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Ago 30, 2017

XXII Domenica – Anno A – La via della croce – 3 settembre 2017

La liturgia di questa domenica ci indica quale sia la via per seguire Gesù: incamminarsi con lui verso la Croce, perchè chi vuol essere con Lui, deve accettare di rischiare la propria vita, seguendo il suo esempio.

Nella prima lettura, vediamo come il profeta Geremia vorrebbe sottrarsi al compito che Dio gli ha affidato. E’ una confessione dolorosa che il profeta fa delle ostilità che la sua vocazione profetica incontra, ma alla fine riconosce che la Parola di Dio è divenuta più forte di lui, è come un fuoco che gli brucia dentro, che non può più contenere. Il profeta anticipa la figura del servo sofferente, immagine di Gesù.

Nella seconda lettura, dalla lettera ai Romani, San Paolo ci esorta a non comportarci secondo la logica del mondo che non conosce Cristo, ma di imparare a discernere per lasciarci poi trasformare dallo Spirito nella ricerca del volere di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.

Il Vangelo di Matteo, ci presenta Gesù che rivela ai suoi discepoli il senso del suo essere Messia: non il successo e la fama, ma lo scandalo della croce. Gesù alle pretese di Pietro, che a nome degli altri apostoli, aveva commentato «... Signore questo non ti accadrà mai» gli rivela che chi non accetta la logica della croce non pensa secondo Dio, ma secondo gli uomini. Poi aggiunge, rivolto ai suoi discepoli di allora, e a noi oggi:”Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.” Questo è il paradosso cristiano: perdersi per ritrovarsi in Dio; spendersi per acquistare, servire per essere dalla parte di Dio; donare la vita per vivere da risorti.

Dal libro del profeta Geremìa
Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre;
mi hai fatto violenza e hai prevalso.
Sono diventato oggetto di derisione ogni giorno;
ognuno si beffa di me.
Quando parlo, devo gridare, devo urlare: «Violenza! Oppressione!».
Così la parola del Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno tutto il giorno.
Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!».
Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa;
mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo.
Ger 20,7-9

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T. a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C). Incompreso, perseguitato, spesso minacciato di morte, Geremia, timido ma amico di Dio, non cessa di lanciare angosciati appelli alla conversione, non esita a mostrare a dito i responsabili che hanno deviato il popolo. Egli se la prende con la falsa coscienza dei benpensanti che si credono nel giusto, solo perchè osservano le pratiche religiose, senza viverle nell’animo.

Questo brano riporta i noti versetti, :“Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre;mi hai fatto violenza e hai prevalso,” che sono tratti dal cap. 20, e fanno parte dell’ultima sezione delle celebri confessioni; contengono parole impressionanti, ma si troveranno ancora di più sconcertanti nei versetti successivi. Il profeta si sente ingannato da Dio che lo ha reso, a causa della sua missione, un escluso dalla società, vorrebbe ribellarsi infatti dice: Mi dicevo: "Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!". Lui si propone questo, un po’ come un uomo innamorato di una donna che dice a sé stesso "Non penserò più a lei!” ma poi si rende conto che il suo amore è più forte di lui, capisce che “è come un fuoco ardente, chiuso nelle sue ossa, che non si può contenere” . La sua vocazione, è divenuta più forte di lui!
Geremia, profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù, rimane per il suo popolo, e per tutti i cristiani, un testimone della speranza. Egli fu anche l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà. La sua intimità con Dio e la religione del cuore, che egli ha vissuto e predicato, fanno di lui il profeta-maestro della vita interiore dell’uomo di ogni tempo.

Salmo 62 Ha sete di te, Signore, l’anima mia.

O Dio, tu sei il mio Dio,
dall’aurora io ti cerco,
ha sete di te l’anima mia,
desidera te la mia carne
in terra arida, assetata, senz’acqua.

Così nel santuario ti ho contemplato,
guardando la tua potenza e la tua gloria.
Poiché il tuo amore vale più della vita,
le mie labbra canteranno la tua lode.

