Dove siamo:
Vedi sulla carta
S.Messe (settimana)
9:00  18:30

KRZYZ

Elena Tasso

Elena Tasso

Mercoledì, 18 Settembre 2019 17:08

ISCRIZIONI AL CATECHISMO

DAL LUNEDI’ AL VENERDI’ DALLE 17 ALLE 19 IN ORATORIO
Tutti i gruppi di catechismo, eccetto il 1 anno di comunione, cominceranno da Lunedì 23 settembre, nei giorni e orari scelti

OrariGruppiCatechismo2019 2020

1. Da lunedì a venerdì dalle ore 17.00 alle ore 19.00 sono aperte le iscrizioni al catechismo per la 1° comunione e la cresima. Luogo dove si faranno le iscrizioni è l’oratorio sotto le scale.

2. Giovedì 19 settembre si celebra la Solennità dell’Apparizione della Madonna de La Salette. Alle ore 18.30 S. Messa solenne, presiederà P. Gian Matteo Roggio - Superiore Provinciale dei Missionari de La Salette in Italia e Spagna - nel 173° anniversario dell’apparizione della Madonna ai due pastorelli Massimino e Melania. Ci sarà anche P. Celestino Muhatili il Superiore Provinciale dei Missionari de La Salette in Angola. Dopo la S. Messa si farà in clima di preghiera la lettura del messaggio della Madonna a La Salette nel 1846, pregando per tutte le vostre intenzioni e per quelle che scriverete nel libretto davanti all’altare della Madonna.

3. Sabato 21 settembre si celebra la festa liturgica di San Matteo Apostolo.

Le letture liturgiche di questa domenica hanno come tema la misericordia, che è il vero volto di Dio, ma questo volto può essere colto solo da coloro che riconoscono il carattere gratuito del Suo amore e si lasciano colmare dalla Sua grazia.
Nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, leggiamo che Dio, per intercessione di Mosè, perdonò gli ebrei che, dimentichi di ogni bene da Lui ricevuto, si erano messi ad adorare il vitello d’oro.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo scrivendo a Timoteo, presenta la sua vocazione come la “conversione” di un bestemmiatore, persecutore e violento e commenta ricordando il suo passato “mi è stata usata misericordia”. Si propone poi come l’esempio dei peccatori convertiti dalla misericordia di Dio.
Nel Vangelo di Luca, troviamo le tre parabole della misericordia: la pecorella smarrita, la dracma perduta, e il figliol prodigo. Gesù dice: vi sarà gioia in cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Non è che con questo siamo autorizzati a peccare spensieratamente sicuri della misericordia di Dio, perché Dio legge nei cuori e vede se il cuore di chi si ravvede e si converte è veramente sincero.

Dal libro dell’Esodo
In quei giorni, il Signore disse a Mosè: “Va', scendi, perché il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dalla terra d'Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostràti dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: Ecco il tuo Dio, Israele; colui che ti ha fatto uscire dalla terra d'Egitto”.
Il Signore disse inoltre a Mosè: “Ho osservato questo popolo: ecco è un popolo dalla dura cervìce. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione”.
Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: “Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d'Egitto con grande forza e con mano potente?
Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti, e la possederanno per sempre”.
Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.
Es 32,7-11. 13-14

L'Esodo è il secondo libro della Bibbia Cristiana e della Torah ebraica. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli, nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il periodo descritto si colloca intorno al 1300-1200 a.C.
Il libro è suddiviso in tre grandi sezioni, corrispondenti ai tre momenti della narrazione:
La prima, (capitoli 11,1-15,21), comprende il racconto dell'oppressione degli Ebrei in Egitto, la nascita di Mosè, la fuga di Mosè a Madian e la scelta divina, il suo ritorno in Egitto, le dieci piaghe e l'uscita dal paese.
La seconda sezione (15,22-18,27) narra del viaggio lungo la costa del Mar Rosso e nel deserto del Sinai.
La terza (19,1-40,38) riguarda l'incontro tra Dio e il popolo eletto, mediante le tappe fondamentali del decalogo e del codice dell'alleanza, seguito dall'episodio del vitello d'oro e dalla costruzione del Tabernacolo
Il brano che abbiamo, tratto dalla terza sezione, ha luogo mentre Mosè si trova sulla montagna dove ha ricevuto da Dio le tavole dell’alleanza ed inizia riportando ciò che il Signore dice:
“Va', scendi, perché il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dalla terra d'Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostràti dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: Ecco il tuo Dio, Israele; colui che ti ha fatto uscire dalla terra d'Egitto”. Dio si stupisce che così in fretta gli israeliti l’hanno abbandonato. La gravità di questo peccato, nella cultura antica, derivava dal fatto che l’immagine era vista come uno strumento particolarmente efficace per catturare la potenza di Dio e servirsene a proprio uso e consumo. Dio commenta poi il peccato degli israeliti affermando: “Ho osservato questo popolo: ecco è un popolo dalla dura cervìce” ossia si era reso conto che si tratta di un popolo refrattario, quasi per natura, alla docilità e all’obbedienza, e continua “Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione”. Sembra in questo punto che Dio voglia attendere il consenso di Mosè per attuare il suo proposito con l’intento poi di fare di lui il capostipite di una grande nazione.
Mosè si mette subito dalla parte degli israeliti e intercedendo per loro presenta i motivi per i quali Dio è tenuto a desistere dal suo proposito, ed inizia dicendo:
“Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d'Egitto con grande forza e con mano potente?
Questa domanda di Mosè è formulata secondo i canoni orientali del rispetto dovuto a un superiore, vuole dire che è stato DIO, non Mosè, a fare uscire il popolo dall’Egitto: perciò non ha senso che DIO distrugga quella che è una Sua creatura.
Mosè poi soggiunge nel versetto successivo (omesso dalla liturgia): “Perché dovranno dire gli Egiziani: Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla terra?” Lo sterminio degli israeliti nel deserto avrebbe messo in dubbio la sincerità di DIO il quale, invece di liberarli dalla schiavitù, si sarebbe comportato con loro in un modo ancora più crudele di quello del faraone.
L’altro motivo portato da Mosè è la promessa che Dio ha fatto ai patriarchi:
“Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti, e la possederanno per sempre”.
Con i patriarchi Dio ha preso un impegno incondizionato, in quanto ha giurato su se stesso di dare loro una progenie numerosa alla quale sarebbe appartenuta la terra nella quale essi abitavano come forestieri. In sintesi Mosè si rifà alla storia della salvezza e afferma che DIO non può più tirarsi indietro perché l’impegno preso con gli israeliti è definitivo e irrevocabile .
La preghiera di difesa di Mosè è efficace, e il brano termine riportando che “Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo”.
La preghiera di Mosè è stata valida perché ha fatto leva non su motivazioni contingenti, ma sul progetto stesso di DIO che aveva liberamente deciso di liberare Israele e di fare di esso il Suo popolo.
L’intercessione di Mosè, per noi cristiani, prefigura quella di Cristo, che resosi solidale con l’uomo, intercede per noi presso il Padre.

