostra il suo amore misericordioso verso Israele, dichiarandosi pronto a perdonare le sue infedeltà.
Con “sia santificato il tuo nome”, chi recita il Padre Nostro viene invitato ad aderire al grande disegno finale di Dio con piena disponibilità alla Sua volontà di salvezza. La santificazione del Nome del Padre trova le sue radici in Ez 36,20-22: «Io ho avuto riguardo del mio Nome Santo che gli Israeliti avevano profanato fra le genti presso le quali sono andati.... Io agisco non per riguardo a voi, gente d'Israele, ma per amore del mio Nome Santo...
Il verbo “sia santificato il tuo nome” è al passivo e ha per soggetto reale Dio. Quindi non si chiede che l'uomo rispetti il nome di Dio, ma che il Padre stesso faccia in modo che Egli sia riconosciuto Santo dagli uomini. Il “nome” sta per Dio stesso, Egli cessa di essere inaccessibile, in quanto si rivolge verso l'uomo, si rivela e si comunica a lui.
Con “venga il tuo regno” si esprime la prima domanda. Dio sarà riconosciuto Santo quando manifesterà la sua sovranità piena e definitiva, promessa per la fine dei tempi. Questo intervento finale di Dio coinvolge fin d'ora tutto l'uomo. Non si può desiderare sinceramente la venuta del Regno e il compimento del suo disegno senza conformarsi, fin d'ora e totalmente, alle esigenze della Sua volontà.
“dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano”
Le tre domande che appartengono alla seconda parte del Padre Nostro si interessano dei bisogni dell'uomo nella sua esistenza attuale e vanno capite nella linea delle prime due.
La prima domanda concerne il pane, come nutrimento in generale, anzi tutto ciò che viene incontro ai bisogni materiali della vita di ogni discepolo che chiede ogni giorno ciò che gli serve, che non ha una situazione stabile e si trova nella condizione di chi ha lasciato tutto per seguire concretamente Gesù.
“e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,” ..
Con Gesù è arrivato il tempo della salvezza, in cui Dio offre agli uomini il suo perdono che viene sperimentato come una nuova comunione con il Padre e come forza liberatrice che rende l'uomo capace di amare a sua volta gli altri, senza misura.
Scaturisce quindi per l'uomo perdonato la possibilità e l'esigenza di perdonare sempre, di adottare verso gli altri il comportamento che Dio ha avuto verso di lui: solo allora il perdono divino sarà definitivo.
La preghiera del Padre Nostro termina con un grido di aiuto: e non abbandonarci alla tentazione”cioè non permettere che soccombiamo nella prova. Non è che si preghi Dio di non indurci a fare del male, ma gli si chiede di non permettere che la prova sia tanto grande da avere il sopravvento definivo su di noi.
“Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli….
Nella prima parabola, c’è la storia di un uomo a cui gli si è presentato un ospite nel bel mezzo della notte, ma non ha nulla da offrirgli, (cosa penosa per un orientale dato che l'ospitalità è una caratteristica importante per la loro cultura). Allora va da un suo amico e, anche se sa di procurargli un bel fastidio, non se ne preoccupa e lo fa lo stesso. Con questa parabola dell’amico importuno, Gesù ci invita a rivolgerci a Dio come ad un amico, anche in modo insistente persino fastidioso.
“Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.”
La parabola si conclude con un gruppo di detti sulle caratteristiche della preghiera efficace. L'invito a pregare viene formulato con tre immagini di uguale significato: chiedere, cercare, bussare. Sono verbi già usati nell'AT e nel giudaismo per parlare della preghiera. L'immagine del bussare ricorda inoltre il comportamento dell'amico importuno che prima abbiamo visto. Poi Gesù continua portando altri esempi:
“Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?” Si tratta di due piccole similitudini con costruzione simile a quella dell'amico importuno. Il comportamento del padre umano nei confronti del figlio deve far capire quello di Dio riguardo al discepolo che chiede.