Quando penso a te che sei stato il mio aiuto,
esulto di gioia all’ombra delle tue ali.
A te si stringe l’anima mia:
la tua destra mi sostiene.
Il salmo presenta un pio giudeo, che fin dal primissimo mattino si pone in orazione. Egli cerca Dio, perché gli si è rivelato a lui per mezzo del dono della fede e delle Scritture, e ora cerca l’unione con lui, l’intima conoscenza di lui, in un “cercare” in cui il “trovare” spinge ancor più a cercare.
L’orante è presentato come un assetato in mezzo ad un deserto. Ma l’assetato del salmo sa dov’è la fonte, non è disorientato; sa che la fonte della pace e della gioia è Dio: Dio stesso è questa fonte.
L’orante ha un punto di riferimento: il tempio; e così vi si reca per trarre ristoro nella contemplazione Dio: “Così nel santuario ti ho contemplato, guardando la tua potenza e la tua gloria”. L’orante cerca Dio, ama Dio, non tanto i benefici di Dio. Ama lui, e lo dichiara poiché dice che la comunione con lui (“il tuo amore") “vale più della vita”. Questa dolce consapevolezza è la molla della sua lode: “Le mie labbra canteranno la tua lode”; “Così ti benedirò per tutta la vita”. Egli, ritornato dal tempio alla sua dimora, probabilmente distante da Gerusalemme, ha come pensiero dolce e vivo Dio, e così “nelle veglie notturne”, quando il sonno è assente, non si agita, ma pensa a Dio, cerca Dio.

Ha tanti nemici che cercano di ucciderlo, che probabilmente sono con bande di predoni Idumei (Cf. Ps 58), ma ha la ferma speranza che i nemici non avranno vittoria e che il re trionferà e insieme a lui chi gli è fedele: “Chi giura per lui” (Cf. 1Sam 17,55; 25,2; 2Sam 11,11; 15,21; ecc.). Gli ultimi versetti, per le loro dure espressioni, non entrano nella recitazione cristiana.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, vi esorto, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.
Rm 12,1-2
Nel corso della sua lettera ai Romani, Paolo ha rivolto diverse esortazioni a carattere dottrinale. Dal capitolo 12 iniziano esortazioni che sembrano a prima vista molto generali, ma in realtà ci dimostrano come egli conosceva bene la situazione della comunità romana perchè le dà direttive concrete e particolari.
In questo brano Paolo sollecita anzitutto i romani dicendo: vi esorto, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. …
Paolo non si appella dunque al buon senso dei destinatari, ma al fatto che essi sono oggetto di un particolare amore da parte di Dio, che ha fatto di loro il suo popolo. In forza del dono ricevuto, i credenti devono a loro volta offrire a Dio i propri “corpi”. Questo termine indica non una parte, ma tutta la persona, nelle sue grandezze e limitazioni. In altre parole Paolo li esorta a mettere al servizio non più del peccato, ma di Dio tutto il loro essere e il loro operare.
I credenti devono offrire a Dio i propri corpi come “sacrificio vivente”
Questo sacrificio è “vivente” perché mediante il battesimo i credenti sono morti al peccato e “camminano in una vita nuova” (Rm 6,4);
Il sacrificio è anche “santo”, in quanto coloro che lo praticano hanno ottenuto in modo pieno la santità del popolo di Dio (V. Rm 1,7) e “gradito a Dio”, poiché essi non mancano di affidarsi alla la Sua volontà.
Questo sacrificio è un “culto”, cioè un servizio divino, analogo a quello che era offerto dai sacerdoti nel tempio e costituiva uno dei privilegi di Israele (V. Rm 9,4); da esso però si distingue in quanto è “spirituale”, cioè dettato dalla ragione guidata dallo Spirito.

Poi l’Apostolo continua raccomandando una componente molto importante di questo sacrificio:
Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.
I credenti non devono conformarsi alla mentalità di questo mondo, ma piuttosto rinnovarsi intimamente per poter discernere la volontà di Dio.
Secondo la terminologia dei rabbini “questo mondo”, in quanto si oppone al “mondo futuro”, è il mondo attuale immerso nel peccato, che Paolo ha descritto lungamente nella prima parte della lettera (Rm 1,18-3,8). Essi devono evitare di “conformarsi” ad esso, cioè di assumere la mentalità che gli è propria, e perciò devono adottare uno stile di vita diverso.
Per fare ciò non devono uscire dal mondo (V. 1Cor 5,9-10), ma piuttosto devono “lasciarsi trasformare”, operando in se stessi un profondo “rinnovamento” della mente, cioè del proprio modo di pensare. *
Ciò ha come effetto la capacità di “discernere”, ossia di scoprire quale sia la volontà di Dio, che consiste in tutto “ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (V.Sal 19,8-9).
La volontà di Dio non si manifesta quindi in precetti che scandiscono la vita personale e comunitaria, ma in un bene che deve essere individuato dalla ragione illuminata dalla fede e dalla carità e praticato nelle più varie circostanze della vita.