Salmo 50 - Ricordati di me, Signore, nel tuo amore.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.

Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.

Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio,
un cuore contrito e affranto, tu, o Dio,
non disprezzi.

Questo salmo la tradizione lo dice scritto da Davide dopo il suo peccato, e mi pare di dovere aggiungere durante la congiura del figlio Assalonne, dove Davide vide avverarsi la sventura sulla sua casa annunciatagli dal profeta Natan (2Sam 12,10). Fa un po’ di difficoltà all’attribuzione a Davide del salmo l’ultimo versetto dove l’orante invoca che siano rialzate le mura di Gerusalemme, poiché questo porterebbe al tempo del ritorno dall’esilio. E’ comune, tuttavia, risolvere il caso dicendo che è un’aggiunta messa durante l’esilio per un adattamento del salmo alla situazione di distruzione di Gerusalemme.
Ma considerando che il salmo non poteva essere adatto in tutto alla situazione dell’esilio, poiché sacrifici ed olocausti (“non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, non li accetti”) in terra straniera non potevano essere fatti, bisogna pensare che le mura abbattute sono un’immagine drammatica della presa di possesso di Gerusalemme da parte di Assalonne; Gerusalemme era conquistata e come “Città di Davide” veniva a finire.
L’orante si apre a Dio in un invocazione di misericordia. Domanda pietà.
Si sente imbrattato interiormente. Il rimorso lo attanaglia, si sente nella sventura. Non ricorre alla presentazioni di circostanze, di spinte al peccato, lui coscientemente l’ha fatto: “Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto”. Tuttavia presenta a Dio la sua debolezza di creatura ferita dall’antica colpa che destò al senso la carne: “Ecco, nella colpa sono io stato nato, nel peccato mi ha concepito mia madre”. Con ciò non intende scusarsi poiché aggiunge che Dio vuole la sincerità nell'intimo, cioè nel cuore, e che anche illumina intimamente il cuore dell’uomo affinché non ceda alle lusinghe del peccato: “Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza”.
Ancora l’orante innalza a Dio un grido per essere purificato, per essere liberato dalle sventure che lo colpiscono.
Egli prosegue la sua supplica chiedendo: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo”. Il peccato lo ha indebolito, gli sta sempre dinanzi e vorrebbe non averlo commesso.
E’ umile, pienamente umile, e domanda a Dio di non essere respinto dalla sua presenza e privato del dono del suo “santo spirito”; quel “santo spirito” che aveva ricevuto al momento della sua consacrazione a re. Quel “santo spirito” che gli dava forza e sapienza nel governare e nel guidare i sudditi al bene, all’osservanza della legge.
Consapevole della sua debolezza ora domanda umilmente di essere aiutato: “sostieni con me un spirito generoso”.
Ha creato del male ad Israele col suo peccato, ma rimedierà, con l’aiuto di Dio: “Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”.
Ma il peccato veramente gli “sta sempre dinanzi”. Egli non solo è stato adultero, ma anche omicida: “Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza”. Salvato dal peccato che l’opprime, egli esalterà la giustizia di Dio, che si attua nella misericordia. Salvato, dal peso del peccato e dalla rottura con Dio egli potrà di nuovo lodare Dio: “La mia bocca proclami la tua lode”.
Ha provato a presentare a Dio sacrifici e olocausti, ma è stato rifiutato. Così percependo il rifiuto di Dio è arrivato al massimo del dolore, e questo dolore di contrito lo presenta a Dio: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio”. Egli sa che Dio non disprezza “un cuore contrito e affranto”.
Davide presenta infine Sion, Gerusalemme, che è stata occupata e con ciò è stata messa in difficoltà l’unità di Israele che con tanta fatica aveva saputo costruire.
Riedificate le mura di Gerusalemme, nel senso di ricomposta la forza di Gerusalemme, sede dell’arca e del trono, e attuato un risveglio religioso in Israele, allora i sacrifici e gli olocausti torneranno ad essere graditi a Dio perché fatti nell’osservanza alla legge, nella corrispondenza al dono dell’alleanza.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo a Timoteo
Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.
Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna.
Al Re dei secoli incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.
1Tm 1,12-17