L'accostamento uovo/scorpione (che è comprensibile nell’ambiente palestinese perché lo scorpione di quelle zone è bianco e quando si chiude assomiglia ad un uovo), vuole sottolineare il contrasto tra la domanda del figlio e la risposta del padre che dà cose nocive.
Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!». Se dunque l'uomo benché cattivo (cioè pieno di difetti) darà necessariamente cose buone ai propri figli, quanto più Dio che è il nostro Padre non ci darà mai nulla che possa nuocerci.
Forse noi siamo bloccati da esempi terreni di padri e di madri indegni di portare questo nome, e non ci rendiamo conto fino a che punto possa arrivare l’amore di Dio che è Padre sì, ma è anche Madre. Per bocca del profeta Isaia Dio ce lo dice: Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Is 49,15
Allora dobbiamo entrare in confidenza con Lui imparare a chiedere anche se non sempre Dio risponde come noi vorremmo. Capita che a volte bussiamo e Lui ci apre delle porte e ci invita a percorrere delle strade che non avremmo mai avuto coraggio di percorrere, ma in quella strada Lui si fa nostro compagno di viaggio e ci aiuta a percorrere un cammino, che da soli non avremmo mai neanche osato percorrere.
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“Il Vangelo di questa domenica si apre con la scena di Gesù che prega da solo, in disparte; quando finisce, i discepoli gli chiedono: «Signore, insegnaci a pregare» ; ed Egli risponde: «Quando pregate, dite: “Padre…”» . Questa parola è il “segreto” della preghiera di Gesù, è la chiave che Lui stesso ci dà perché possiamo entrare anche noi in quel rapporto di dialogo confidenziale con il Padre che ha accompagnato e sostenuto tutta la sua vita.
All’appellativo “Padre” Gesù associa due richieste: «sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno». La preghiera di Gesù, e quindi la preghiera cristiana, è prima di tutto un fare posto a Dio, lasciandogli manifestare la sua santità in noi e facendo avanzare il suo regno, a partire dalla possibilità di esercitare la sua signoria d’amore nella nostra vita.
Altre tre richieste completano questa preghiera che Gesù insegna, il “Padre Nostro”. Sono tre domande che esprimono le nostre necessità fondamentali: il pane, il perdono e l’aiuto nelle tentazioni.
Non si può vivere senza pane, non si può vivere senza perdono e non si può vivere senza l’aiuto di Dio nelle tentazioni. Il pane che Gesù ci fa chiedere è quello necessario, non il superfluo; è il pane dei pellegrini, il giusto, un pane che non si accumula e non si spreca, che non appesantisce la nostra marcia. Il perdono è, prima di tutto, quello che noi stessi riceviamo da Dio: soltanto la consapevolezza di essere peccatori perdonati dall’infinita misericordia divina può renderci capaci di compiere concreti gesti di riconciliazione fraterna. Se una persona non si sente peccatore perdonato, mai potrà fare un gesto di perdono o di riconciliazione. Si comincia dal cuore dove ci si sente peccatore perdonato. L’ultima richiesta, «non abbandonarci alla tentazione», esprime la consapevolezza della nostra condizione, sempre esposta alle insidie del male e della corruzione. Tutti conosciamo cosa è una tentazione!
L’insegnamento di Gesù sulla preghiera prosegue con due parabole, con le quali Egli prende a modello l’atteggiamento di un amico nei confronti di un altro amico e quello di un padre nei confronti di suo figlio. Entrambe ci vogliono insegnare ad avere piena fiducia in Dio, che è Padre. Egli conosce meglio di noi stessi le nostre necessità, ma vuole che gliele presentiamo con audacia e con insistenza, perché questo è il nostro modo di partecipare alla sua opera di salvezza. La preghiera è il primo e principale “strumento di lavoro” nelle nostre mani! Insistere con Dio non serve a convincerlo, ma a irrobustire la nostra fede e la nostra pazienza, cioè la nostra capacità di lottare insieme a Dio per le cose davvero importanti e necessarie. Nella preghiera siamo in due: Dio e io a lottare insieme per le cose importanti.