Paolo sottolinea così come il credente sia chiamato ad offrire tutto se stesso a Dio nell’obbedienza alla Sua volontà.
La vita cristiana non consiste in atteggiamenti rituali e neppure in slanci mistici dell’anima, ma in un operare quotidiano e costante in conformità al volere divino. Questo è indicato certamente nella legge che Dio ha dato al Suo popolo, ma secondo l’insegnamento di Gesù essa ha cessato di essere un insieme di prescrizioni che regolano i dettagli della vita quotidiana per identificarsi con l’unico comandamento che impone l’amore del prossimo. E proprio a questo amore che il credente deve conformarsi, dissociandosi dalla mentalità di questo mondo, tutta incentrata sul soddisfacimento egoistico dei propri desideri.
Al credente, che deve prendere ogni giorno numerose decisioni piccole e grandi, Paolo non propone dunque come criterio una legge, bensì la ragione del cuore, la quale è ora guidata e illuminata dallo Spirito.
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* Questo pensiero di Paolo è ripreso in pieno nella Lettera a Diogneto, un testo anonimo risalente alla fine del II secolo, e inserito tradizionalmente nel corpo degli scritti dei Padri Apostolici
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».

Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni
Mt 16, 21-27
Nella brano liturgico di domenica scorsa, l’evangelista Matteo ci narrava dell’apostolo Pietro che veniva elogiato da Gesù per averlo riconosciuto Messia, Figlio di Dio, e depositario delle chiavi del regno; questa volta nel brano successivo ci riporta l’episodio in cui Gesù parla per la prima volta ai suoi della sua passione. E' il primo dei tre annunci della passione-morte e risurrezione che Gesù in diverse riprese fa ai discepoli durante il viaggio verso la città santa.
Il brano inizia con narrarci che “Gesù cominciò a spiegare spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno.”

E’ proprio Pietro, che poco prima lo aveva proclamato: “il Cristo, il Figlio del Dio vivente” si sente in disaccordo con questo annunzio. Riconoscendo in Gesù il Messia promesso, Pietro come i suoi compagni pensava anche lui al liberatore politico e militare che con la forza di Dio avrebbe vinto tutti gli oppressori del suo popolo, instaurando una condizione di pace universale.
Anche questa volta, forse rafforzato dall’elogio ricevuto poco prima, prende coraggio e riprende Gesù dicendo: Dio te ne scampi, Signore, questo non ti accadrà mai”
La contro-reazione di Gesù è però quanto mai forte: “ Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”

Il contrasto con la scena precedente - in cui Gesù aveva proclamato "beato" Pietro - non può essere immaginato più netto e più crudo. Gesù lo chiama addirittura "satana": il Nemico - che nel deserto aveva cercato di persuaderlo a imboccare la via del potere e del successo, ora torna all'assalto con una forza di suggestione ancora maggiore, servendosi del discepolo stesso. Ciò spiega la sua risposta dura e decisa: " Va’ dietro a me, Satana” che richiama quel “Vattene, satana!" (Mt 4,10) con cui Gesù aveva liquidato il tentatore. Probabilmente, però, l'espressione può essere anche intesa nel richiamare Pietro a mettersi di nuovo nella sua posizione di discepolo che non pretende di precedere il Maestro insegnandogli la strada, ma lo segue accettando umilmente di condividere la sua sorte.
Tu mi sei di scandalo", cioè vuoi impedirmi di seguire il volere di mio Padre: "perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini".

Questo ultimo richiamo arriva anche a noi che ragioniamo molto spesso come Pietro e gli altri discepoli. Anche noi, come loro, spesso siamo prigionieri di un'immagine di Dio che - se è veramente potente e buono - non può permettere il dolore in tutte le sue forme e dovrebbe sopprimere quanti operano il male. Questo Dio però, dobbiamo rendercene conto ogni giorno di più, che è un dio a nostra immagine e somiglianza e non è il Dio di Gesù.

Poi Gesù ci dice quali sono le condizioni per seguirlo "Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua….".
Sono parole che suonano dure ai nostri orecchi, ma sono le uniche che possono liberarci dalla prigionia delle nostre tradizioni, delle nostre abitudini, delle nostre pigrizie, per cui possiamo capire che “rinnegare se stessi”, vuol dire rinnegare l’uomo vecchio che è in noi, per ritrovare la purezza della nostra origine, la ragione vera della nostra vita.