La Prima lettera a Timoteo è una delle tre epistole conosciute come lettere pastorali perché indirizzate a "pastori" di comunità cristiane quali erano Timoteo capo della comunità di Efeso e Tito della comunità di Creta. La data di scrittura della lettera va calcolata fra il rilascio della prima prigionia di Paolo (61 d.C) e l'arresto e la nuova prigionia (64 dC). Alcuni studiosi collocano quindi la data della lettera nel 63 altri invece fra il 66 e il 67 e che il luogo da cui Paolo scrisse la lettera, sia stato la Macedonia.
La lettera, suddivisa in 6 capitoli, contiene un insieme di norme organizzative sulla chiesa nascente e di consigli affinché Timoteo sorvegli e alzi la guardia su falsi insegnamenti che si stavano infiltrando nella comunità di Efeso, prodotti da quella che l'apostolo definiva falsa conoscenza.
Paolo, in questo brano fa memoria della sua conversione che Gesù ha compiuto:
“Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento”.
Paolo ringrazia il Signore per quanto ha realizzato nella sua vita. Il primo motivo per cui Paolo ringrazia è perché è stato chiamato ad essere servo di Dio. L'autorità di Paolo è autentica perché egli è stato chiamato proprio da Cristo, che lo ha reso forte in vista del compito che gli avrebbe affidato. Paolo ricorda la sua situazione prima della sua conversione e la descrive con toni molto severi. In altri brani (Gal 1,13-17) invece egli parla della sua situazione precedente in modo più positivo: egli in fondo non era altro che un ebreo osservante e intransigente, che voleva riportare sulla retta via questa nuova religione seguita dai cristiani. Qui sottolinea molto la peccaminosità del suo agire: egli era un bestemmiatore (poiché non riconosceva Gesù come il Messia), persecutore degli aderenti a questa nuova "setta", un violento, poiché applicava senza pietà la legge della Torah contro i cristiani.
La situazione è però mitigata dalla frase seguente: “Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede”, E' questa la giustificazione di Paolo, egli non conosceva ciò che stava perseguitando, ma il Signore lo ha illuminato, gli ha fatto capire il male che stava compiendo.
“e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù”..
Paolo riconosce i copiosi doni che si sono riversati su di lui: la grazia, la fede, la carità. L'incontro con Dio ha totalmente cambiato la sua vita e ha fatto di lui una creatura nuova.
“Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e il primo dei quali sono io”.
Qui Paolo mette ancora in risalto la sua situazione come peccatore. Gesù ha voluto recuperare tutti coloro che erano lontani da lui, i peccatori, (visti nella loro situazione di mancanza di gioia, di vita piena) e Paolo si riconosce come facente parte di questa schiera. Egli usa il presente, perché sa bene che è solo grazie alla misericordia di Dio che egli può perseverare in questa amicizia e vicinanza a Dio stesso, e in forza della sua esperienza può affermare che ciò che sta dicendo è degno di fede.
“Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna”.
Qui viene introdotto un altro particolare: Dio ha perdonato Paolo, gli ha dato di vivere una vita nuova perché la sua tormentata vicenda fosse di esempio a tutti quelli che lo avrebbero conosciuto. La sua vita diventa così annuncio del Vangelo di Cristo, non solo con le parole, ma con la sua stessa esperienza: da persecutore egli diventa annunciatore di una nuova dottrina ed esempio per quelli che lo ascoltano.
“Al Re dei secoli incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.”
La conclusione del brano è una "glorificazione“ di Dio Padre, segno di adorazione e di ringraziamento, in contrapposizioni alle tante divinità e divinizzazioni terrene sempre passeggere.
Paolo ci invita a scoprire il senso della nostra fede che apre significati e consapevolezze, rapporti nuovi e profondi, rivelazioni e garanzie che vengono dal cielo e restano, in ciascuno di noi, come doni che nessuno ci potrà mai togliere.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Ed egli disse loro questa parabola:
“Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta.
Io vi dico: così vi sarà gioia in cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione .
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte”.
Disse ancora: "Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta.” Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto.
Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrùbe di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sè e disse: Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione e gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato a vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare.
Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disubbidito ad un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: Figlio mio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.
Lc 15 , 1-32