Tra queste, ce n’è una, la grande cosa importante che Gesù dice oggi nel Vangelo, ma che quasi mai noi domandiamo, ed è lo Spirito Santo. “Donami lo Spirito Santo!”. E Gesù lo dice: «Se voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!» . Lo Spirito Santo! Dobbiamo chiedere che lo Spirito Santo venga in noi. Ma a che serve lo Spirito Santo? Serve a vivere bene, a vivere con sapienza e amore, facendo la volontà di Dio. Che bella preghiera sarebbe, in questa settimana, che ognuno di noi chiedesse al Padre: “Padre, dammi lo Spirito Santo!”.
La Madonna ce lo dimostra con la sua esistenza, tutta animata dallo Spirito di Dio. Ci aiuti lei a pregare il Padre uniti a Gesù, per vivere non in maniera mondana, ma secondo il Vangelo, guidati dallo Spirito Santo.”
Papa Francesco Parte dell’ Angelus del 24 luglio 2016
Le letture liturgiche di questa domenica hanno come filo conduttore il tema dell’ospitalità: quali atteggiamenti noi cristiani dobbiamo tenere nei confronti dell’ospitalità e dell’accoglienza?
La prima lettura, tratta dal libro della Genesi, ci propone un vivace racconto dell’incontro tra Abramo e i tre messaggeri divini. Abramo corre e si affretta a dare disposizioni a Sara e al servo per una degna accoglienza. Anche quando i tre ospiti sono a mensa egli non sta seduto, ma in piedi, in atteggiamento di disponibilità al servizio.
Nella seconda lettura, San Paolo nella sua lettera ai Colossesi, afferma che l’imitazione di Cristo e l’impegno missionario e pastorale hanno fatto di lui il vero apostolo del Vangelo. Anche le sofferenze sono divenute per lui un motivo di gioia perché le accetta come compimento dei patimenti di Cristo.
Nel Vangelo, Luca rievoca l’incontro di Gesù con Marta e Maria nella loro accogliente casa. I comportamenti delle due sorelle rappresentano due modi di servire Dio (con le opere e la preghiera, con l’azione e la contemplazione, con il servizio e l’adorazione), entrambi apprezzabili; ma il brano mette in guardia contro l’attivismo che non lascia spazio alla meditazione: la fede si nutre di amore e verità.
Dal libro della Genesi
In quei giorni, il Signore apparve ad Abramo alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno.
Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa’ pure come hai detto».
Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre sea di fior di farina, impastala e fanne focacce». All’armento corse lui stesso, Abramo; prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese panna e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse loro. Così, mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono.
Poi gli dissero: «Dov’è Sara, tua moglie?». Rispose: «È là nella tenda». Riprese: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio».
Gen 18, 1-10a
Il Libro della Genesi è il primo libro del Pentateuco (cinque libri; in origine tutti in un unico rotolo: la Torà) e tratta delle origini dell’universo, del genere umano, del peccato originale, della storia dei patriarchi prediluviani, della chiamata di Abramo fino alla morte di Giacobbe. È stato scritto in ebraico e, secondo gli esperti, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Nei primi 11, dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi, Abramo, Isacco,Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente del II millennio a.C. (attorno al 1800-1700 a.C).
Questo brano ci presenta il Signore che appare al suo amico Abramo e lo fa in incognito, sotto forma di tre viandanti anonimi che si trovano a passare vicino alle querce di Mamre, dove Abramo si era accampato.
