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Ago 27, 2021

XXII Domenica del Tempo Ordinario - Anno B - "Mettere in pratica la parola" - 29 agosto 2021

Le letture liturgiche di questa domenica si presentano come un felice tentativo di coniugare – secondo una giusta scala di valori – legge e cuore, culto ed esistenza: Antico Testamento e il Vangelo si illuminano a vicenda e ci fanno crescere nella fede.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del Deuteronomio, Mosè presenta al popolo la Torah, cioè le leggi che Dio gli aveva dato e dice che si dovevano osservare senza aggiungere o togliere nulla. La Torah, è presentata non come un castello di aride prescrizioni, ma come espressione dell’incontro tra la volontà del Dio “vicino” e l’adesione gioiosa della libera volontà dell’uomo. La religione non si vive guardando al passato, alle tradizioni, ma al presente, illuminato dalla fede nella presenza di Dio.
Nella seconda lettura, l’apostolo Giacomo ci dice che la parola di Dio ha bisogno di evangelizzatori e di testimoni e ci esorta ad essere tra “quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto”. La parola dunque non va solo ascoltata, ma anche vissuta e fatta conoscere a tutti.
Nel Vangelo di Marco, Gesù rimprovera i suoi ascoltatori di onorare Dio con le labbra, ma non con il cuore, e denuncia i limiti e gli errori del ritualismo fine a se stesso, ed enuncia in una specie di decalogo i veri peccati di cui l’uomo si macchia e che sono cosa ben più grave che la mancata osservanza di taluni precetti cultuali.

Dal Libro del Deuteronomio
Mosè parlò al popolo dicendo: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo.
Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi do?».
Dt 4,1-2,6-8

Il Deuteronomio è il quinto libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. È stato scritto in ebraico intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi. È composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali.
Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge” la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire. Questi nuovi precetti sono orientati a regolare la vita stabile, sedentaria, che di lì a poco il popolo d'Israele avrebbe iniziato all'arrivo alla Terra Promessa. Ciononostante, queste leggi sono stilate con grande affetto, animando il compimento della Legge con motivi teologici.
Il Deuteronomio ci consente di comprendere che cos’è il popolo di Dio, di cogliere quanto l’Alleanza che unisce a Dio, comporta insieme di ricchezza e di esigenza: essa è un dono gratuito e appello pressante che bisogna vivere nelle realtà concrete.
Il Deuteronomio richiama continuamente il credente a quelli che sono gli atteggiamenti fondamentali: una fede che si fa sempre più profonda, un amore di Dio che esclude ogni compromesso, un servizio di Dio prestato con gioia, e una accettazione reale ed fiduciosa delle realtà terrestri.
In questo brano Mosè dopo aver fatto un riassunto del lungo viaggio, riassume nel suo discorso di commiato le leggi ricevute da Dio:
“Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo…”
Per dare maggior potenza ai suoi discorsi Mosè aumenta anche l’importanza del legame diretto che si è costituito tra Dio ed Israele affermando ancora: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?”
Mosè sa bene quello che dice e non dimentica l’origine vera della sua sapienza legislativa. Per questo intende rafforzare il concetto di origine divina delle leggi che egli ha promulgato e fatto rispettare e ravviva alla sua gente la memoria della loro origine divina perché la conservino nel cuore e la trasmettano.
Proprio questa memoria della presenza di Dio obbliga il popolo ad assumere uno stile di vita differente da quello degli altri popoli e a presentarsi davanti a questi come un popolo legato in modo del tutto speciale al proprio Dio. Questo brano in particolare testimonia l’orgoglio che Israele sentiva per la Torah, la sua legge, e la convinzione che essa superava in saggezza tutte le altre. La Torah, qui è presentata non come un castello di aride prescrizioni, ma come una espressione dell’incontro con la volontà del Dio vicino e l’adesione gioiosa della libera volontà dell’uomo.
Osservando liberamente questa parola con la mente e il cuore, il credente può scoprire la presenza del Dio Salvatore. Il Signore, infatti, non è tanto da cercare in cieli lontani, ma nella legge che Egli ha offerto al Suo popolo.

Salmo 14 Chi teme il Signore abiterà nella sua tenda.
Colui che cammina senza colpa,
pratica la giustizia
e dice la verità che ha nel cuore,
non sparge calunnie con la sua lingua.