Luca riporta, dopo una breve introduzione, le tre parabole che parlano di misericordia: la pecora perduta, la dramma smarrita e il figliol prodigo. La parabola della pecora smarrita si ispira all’ immagine biblica di Dio come buon pastore che si prende cura del suo popolo. Gesù la introduce con una domanda che interpella direttamente gli ascoltatori, chiedendo loro che cosa farebbero se si trovassero nella situazione di un uomo che ha cento pecore e ne perde una. Luca mette in risalto l’amore per la pecora smarrita aggiungendo, in rapporto allo stesso racconto di Matteo, il dettaglio del metterla sulle spalle e poi invitare gli amici a rallegrarsi con lui. E conclude: Io vi dico: così vi sarà gioia in cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione .
Anche nella parabola della dramma perduta, Gesù introduce il racconto ponendo la domanda: se una donna ha dieci dramme e ne perde una, che cosa è più naturale per lei che mettersi a cercarla finché non l’ha trovata? Un punto fondamentale della parabola lo troviamo anche nella sproporzione tra il poco valore della moneta, che corrisponde a un denaro d’argento, (la paga giornaliera di un operaio) e l’esultanza indicibile per il suo ritrovamento. L’esagerazione del racconto serve a dare maggior rilievo al motivo della gioia messianica per la conversione del peccatore.
La terza parabola è la storia celeberrima delle vicende del Figliol prodigo che completa la serie delle “parabole della misericordia” che hanno la stessa conclusione: l’invito a far festa per il peccatore che torna al bene. Il racconto inizia descrivendo la partenza del figlio minore dalla casa paterna, che senza alcun motivo apparente, chiede prima di partire di dividere l'eredità prima della morte del padre. Poi vediamo come questo figlio usa male la sua libertà e il suo benessere sperperando tutti i suoi beni. Al suo disastro personale si aggiunse anche la catastrofe naturale, per cui in poco tempo questo ragazzo è ormai ridotto all'indigenza per cui deve dipendere dagli altri. Tocca il fondo quando per vivere deve fare uno dei mestieri più disprezzati in Israele: il guardiano di porci; e questa è la nota più appropriata per descrivere il decadimento religioso del ragazzo.
Il senso della parabola è chiaro: la partenza del figlio rappresenta la lontananza da Dio, il contatto con i porci è simbolo della morte dovuta al peccato. E’ significativo un proverbio rabbinico che dice: “Quando gli Israeliti sono costretti a mangiare carrube, si convertono”.
Arrivato al fondo dell'indigenza il “prodigo” rientra in sé, e per lui inizia la conversione quando decide di tornare a casa del padre, pur sapendo di aver perso ogni diritto nei suoi confronti. Si augura solo una cosa: essere trattato come un suo salariato . Il racconto ora si sposta sulla figura del padre che ha sempre sperato nel ritorno del figlio. E' uno dei versetti più commoventi della Bibbia. Il padre vede il figlio da lontano ed è sconvolto fino alle viscere, (viene usato lo stesso verbo che esprime il sentimento di Dio verso i poveri e di Gesù nei confronti dei bisognosi)
Il padre si getta al collo del figlio, impedendogli di umiliarsi, lo bacia in segno di perdono, senza tener conto dello stato di impurità del figlio (certo doveva sapere che egli veniva da un paese di pagani). E' il comportamento sorprendente di questo padre la cui autorità è indiscussa e il cui amore, gratuito e generoso, va al di là di ogni regola.
Il figlio comincia a pronunciare la confessione che aveva preparato, ma il comportamento del padre rende ormai superflua la sua richiesta di diventare un salariato. Poi ci sono gli ordini che il padre impartisce ai servi che indicano la completa reintegrazione del figlio:
- il dono del vestito più bello; l'anello al dito, (probabilmente l'anello con sigillo e quindi l'autorità di compiere atti legali); i sandali: segno dell'uomo libero (lo schiavo camminava a piedi nudi). Poi ordina anche di preparare un gran banchetto per fare festa per questo figlio che era perduto ed è stato trovato!“.
Entra a questo punto in scena il figlio maggiore, che al ritorno dal lavoro trova la festa in atto, e dopo essere stato informato dal servo, si adira e non vuole entrare in casa. Suo padre, uscito, lo supplica di entrare per unirsi alla festa, ma lui è troppo gonfio d’ira per capire e in tono di rimprovero e senza rispetto, elenca i suoi meriti: la fedeltà (non ha mai trasgredito un comando), il servizio costante (che dà l’impressione di aver lavorato non come figlio ma come servo). Come contrasto al tono rabbioso del figlio si nota il tono del padre estremamente affettuoso. Il padre capisce la reazione negativa del figlio maggiore e non lo rimprovera per la sua scortesia, ma gli ricorda che a livello giuridico egli è l'erede legittimo, ha già in mano la proprietà, ma vi sono anche altri valori importanti come l'unità familiare. All'aggressivo "questo tuo figlio", pronunciato dal primogenito, il padre risponde "questo tuo fratello", ed è un invito a riconoscere realmente come fratello questo disgraziato tornato a casa.
La parabola si conclude con : “Ma bisognava fare festa e gioire, poiché questo tuo fratello era morto, ed è rivissuto, era perduto ed è stato trovato”, come appello rivolto al figlio maggiore a condividere la sua gioia ad entrare in essa.
Se il figlio maggiore vuole rimanere in comunione con il padre, deve accogliere il fratello come il padre stesso lo ha accolto. Se egli farà festa al fratello tornato, se entrerà nella logica dell'amore di suo padre, allora egli stesso potrà sperimentare di nuovo cosa significa essere figlio ed essere fratello.
Con queste tre parabole l’evangelista vuole presentare un’immagine inusuale di Dio, che manifesta la sua potenza non condannando ma perdonando.
È importante che in nessuna delle tre parabole si parli di un perdono di Dio per il peccatore pentito, ma solo della gioia che provoca il suo ritorno nella comunità dei giusti.

 

*****

 