E' un racconto misterioso che, inizialmente, si svolge nella normalità di viandanti accaldati e spersi in un deserto assolato. Mentre Abramo si riposa nell'ora più calda del giorno, all'ombra della tenda, egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui.,
Tutta lo scena cambia, prende movimento: Abramo si preoccupa di offrire ospitalità nel modo più immediato e più sontuoso possibile. Provvede subito all'acqua fresca, al lavaggio dei piedi e a far accomodare gli sconosciuti all'ombra. Poi li prega di pazientare e provvederà ad un boccone di pane ed a un ristoro possibile. Sempre Abramo non solo ordina ed organizza per la cucina, a Sara chiede di impastare pane fresco ma il quantitativo è enorme: tre sea di fior di farina (circa 50 kg) e lui stesso sceglie un "vitello tenero e buono", ordinando poi di prepararlo e cuocerlo. Si può notare come Abramo sia più che attento a dare disposizioni e anche quando i tre ospiti sono a mensa egli non sta seduto, ma è in piedi , in atteggiamento di disponibilità al servizio delle esigenze degli sconosciuti e affettuoso.
Di fronte all'accoglienza ed alla gratuità gli sconosciuti rispondono con una promessa: " Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio (da notare i cambi da singolare a plurale e vice versa). Il riso di Sara (che non abbiamo nel brano proposto) è un simbolo dell’incredulità umana, che impedisce di collaborare fino in fondo con il progetto divino, in quanto questo sembra essere in contraddizione con ostacoli umanamente insuperabili. Dio scende nel suo popolo ed offre la vita gratuitamente. Il popolo d'Israele si svilupperà sulla promessa di Dio e sulla ospitalità di Abramo.
Anche il popolo santo della Chiesa si svilupperà con il dono di Dio che si fa anonimo e piccolo e si costituisce come un popolo accogliente della Parola del Signore e dei Suoi progetti.
Dio mangia alla tavola di Abramo, Gesù mangia la Sua cena alla tavola di amici: l'ospitalità prende la forma di un banchetto. E un banchetto ci è rimasto come momento di un popolo che si raduna insieme, a messa, e costruisce il progetto di un futuro di pace avendo come commensale, misteriosamente, Gesù sempre vivo.
Salmo 14 - Chi teme il Signore, abiterà nella sua tenda.
Colui che cammina senza colpa,
pratica la giustizia
e dice la verità che ha nel cuore,
non sparge calunnie con la sua lingua.
Non fa danno al suo prossimo
e non lancia insulti al suo vicino.
Ai suoi occhi è spregevole il malvagio,
ma onora chi teme il Signore.
Non presta il suo denaro a usura
e non accetta doni contro l’innocente.
Colui che agisce in questo modo
resterà saldo per sempre.
Il salmista considera le condizioni necessarie per abitare nella tenda del Signore, e dimorare sul suo santo monte. Ne risulta una preghiera piena di propositi e di sentita, seppur implicita, invocazione per poterli attuare e mantenere.
La tenda del Signore sul santo monte è il tempio, dove nel “santo dei santi” c’era l’arca dell’alleanza con la presenza tra i cherubini della gloria di Jahwéh. Questo salmo noi lo recitiamo guardando alla reale presenza di Cristo nell’Eucaristia. Per dimorare col cuore nella tenda, cioè rimanere nel raggio dell’Eucaristia, è necessaria una vita secondo il Vangelo. L’espressione “Ai suoi occhi è spregevole il malvagio”, va spogliata della tentazione del disprezzo. E’ solo un non vedere il malvagio come un modello da imitare. Noi dobbiamo separare il peccato dal peccatore, per non cadere nell’errore di giudicare e condannare, benché egli sia ben riconoscibile quale peccatore (Mt 7,20): “Dai loro frutti dunque li riconoscerete”. Onorare chi teme il Signore è, per viceversa, stimarne l’esempio, imitarne il comportamento; è un rispetto profondo poiché Dio è presente - inabitazione - nel cuore del giusto.
Chi agisce con rettitudine rimane nel raggio dell’Eucaristia e da essa trae la forza per rimanervi con sempre maggiore intensità d’amore. Egli “resterà saldo per sempre”.
Commento di P. Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Colossesi
Fratelli, sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa.
Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio verso di voi di portare a compimento la parola di Dio, il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi.
A loro Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria. È lui infatti che noi annunciamo, ammonendo ogni uomo e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo.