La via per la salvezza è una via diversa da quella del mondo che spinge invece a cercare solo se stessi senza occuparsi degli altri. Per questo Gesù insiste: "Chi vorrà salvare la propria vita la perderà".
Nessuno può salvarsi da solo perchè colui che vuole salvarsi da solo si perderà e non avrà neanche gustato la felicità dell'amicizia e della fraternità. Potrà anche guadagnare il mondo intero, ma non sarà mai soddisfatto. La felicità non sta nel possedere i beni del mondo, che dovremo prima e poi lasciare, ma nell'essere uomini e donne rinnovati nel cuore e nello spirito dal Vangelo.
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Nell’itinerario domenicale con il Vangelo di Matteo, arriviamo oggi al punto cruciale in cui Gesù, dopo aver verificato che Pietro e gli altri undici avevano creduto in Lui come Messia e Figlio di Dio, «cominciò a spiegare [loro] che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto … , venire ucciso e risorgere il terzo giorno». E’ un momento critico in cui emerge il contrasto tra il modo di pensare di Gesù e quello dei discepoli. Pietro addirittura si sente in dovere di rimproverare il Maestro, perché non può attribuire al Messia una fine così ignobile. Allora Gesù, a sua volta, rimprovera duramente Pietro, lo rimette “in riga”, perché non pensa «secondo Dio, ma secondo gli uomini» e senza accorgersene fa la parte di satana, il tentatore.
Su questo punto insiste, nella liturgia di questa domenica, anche l’apostolo Paolo, il quale, scrivendo ai cristiani di Roma, dice loro: «Non conformatevi a questo mondo - non entrare negli schemi di questo mondo - ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio»

In effetti, noi cristiani viviamo nel mondo, pienamente inseriti nella realtà sociale e culturale del nostro tempo, ed è giusto così; ma questo comporta il rischio che diventiamo “mondani”, il rischio che “il sale perda il sapore”, come direbbe Gesù, cioè che il cristiano si “annacqui”, perda la carica di novità che gli viene dal Signore e dallo Spirito Santo. Invece dovrebbe essere il contrario: quando nei cristiani rimane viva la forza del Vangelo, essa può trasformare «i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita» (Paolo VI, Esort. ap.Evangengelii nuntiandi, 19).
E’ triste trovare cristiani “annacquati”, che sembrano il vino allungato, e non si sa se sono cristiani o mondani, come il vino allungato non si sa se è vino o acqua! E’ triste, questo. E’ triste trovare cristiani che non sono più il sale della terra, e sappiamo che quando il sale perde il suo sapore, non serve più a niente. Il loro sale ha perso il sapore perché si sono consegnati allo spirito del mondo, cioè sono diventati mondani.
Perciò è necessario rinnovarsi continuamente attingendo la linfa dal Vangelo. E come si può fare questo in pratica? Anzitutto proprio leggendo e meditando il Vangelo ogni giorno, così che la parola di Gesù sia sempre presente nella nostra vita. Ricordatevi: vi aiuterà portare sempre il Vangelo con voi: un piccolo Vangelo, in tasca, nella borsa, e leggerne durante il giorno un passo. Ma sempre con il Vangelo, perché è portare la Parola di Gesù, e poterla leggere. Inoltre partecipando alla Messa domenicale, dove incontriamo il Signore nella comunità, ascoltiamo la sua Parola e riceviamo l’Eucaristia che ci unisce a Lui e tra noi; e poi sono molto importanti per il rinnovamento spirituale le giornate di ritiro e di esercizi spirituali. Vangelo, Eucaristia e preghiera. Non dimenticare: Vangelo, Eucaristia, preghiera. Grazie a questi doni del Signore possiamo conformarci non al mondo, ma a Cristo, e seguirlo sulla sua via, la via del “perdere la propria vita” per ritrovarla. “Perderla” nel senso di donarla, offrirla per amore e nell’amore – e questo comporta il sacrificio, anche la croce – per riceverla nuovamente purificata, liberata dall’egoismo e dall’ipoteca della morte, piena di eternità.
La Vergine Maria ci precede sempre in questo cammino; lasciamoci guidare e accompagnare da lei.
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 31 agosto 2017

 

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(Papa Giovanni XXIII)

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