“La liturgia odierna ci propone il capitolo 15 del Vangelo di Luca, considerato il capitolo della misericordia, che raccoglie tre parabole con le quali Gesù risponde alle mormorazioni degli scribi e dei farisei. Essi criticano il suo comportamento e dicono: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Con questi tre racconti, Gesù vuol far capire che Dio Padre è il primo ad avere verso i peccatori un atteggiamento accogliente e misericordioso. Dio ha questo atteggiamento.
Nella prima parabola Dio è presentato come un pastore che lascia le novantanove pecore per andare in cerca di quella perduta. Nella seconda è paragonato a una donna che ha perso una moneta e la cerca finché non la trova. Nella terza parabola Dio è immaginato come un padre che accoglie il figlio che si era allontanato; la figura del padre svela il cuore di Dio, di Dio misericordioso, manifestato in Gesù.
Un elemento comune a queste tre parabole è quello espresso dai verbi che significano gioire insieme, fare festa. Non si parla di fare lutto. Si gioisce, si fa festa. Il pastore chiama amici e vicini e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta»; la donna chiama le amiche e le vicine dicendo: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto»; il padre dice all’altro figlio: «Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» .
Nelle prime due parabole l’accento è posto sulla gioia così incontenibile da doverla condividere con «amici e vicini». Nella terza parabola è posto sulla festa che parte dal cuore del padre misericordioso e si espande a tutta la sua casa. ….
Con queste tre parabole, Gesù ci presenta il volto vero di Dio: un Padre dalle braccia aperte, che tratta i peccatori con tenerezza e compassione. La parabola che più commuove – commuove tutti –, perché manifesta l’infinito amore di Dio, è quella del padre che stringe a sé, abbraccia il figlio ritrovato. E ciò che colpisce non è tanto la triste storia di un giovane che precipita nel degrado, ma le sue parole decisive: «Mi alzerò, andrò da mio padre» . La via del ritorno verso casa è la via della speranza e della vita nuova. Dio aspetta sempre il nostro rimetterci in viaggio, ci attende con pazienza, ci vede quando ancora siamo lontani, ci corre incontro, ci abbraccia, ci bacia, ci perdona. Così è Dio! Così è il nostro Padre! E il suo perdono cancella il passato e ci rigenera nell’amore. Dimentica il passato: questa è la debolezza di Dio. Quando ci abbraccia e ci perdona, perde la memoria, non ha memoria! Dimentica il passato. Quando noi peccatori ci convertiamo e ci facciamo ritrovare da Dio non ci attendono rimproveri e durezze, perché Dio salva, riaccoglie a casa con gioia e fa festa. Gesù stesso, nel Vangelo di oggi, dice così: «Vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione» . E vi faccio una domanda: avete mai pensato che ogni volta che ci accostiamo al confessionale, c’è gioia e festa nel cielo? Avete pensato a questo? E’ bello!
Questo ci infonde grande speranza, perché non c’è peccato in cui siamo caduti da cui, con la grazia di Dio, non possiamo risorgere; non c’è una persona irrecuperabile, nessuno è irrecuperabile! Perché Dio non smette mai di volere il nostro bene, anche quando pecchiamo! E la Vergine Maria, Rifugio dei peccatori, faccia scaturire nei nostri cuori la fiducia che si accese nel cuore del figlio prodigo: «Mi alzerò, e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato» . Per questa strada, noi possiamo dare gioia a Dio, e la sua gioia può diventare la sua e la nostra festa.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus dell’11 settembre 2016

1. Da domenica scorsa è iniziato il seguente orario delle Ss. Messe domenicali e festive - ore 8,30 – 10,00 – 11,30 – 18,30. Nei giorni feriali le Ss. Messe si celebrano alle ore 9,00 e 18,30.

2. Da lunedì a venerdì dalle ore 17,00 alle ore 19,00 sono aperte le iscrizioni al catechismo per la 1° comunione e la cresima. Il luogo dove si faranno le iscrizioni è l’oratorio sotto le scale.

3. Il mese di settembre tradizionalmente è dedicato alla Madonna della Salette. Preghiamo la Vergine Piangente che protegga e sostenga tutti i bambini, i giovani, gli adulti e gli anziani.

4. Martedì 10 settembre ricorre la Giornata Mondiale dei Laici Salettini. La S. Messa delle ore 18,30 sarà animata da loro, poi i Laici Salettini si riuniranno nella sala S. Giuseppe per programmare gli incontri dell’anno. Dopo ci sarà un momento conviviale al quale siamo tutti invitati. I Laici Salettini operano nella nostra parrocchia da 10 anni. Festeggiamo con loro questo anniversario e preghiamo la Vergine de La Salette che li aiuti ad essere sempre fedeli testimoni del loro carisma.

5. Giovedì 12 settembre si celebra la memoria liturgica del Santissimo Nome di Maria.

6. Sabato 14 settembre si celebra la festa dell’Esaltazione della Santa Croce.

7. Ogni martedì e il secondo sabato del mese ci sono i volontari che aiutano le persone che vivono senza fissa dimora. Per chi si vuole impegnare in queste iniziative e per avere più informazioni può rivolgersi all’ufficio parrocchiale.

Le letture liturgiche di questa domenica, ci fanno meditare su come agire per giungere al regno di Dio.
La prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, ci presenta la ricerca dell’uomo che si interroga sul pensiero di Dio “Quale uomo può conoscere il volere di Dio?” Solo l’ascolto, la meditazione della Parola di Dio e la preghiera, attireranno su di noi il Suo Santo Spirito, e ci insegneranno la vera sapienza.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo scrive al suo amico Filèmone intercedendo per lo schiavo Onèsimo affinché venga da lui accolto non più come schiavo, ma come fratello carissimo. Paolo aveva già affrontato in altri suoi scritti la questione della schiavitù, affermando l’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio, perché tutti peccatori e tutti bisognosi di salvezza. In questo scritto non suggerisce una soluzione paternalistica, ma radicale: la trasformazione dello schiavo e dell’oppresso in fratello.
Nel Vangelo di Luca, Gesù ci dice che per essere figli di Dio e Suoi discepoli dobbiamo riuscire a non farci condizionare né dalle abitudini, né dai desideri, né dai legami familiari,né dai rapporti professionali, e ancor meno dalla bramosia di possesso dei beni terreni, che sebbene allettanti, sono tutti sempre passeggeri! Gesù chiedendoci di metterlo al primo posto, non entra certo in concorrenza con i vari amori umani: per i genitori, il coniuge, i figli e i fratelli. Cristo non è un "rivale in amore" di nessuno, anzi ponendo Lui al primo posto impareremo a purificare il nostro modo umano, a volte sbagliato, di amare, perché amando gli altri come Lui ci ama, saremo in grado di amare di un amore che non si può