Col 1, 24-28
Continuando la sua lettera ai Colossesi, dopo aver proclamato uno dei più begli inni dedicati al mistero di Cristo, e aver ricordato ai Colossesi che la riconciliazione attuata dal Signore Gesù si è attuata anche nei loro confronti, che erano "stranieri e nemici, intenti alle opere cattive” ora sono invece chiamati a presentarsi "santi, immacolati e irreprensibili" al cospetto di Dio, per cui devono rimanere "fondati e fermi nella fede" e non allontanarsi dal Vangelo che è stato loro proclamato, Paolo afferma con tono deciso che egli è diventato ministro di questo mistero nascosto da secoli e non può non testimoniarlo attraverso la realtà della croce che egli stesso soffre a vantaggio della Chiesa, corpo mistico di Cristo. Con commozione afferma infatti: sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Paolo soffre a causa del lavoro apostolico, ma è felice di questo perché ha uno scopo: con il suo lavoro e le sue fatiche, contribuisce a diffondere e a rafforzare la fede in Cristo.
Questo versetto è stato oggetto di approfondite riflessioni da parte di molti teologi poiché a un prima lettura potrebbe sembrare che la morte e la risurrezione di Cristo non siano complete in sé, non abbiano abbastanza valore da realizzare la riconciliazione dell'umanità con Dio. In realtà la parola “patimenti” non significa la sofferenza salvifica sopportata da Cristo per la nostra salvezza, bensì le sofferenze, le tribolazioni che la Chiesa deve sopportare e sempre sopporterà per la sua testimonianza.
Quindi Paolo partecipando di queste sofferenze aiuta e sostiene la fatica di tutta la Chiesa ed afferma: Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio verso di voi di portare a compimento la parola di Dio, il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi. In forza della sua vocazione Paolo è diventato ministro, cioè servitore della Chiesa. Egli ha un mandato specifico: portare a compimento la Parola di Dio e la Parola non è altro che il mistero nascosto che è stato rivelato e che adesso per volere di Dio è stato rivelato a un gruppo di privilegiati. Il mistero è unico e ha in Cristo il suo punto focale, non riguarda più il futuro, ma adesso viene rivelato ai credenti e si realizza nella Chiesa, attraverso l'annuncio del Vangelo. A questi credenti che hanno aderito a questo mistero “ Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria. È lui infatti che noi annunciamo, ammonendo ogni uomo e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo.
A tutto questo dunque si impegna Paolo, egli annuncia, ammonisce e istruisce i Colossesi (e noi oggi) impegnando ogni sapienza, perché c'è un cammino che ogni persona deve percorrere per diventare un uomo perfetto in Cristo. L'annuncio del Vangelo quindi non si ferma alla semplice proclamazione della parola, ma continua trasformando il modo di vivere e di essere di ogni creatura
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».
Lc 10 , 38-42
Nella parte dedicata al viaggio di Gesù verso Gerusalemme, Luca ha affrontato il tema della sequela e lo ha presentato riportando il comandamento dell’amore e la susseguente parabola del buon samaritano per chiarire ulteriormente il modo di Gesù di intendere l'amore di Dio e del prossimo. Per evitare forse che ci si lasci influenzare troppo dall’aspetto della sequela, Luca riporta l’episodio di Marta e Maria, in cui si mette in luce il primato dell'ascolto. E’ il solo evangelista a riportarlo.
Il brano si apre riportandoci alla situazione in cui si svolge il fatto e ai suoi protagonisti: “mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria”.
Non è indicato il nome del villaggio in cui Gesù è entrato. Ad accoglierlo vi sono Marta e Maria, due sorelle di cui non si parla altrove nei Sinottici: esse però sono ricordate nel quarto vangelo in occasione della risurrezione di Lazzaro, il quale è identificato come loro fratello (Gv 11,1-44), e dell'unzione a Betania (Gv 12,1-11). Da questi dati si dovrebbe dedurre che il villaggio in questione è Betania.