Dal libro della Sapienza
Quale uomo può conoscere il volere di Dio?
Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?
I ragionamenti dei mortali sono timidi
e incerte le nostre riflessioni,
perché un corpo corruttibile appesantisce l'anima
e la tenda d'argilla opprime una mente piena di preoccupazioni.
A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano;
ma chi ha investigato le cose del cielo?
Chi avrebbe conosciuto il tuo volere,
se tu non gli avessi dato la sapienza
e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?
Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra;
gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito;
e furono salvati per mezzo della sapienza.
Sap 9,13-18

Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico. E’ stato scritto in greco, caso unico in tutto l’Antico Testamento, ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. probabilmente da Filone o da un suo discepolo. Si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”) ed è composto da 19 capitoli. L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, per mettere questo scritto, come del resto il Qoelet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele.
Questo brano riporta l’ultima parte della preghiera di Salomone che considera come la sapienza sia inaccessibile: Il primo versetto contiene due domande parallele: “Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?”
Dal caso particolare di Salomone, si passa all'universalità della natura umana e alla sua condizione, sulla possibilità di conoscere la volontà di Dio, “che cosa vuole il Signore”, cioè la Sua volontà, espressa nella legge. L'uomo è troppo limitato nelle sue possibilità per essere in grado di penetrare il mistero di Dio, e poterne scoprire e comprendere i disegni, anche dopo che sono stati rivelati.
Il versetto successivo contiene invece affermazioni parallele: “I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni”. L’autore qui considera nulle le nostre possibilità di conoscere la verità nell'ambito morale perchè l'uomo, abbandonato a se stesso, cammina nelle tenebre dell'ignoranza e dell'insicurezza a motivo della sua limitatezza umana: perché un corpo corruttibile appesantisce l'anima e la tenda d'argilla opprime una mente piena di preoccupazioni” Il termine “tenda” è una metafora ed è tratta dalla vita nomade per indicare ciò che è passeggero, e dunque adatta al corpo corruttibile (2Cor 5,4; 2Pt 1,13-14), mentre l’aggettivo “d’argilla” è un'allusione all'origine del corpo secondo Gen 2,7 per cui il corpo, radicato nella terra, solidale con i beni puramente terreni, temporali, transitori, frena il volo della mente verso ciò che è spirituale, celeste, immortale.
Il limite della creatura umana si manifesta nella sua incapacità di conoscere: ”A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo? “ L’espressione “le cose della terra” indica ciò accadendo sulla terra, l'uomo può verificare e controllare; essa indica le cose che sono a portata di mano, tangibili, sperimentabili direttamente, visibili, ossia ciò che non supera la normale capacità dell'uomo terreno, tutto ciò che dovrebbe essere trasparente e ovvio per lui. Tutte queste cose dovrebbero essere conosciute facilmente. Tuttavia, non è così: solo con notevole sforzo riusciamo ad appropriarci delle cose, dominandole appena con le nostre imperfette capacità. La domanda finale del versetto mette in luce l’impossibilità di investigare, conoscere “le cose del cielo”. Nel linguaggio biblico il cielo è metaforicamente la dimora di Dio per questo le cose del cielo sarebbero dunque quelle che appartengono all’ambito divino.
Alla debolezza umana però Dio supplisce mandando la sapienza: “Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?”
In questo versetto, nel quale convergono quasi tutti i temi toccati dall'autore durante la preghiera, si trovano tre dei grandi temi trattati dal giudaismo postesilico: la volontà di Dio, la sapienza e lo spirito.
Il volere di Dio non è altro che la volontà divina, ciò che Dio vuole relativamente all'uomo, e che si può conoscere soltanto se Dio liberamente si rivela o manifesta.
Al termine l'autore proclama più solennemente, che oltre alla sapienza richiede il “santo spirito del Signore” ed è la prima e l'unica volta che nella preghiera di Salomone appare questa espressione.
Il brano termina con un versetto che si collega strettamente con quello precedente e con l’inizio della preghiera di Salomone: “Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito; e furono salvati per mezzo della sapienza”.
E’ evidente che l’autore di questo brano concepisce l’uomo, alla luce della filosofia greca, come un composto di anima e corpo. È al corpo soprattutto che attribuisce il suo limite e la sua incapacità di conoscere le cose di Dio. L’anima, identificata con la ragione, è invece il principio spirituale che dà vita al corpo e si eleva spontaneamente al mondo superiore.
Questa visione pessimistica dell’uomo non esclude però un messaggio di speranza, che deriva dal fatto che, nonostante la debolezza dell’uomo, Dio manda su di lui la sapienza, che gli indica il giusto cammino o il modo di vivere conforme alla Sua volontà. È quindi mediante la sapienza che si compie nella storia il piano salvifico di Dio.

Salmo 89- Signore, sei stato per noi un rifugio di generazione in generazione
Tu fai ritornare l'uomo in polvere,
Quando dici: “Ritornate, figli dell'uomo”.
Mille anni ai tuoi occhi
sono come il giorno di ieri che è passato,
come un turno di veglia nella notte.

Tu li sommergi:
sono come un sogno al mattino:
come l’erba che germoglia
al mattino fiorisce, germoglia,
alla sera è falciata e secca.

Insegnaci a contare i nostri giorni
e acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna, Signore; fino a quando?
Abbi pietà dei tuoi servi.