Le due donne accolgono Gesù con grande premura e affetto, ed assumono immediatamente due diversi atteggiamenti: Maria “ seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. . Marta invece era distolta per i molti servizi.”
Maria assume l’atteggiamento tipico del discepolo che ascolta gli insegnamenti del maestro, Marta invece si comporta come una persona molto attiva, che si dà da fare per onorare l’ospite. Esse appaiono così come simbolo di due atteggiamenti che sono portati spontaneamente ad assumere coloro che accolgono Gesù come amico e maestro, quello dell’ascoltare e quello del fare.
C’è da immaginare l’agitazione di Marta quando pensando di non farcela, invece di richiamare direttamente la sorella, si rivolge a Gesù, :”Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”.
Nelle sue parole si può notare una sfumatura di rimprovero nei confronti di Gesù, per questa ragione pensa che solo il Signore sia in grado di ordinare a Maria di compiere il proprio dovere.
Gesù risponde con un velato rimprovero e le sue parole restano una verità fondamentale per la vita della Chiesa di tutti i tempi: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose”. Gesù la chiama per nome due volte, un po’ per familiarità un po’ per ridestare in lei un’attenzione maggiore per ciò che le sta dicendo: una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta.” Gesù non condanna Marta o elogia Maria, ma alla sorella “affaccendata”, vuole dire che è pericoloso l’affanno eccessivo, carico di preoccupazione e di ansia.
In questo episodio dinanzi al diverso modo di comportarsi delle due sorelle, qualcuno ha voluto vedere il dilemma: preghiera o azione? Ma Gesù sembra che voglia dare significato all’efficientismo cristiano: non è efficiente chi fa tanto, ma chi lo fa sentendo Dio dentro di sé! Il lavoro non è in contrasto con la preghiera, né l’azione con la contemplazione, ma in tutto ci vuole un discernimento di valori: ascoltare per fare meglio, in sintesi vivere come Marta con il cuore di Maria. In questa dimensione cade anche il dilemma di tante persone, prese dalle occupazioni che diventano preoccupazioni eccessive, e che non trovano il tempo per pregare. Invece Gesù ci dice che è bello riempire di Dio la nostra vita e le cose che facciamo! La preghiera, lo sguardo in Alto, deve aiutarci a prendere respiro e a dare a ciò che facciamo il respiro di Dio, per non rimanere sommersi negli affanni quotidiani, e poi trovarsi dinanzi a Dio con le mani vuote. E’ di vitale importanza comprendere che l’uomo, e in particolare il cristiano, non si misura dinanzi a Dio per quello che fa, ma per quello che è, il suo essere deve riempire il suo fare!
Nota:
Sicuramente l’evangelista anche qui avrà voluto mettere in risalto l'atteggiamento innovatore di Gesù nei confronti delle donne, in contrasto con la mentalità e la prassi giudaica del tempo, che impediva alle donne la partecipazione alla lettura della Torah. Sappiamo proprio da Luca che Gesù aveva scelto anche alcune di loro come sue discepole e ad esse aveva rivolto il suo insegnamento (V. 8,1-3). Il comportamento di Gesù verso le donne contribuì fortemente ad eliminare la discriminazione tra i due sessi in seno alla Chiesa, dove le donne assunsero presto un ruolo rilevante con l'esercizio di vari ministeri. Purtroppo, man mano che ci si è allontanati nel tempo dall’esperienza storica di Gesù, la rigida discriminazione nei confronti delle donne, tipica di una società patriarcale, è stata nuovamente introdotta nella chiesa e caldeggiata molto da Papa Francesco.
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“Nel Vangelo odierno l’evangelista Luca racconta di Gesù che, mentre è in cammino verso Gerusalemme, entra in un villaggio ed è accolto a casa di due sorelle: Marta e Maria. Entrambe offrono accoglienza al Signore, ma lo fanno in modi diversi. ,Maria si mette seduta ai piedi di Gesù e ascolta la sua parola invece Marta è tutta presa dalle cose da preparare; e a un certo punto dice a Gesù: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti» . E Gesù le risponde: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».