Saziaci al mattino con il tuo amore:
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:
rendi salda per noi l'opera delle nostre mani,
l'opera delle nostre mani rendi salda

Il salmo illustra la condizione precaria della vita dell'uomo esposta alle sofferenze del quotidiano unitamente a quelle dei rivolgimenti storici causati per le lotte di potere. Il salmista procede con un tono sapienziale, rischiarato dalla consapevolezza della brevità dei giorni dell'uomo. Questa consapevolezza è tanto importante che egli la invoca per tutti gli uomini: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio”.
La composizione del salmo molto probabilmente è avvenuta nel tempo di pace relativa quando Antioco V ridiede la libertà religiosa ad Israele (163 a.C.).
Il salmista si rivolge a Dio come rifugio di Israele. Rifugio certo, perché Dio non è una creazione dell'uomo, egli, infatti, da sempre esiste: “Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, o Dio”; "Mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato".
Il salmista ha il vivo ricordo di tracotanti superbi entrati nel tempio di Gerusalemme credendo di affermarsi su Dio: Tolomeo III e Tolomeo IV erano entrati nel tempio offrendo sacrifici ai loro dei (ca. 220-221 a.C.); Antioco IV Epifane lo saccheggiò e vi fece sacrifici a Giove (ca. 169-167 a.C).
Ma l'uomo è un nulla di fronte a Dio, che per l'antico peccato lo fa ritornare polvere (Gn 3,19): “Tu fai ritornare l'uomo in polvere”. L'ira di Dio travolge i superbi: “Tu li sommergi: sono come un sogno al mattino, come l'erba che germoglia; al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca”; “Sì, siamo distrutti dalla tua ira”; “Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua collera”.
L'ira di Dio è rivolta a portare l'uomo al ravvedimento. E' saggezza sapere che la collera di Dio non è una finta, ma una realtà dura che incombe sui ribelli. E' saggezza temere la collera di Dio e non sfidarla, come già fece il faraone (Es 9,30): “Chi conosce l'impeto della tua ira e, nel timore di te, la tua collera?”.
Il salmista si colloca tra tutti gli uomini, ma anche presenta fin dall'inizio la sua appartenenza ad Israele: “Signore, tu sei stato per noi un rifugio...”; e per Israele invoca pace e gioia dopo giorni e anni di afflizione: “Ritorna, Signore: fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi!...Rendici la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti".
Commento tratto da “Cantico dei Cantici ” di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo a Filèmone

Carissimo,ti esorto, io Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù. Ti prego per Onèsimo, figlio mio,che ho generato nelle catene. Te lo rimando, lui, che mi sta tanto a cuore.
Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo ora che sono in catene per il vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato ma volontario. Per questo forse è stato separato da te per un momento perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore.
Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso.
Fil 9b-10, 12-17

La Lettera a Filèmone è uno dei testi più brevi delle lettere di Paolo, in quanto composta solamente di 25 versetti. Si può dire che è un biglietto personalissimo “scritto interamente di suo pugno” dall’apostolo, che è prigioniero (probabilmente ad Efeso, più che a Cesarea o a Roma) .
Paolo scrive a Filèmone, suo carissimo amico e collaboratore, questo biglietto quasi fosse un’impegnativa in prima persona, ed usa parole calde e coinvolgenti per invitarlo a riaccogliere lo schiavo Onèsimo, che era fuggito dalla sua casa e si era rifugiato presso di lui.
“Carissimo, ti esorto, io Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù. Ti prego per Onèsimo, figlio mio,che ho generato nelle catene. Te lo rimando, lui, che mi sta tanto a cuore.”
Sin dalle prime parole è chiaro l'atteggiamento di Paolo. Egli, in forza dell'autorità apostolica potrebbe chiedere a un credente il compimento di un dovere cristiano, cioè la liberazione di uno schiavo. Eppure Paolo, vuole da Filèmone un gesto libero e generoso e quindi lo esorta in nome non solo dell’amicizia, che li unisce, ma anche della carità. Definisce Onesimo, “figlio mio” e il riferimento alla generazione nelle catene fa pensare che Paolo abbia convertito Onesimo alla fede e lo abbia battezzato egli stesso. Paolo qui dimostra di rispettare la legge e rimanda lo schiavo al suo padrone, anche se ormai gli è divenuto caro, come un figlio devoto capace di impegnarsi per la diffusione del Vangelo.
“Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo ora che sono in catene per il vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato ma volontario”.
Qui Paolo manifesta chiaramente le sue intenzioni. Con un velo di ironia sembra persino affermare che Filèmone non lo stia aiutando molto in questo frangente della sua prigionia, e avrebbe avuto dunque il diritto di trattenersi Onesimo. Egli però si rimette al cuore di Filèmone, perché compia il bene non per forza, ma con un atto libero e di sua volontà.
“Per questo forse è stato separato da te per un momento perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore.”
Quindi Paolo esorta Filèmone a non trattare più Onesimo come uno schiavo ma come un fratello nel Signore. Solo così dimostrerà di essere davvero un cristiano. Egli deve concedere la libertà al suo schiavo e lasciargli la facoltà di andare da Paolo per servire il Vangelo.
Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso”.
Dunque Filèmone, in forza dell'amicizia che lo lega a Paolo dovrà accogliere Onèsimo come Paolo stesso.
Paolo non chiede certo poco. Gli schiavi non erano considerati come persone, ma come oggetti o come animali. Erano proprietà del loro padrone ed egli li poteva trattare come voleva. Non avevano alcun diritto, anche se Filèmone era cristiano non è detto che trattasse bene i propri schiavi. Forse Onesimo era fuggito proprio per un trattamento poco umano. Il messaggio di questo piccolo biglietto è certamente di straordinaria profondità e importanza!
Paolo indica il modo cristiano di vivere i rapporti sociali, compresi quelli che intercorrono tra padrone e schiavo. I cristiani appartengono tutti al Signore, senza distinzione e sono legati tra di loro dal solo legame della fraternità. Paolo non fa un discorso sociale sulla assurdità della schiavitù, ma va più in profondità, tocca le radici dell’essere cristiano. Chiunque abbia accolto Cristo deve saper vivere lo stesso suo stile di vita, totalmente nuovo e controcorrente per cui Filèmone non deve rendere un favore all’amico Paolo, ma dovrà testimoniare di aver capito che in Cristo Gesù siamo tutti suoi schiavi e tra di noi siamo tutti fratelli, figli dello stesso Padre.

Nota: È probabile che Paolo abbia raggiunto il suo scopo, perché nel suo ambiente più tardi si troverà un certo Onèsimo e il “Martirologio Romano” parla del suo martirio, raccogliendo una tradizione per cui Onèsimo, consacrato vescovo da Paolo che lo lasciò ad Efeso come sostituto di Timoteo, sarebbe morto a Roma lapidato, sembra sotto Domiziano.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù . Egli si voltò e disse loro: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro.
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere la pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”.
Lc 14, 25-33

Questo brano del Vangelo di Luca fa parte della sezione del grande viaggio di Gesù verso Gerusalemme dove vengono presentate le esigenze del regno di Dio sullo sfondo della morte di Gesù.
Il brano inizia dicendo che una folla numerosa seguiva Gesù, ed Egli continua il suo insegnamento
dicendo: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”.
E’ errato pensare che Gesù chiedendoci di metterlo al primo posto, entri in concorrenza con i vari amori umani: per i genitori, il coniuge, i figli e i fratelli. Cristo non è un "rivale in amore" di nessuno, anzi ponendo Lui al primo posto impareremo a purificare il nostro modo umano, a volte sbagliato, di amare, perchè amando gli altri come Lui ci ama… li ameremo di un amore che non si può fermare di fronte a nessuna difficoltà. Tante persone credono che per poter seguire Cristo bisogna dire no a ciò che si ha di più caro, come se l'amore per Cristo sia totalitario e ci impedisse di amare anche gli altri. Avviene invece il contrario nel senso che una volta che il nostro cuore si è aperto a quello di Dio può contenere il mondo intero.
Poi Gesù aggiunge: "Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”. Chi segue Gesù fino in fondo, deve mettere in conto anche la possibilità di perdere la propria vita, (sappiamo bene che anche recentemente molti cristiani hanno testimoniato con la vita la loro fede) e di accettare le prove quotidiane, piccole e grandi che siano, per amor Suo.
Gesù fa anche esempi pratici: Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine?
La torre ricorda l'esperienza biblica di Babele. Nella costruzione della torre di Babele, troviamo il simbolo della presunzione umana che pretende di arrivare a Dio solo con i propri mezzi. Gesù usa proprio il simbolo della torre come elevazione dell'uomo verso Dio. Costruire una torre richiede una spesa non indifferente per chi ha poche risorse. Sedersi per calcolare la spesa è frutto del discernimento per arrivare poi a cercare di vedere con gli occhi della fede in Dio, tutto ciò che ci circonda sia in bene che in male .
Alla fine Gesù rivolge nuovamente a chi vuole essere suo discepolo questa richiesta: “Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”.
Gesù domanda la libertà di fronte ai propri beni, la disponibilità a condividerli con chi soffre, la gioia di servirlo in chiunque è bisognoso e umiliato, ossia il loro utilizzo non per sé stessi, ma in funzione del regno di Dio. In altre parole la rinunzia ai propri beni (che come la vita ci sono stati dati in prestito) consiste essenzialmente nel metterli al servizio di una realtà più grande.

 

*****

“Nel Vangelo di oggi Gesù insiste sulle condizioni per essere suoi discepoli: non anteporre nulla all’amore per Lui, portare la propria croce e seguirlo. Molta gente infatti si avvicinava a Gesù, voleva entrare tra i suoi seguaci; e questo accadeva specialmente dopo qualche segno prodigioso, che lo accreditava come il Messia, il Re d’Israele. Ma Gesù non vuole illudere nessuno. Lui sa bene che cosa lo attende a Gerusalemme, qual è la via che il Padre gli chiede di percorrere: è la via della croce, del sacrificio di se stesso per il perdono dei nostri peccati. Seguire Gesù non significa partecipare a un corteo trionfale! Significa condividere il suo amore misericordioso, entrare nella sua grande opera di misericordia per ogni uomo e per tutti gli uomini. L’opera di Gesù è proprio un’opera di misericordia, di perdono, di amore! È tanto misericordioso Gesù! E questo perdono universale, questa misericordia, passa attraverso la croce. Gesù non vuole compiere questa opera da solo: vuole coinvolgere anche noi nella missione che il Padre gli ha affidato. Dopo la risurrezione dirà ai suoi discepoli: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi … A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati» (Gv 20,21.22). Il discepolo di Gesù rinuncia a tutti i beni perché ha trovato in Lui il Bene più grande, nel quale ogni altro bene riceve il suo pieno valore e significato: i legami familiari, le altre relazioni, il lavoro, i beni culturali ed economici e così via…
Il cristiano si distacca da tutto e ritrova tutto nella logica del Vangelo, la logica dell’amore e del servizio.”
Papa Francesco parte dell’Angelus dell’8 settembre 2013

 

Pagina 118 di 162

Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

Parrocchia Nostra Signora de La Salette
Piazza Madonna de La Salette 1 - 00152 ROMA
tel. e fax 06-58.20.94.23
e-mail: email
Settore Ovest - Prefettura XXX - Quartiere Gianicolense - 12º Municipio
Titolo presbiterale: Card. Polycarp PENGO
Affidata a: Missionari di Nostra Signora di «La Salette» (M.S.)
 

Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice! Accetta i cookie per chiudere avviso. Per saperne di più riguardo ai cookie utilizzati e a come cancellarli, guarda il regolamento Politica sulla Privacy.

Accetto i cookie da questo sito