Nel suo affaccendarsi e darsi da fare, Marta rischia di dimenticare - e questo è il problema - la cosa più importante, cioè la presenza dell’ospite, che era Gesù in questo caso. Si dimentica della presenza dell’ospite. E l’ospite non va semplicemente servito, nutrito, accudito in ogni maniera. Occorre soprattutto che sia ascoltato.
Ricordate bene questa parola: ascoltare! Perché l’ospite va accolto come persona, con la sua storia, il suo cuore ricco di sentimenti e di pensieri, così che possa sentirsi veramente in famiglia. Ma se tu accogli un ospite a casa tua e continui a fare le cose, lo fai sedere lì, muto lui e muto tu, è come se fosse di pietra: l’ospite di pietra. No. L’ospite va ascoltato. Certo, la risposta che Gesù dà a Marta – quando le dice che una sola è la cosa di cui c’è bisogno – trova il suo pieno significato in riferimento all’ascolto della parola di Gesù stesso, quella parola che illumina e sostiene tutto ciò siamo e che facciamo. Se noi andiamo a pregare - per esempio - davanti al Crocifisso, e parliamo, parliamo, parliamo e poi ce ne andiamo, non ascoltiamo Gesù! Non lasciamo parlare Lui al nostro cuore. Ascoltare: questa è la parola-chiave. Non dimenticatevi! E non dobbiamo dimenticare che nella casa di Marta e Maria, Gesù, prima di essere Signore e Maestro, è pellegrino e ospite. Dunque, la sua risposta ha questo primo e più immediato significato: “Marta, Marta, perché ti dai tanto da fare per l’ospite fino a dimenticare la sua presenza? - L’ospite di pietra! - Per accoglierlo non sono necessarie molte cose; anzi, necessaria è una cosa sola: ascoltarlo - ecco la parola: ascoltarlo -, dimostrargli un atteggiamento fraterno, in modo che si accorga di essere in famiglia, e non in un ricovero provvisorio”.
Così intesa, l’ospitalità, che è una delle opere di misericordia, appare veramente come una virtù umana e cristiana, una virtù che nel mondo di oggi rischia di essere trascurata. Infatti, si moltiplicano le case di ricovero e gli ospizi, ma non sempre in questi ambienti si pratica una reale ospitalità. Si dà vita a varie istituzioni che provvedono a molte forme di malattia, di solitudine, di emarginazione, ma diminuisce la probabilità per chi è straniero, emarginato, escluso di trovare qualcuno disposto ad ascoltarlo: perché è straniero, profugo, migrante, ascoltare quella dolorosa storia. Persino nella propria casa, tra i propri familiari, può capitare di trovare più facilmente servizi e cure di vario genere che ascolto e accoglienza. Oggi siamo talmente presi, con frenesia, da tanti problemi - alcuni dei quali non importanti - che manchiamo della capacità di ascolto. Siamo indaffarati continuamente e così non abbiamo tempo per ascoltare. E io vorrei domandare a voi, farvi una domanda, ognuno risponda nel proprio cuore: tu, marito, hai tempo per ascoltare tua moglie? E tu, donna, hai tempo per ascoltare tuo marito? Voi genitori, avete tempo, tempo da “perdere”, per ascoltare i vostri figli? o i vostri nonni, gli anziani? – “Ma i nonni dicono sempre le stesse cose, sono noiosi…” – Ma hanno bisogno di essere ascoltati! Ascoltare. Vi chiedo di imparare ad ascoltare e di dedicarvi più tempo. Nella capacità di ascolto c’è la radice della pace.
La Vergine Maria, Madre dell’ascolto e del servizio premuroso, ci insegni ad essere accoglienti e ospitali verso i nostri fratelli e le nostre sorelle. “
Papa Francesco Parte dell’ Angelus del 17 luglio 2016
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)