Non fa danno al suo prossimo
e non lancia insulti al suo vicino.
Ai suoi occhi è spregevole il malvagio,
ma onora chi teme il Signore.

Non presta il suo denaro a usura
e non accetta doni contro l’innocente.
Colui che agisce in questo modo
resterà saldo per sempre.

Il salmista considera le condizioni necessarie per abitare nella tenda del Signore, e dimorare sul suo santo monte.
Ne risulta una preghiera piena di propositi e di sentita, seppur implicita, invocazione per poterli attuare e mantenere.
La tenda del Signore sul santo monte è il tempio, dove nel “santo dei santi” c’era l’arca dell’alleanza con la presenza tra i cherubini della gloria di Jahwéh.
Questo salmo noi lo recitiamo guardando alla reale presenza di Cristo nell’Eucaristia. Per dimorare col cuore nella tenda, cioè rimanere nel raggio dell’Eucaristia, è necessaria una vita secondo il Vangelo. L’espressione “Ai suoi occhi è spregevole il malvagio”, va spogliata della tentazione del disprezzo. E’ solo un non vedere il malvagio come un modello da imitare. Noi dobbiamo separare il peccato dal peccatore, per non cadere nell’errore di giudicare e condannare, benché egli sia ben riconoscibile quale peccatore (Mt 7,20): “Dai loro frutti dunque li riconoscerete”. Onorare chi teme il Signore è, per viceversa, stimarne l’esempio, imitarne il comportamento; è un rispetto profondo poiché Dio è presente - inabitazione - nel cuore del giusto.
Chi agisce con rettitudine rimane nel raggio dell’Eucaristia e da essa trae la forza per rimanervi con sempre maggiore intensità d’amore. Egli “resterà saldo per sempre”.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera di S. Giacomo apostolo
Fratelli miei carissimi, ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento. Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle sue creature.
Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza. Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi.
Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo.
Gc 1,17-18, 21b-22, 27

L’ autore di questa lettera, è l'apostolo Giacomo figlio di Alfeo, cioè Giacomo il Minore, che ebbe un posto di primo piano nella comunità madre di Gerusalemme. Paolo lo cita tra i testimoni della resurrezione (1Cor 15,7), Pietro uscendo di prigione si preoccupa di annunciargli subito la sua liberazione (At 12,17) e all’indomani della sua conversione Paolo prende contatto con lui (Gal 1,18-19). Giacomo prese parte nel 49 al Concilio di Gerusalemme in maniera determinante: quest’uomo di mentalità giudaica diede prova di conciliazione e di accoglienza nei riguardi dei convertiti provenienti dal paganesimo (At 15,13-29).
Fino alla dispersione iniziale degli apostoli degli anni 36-37, Giacomo sembra riscoprire la responsabilità della Chiesa madre; gli anziani si riunivano presso di lui, e sarà sempre lui ad accogliere Paolo che reca la colletta delle Chiese (At 21,18-26) poco prima del suo arresto nel tempio (Pentecoste 58).
Secondo lo storico Eusebio di Cesarea, Giacomo venne ucciso nell’anno 63 durante una sollevazione popolare istigata dal sommo sacerdote Hanan, che per quel delitto sarà poi destituito .
La lettera è indirizzata alle dodici tribù della diaspora, è scritta in greco, il che significa che si rivolge a comunità cristiane viventi fuori della Palestina, e la terra fuori della Palestina, per gli Ebrei, è diaspora. Il giudaismo, come confederazione delle dodici tribù aveva già cessato di esistere dal 722 a.C. , quindi la restaurazione di Israele in confederazioni di dodici tribù sarà compito escatologico del Messia (Os 9,9; Ger 3,18; Ez 37,19.24; ecc.). Questa speranza Giacomo la vede già compiuta nella comunità cristiana: essa è per lui il popolo delle dodici tribù, l’Israele definitivo.
La lettera nel suo complesso è piuttosto breve (cinque capitoli per un totale di quasi cento versetti), ma il suo contenuto è notevole per la sua attenzione verso i deboli, gli afflitti, il suo senso della povertà e la sua diffidenza per la ricchezza, la sua viva denuncia dell’ingiustizia sociale, i suoi avvertimenti agli operatori commerciali.
E’ difficile suddividere la lettera di Giacomo in sezioni, il brano che abbiamo si apre con i versetti con cui si conclude il primo capitolo: “ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento”, vale a dire: Dio è la fonte di ogni bene e in Lui non c’è il male. Con questa considerazione, Giacomo chiude la sua ampia riflessione sul tema della prova e introduce il tema della seconda parte del primo capitolo: “Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle sue creature”, cioè siamo stati rigenerati dalla Parola, che proviene da Dio, deponiamo dunque il nostro modo di operare secondo le logiche umane per rivestirci della Parola stessa.
Al termine del brano troviamo la sua esortazione: “Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza. Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi…
Non manca poi di toccare il tema delle persone più deboli “Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo”.
A quei tempi gli orfani e le vedove erano le persone più deboli. Oggi non è certamente difficile trovare persone che hanno bisogno di tutto, ma soprattutto hanno bisogno di essere ascoltate, di essere considerate uguali a noi, di essere almeno considerate persone. La religiosità che ciascuno ha nei confronti del Signore aiuta l'uomo ad aprire il proprio cuore e sentire che Dio, se vogliamo veramente incontrarlo e vederlo, lo troviamo soltanto nel fratello bisognoso, forse solo di un sorriso, ma anche di solidarietà, misericordia, di carità vera cioè di condivisione di ciò che si possiede..
Quando, dopo aver ascoltato la Parola, non sentiamo dentro di noi il desiderio di incontrare i fratelli forse abbiamo bisogno di un sincero e profondo esame di coscienza, per capire dove ci siamo fermati nel cammino verso la meta della nostra vita cristiana


Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto:
“Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».
Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro».
E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».
Mc 7, 1-8. 14-15. 21-23

La liturgia di questa domenica ci ripropone il discorso della sequela del Cristo. Il Vangelo di Marco, di cui oggi si riprende la lettura dopo aver letto nelle domeniche precedenti il lungo discorso di Giovanni sul "pane di vita", è quello che maggiormente ci guida a seguire il Cristo attraverso la sua Parola.
In questo brano, tratto dal capitolo 7, (’ultimo episodio che precede i viaggi di Gesù fuori dalla Galilea), troviamo una raccolta di detti pronunciati da Gesù circa il significato che rivestono le pratiche giudaiche nel contesto del regno da Lui annunziato.
Il brano inizia riportando che “si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate….” per l’evangelista è importante sottolineare che Gesù deve prendere posizione proprio per questo fatto dato che “tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame” In verità la Torah, la Legge, rivolgeva il comando dell’abluzione rituale delle mani solo ai sacerdoti che al tempio facevano l’offerta, il sacrificio (cf. Es 30,17-21). Ma al tempo di Gesù vi erano movimenti che radicalizzavano la Torah e moltiplicavano le prescrizioni della Legge, con una particolare ossessione per il tema della purità. Tra questi vi erano gli chaverim (compagni, amici) e i perushim (separati, farisei), i quali consideravano molto importante la prassi del lavarsi le mani e di altre abluzioni in vista della purità, che poteva essere infranta a causa di contatti con persone o realtà impure.
I farisei e gli scribi dunque chiedono a Gesù: “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?”Gesù lasciava liberi i suoi discepoli da queste osservanze che non erano state richieste da Dio, ma imposte dagli interpreti delle sante Scritture, i quali le dichiaravano “la tradizione”, attribuendole la stessa autorità riservata alla parola di Dio. Gesù faceva un’attenta operazione di discernimento, distinguendo bene ciò che era espressione della volontà di Dio e ciò che invece era consuetudine umana, norma formata dagli uomini religiosi che, assolutizzata, diventa un ostacolo alla stessa parola di Dio e una perversione della sua immagine.
Per tutta risposta Gesù accusa i suoi interlocutori di ipocrisia, applicando loro un brano di Isaia: “Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.
Nel brano di Isaia citato (29,13) Gesù conferma l’ammonizione rivolta dal profeta al popolo di Gerusalemme e denuncia l’ipocrisia della distanza tra labbra che aderiscono a Dio e cuore che invece ne resta lontano e commenta le parole del profeta osservando: “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”.
Con queste parole Egli riduce le prescrizioni rituali a semplici precetti umani, opponendo loro la volontà di Dio, che si identifica con un unico comandamento.
Poi Gesù riprende il discorso e, nei versetti non riportati nel brano, accusa gli scribi e i farisei di essere veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la loro tradizione e, per sottolineare la loro ipocrisia, mostra poi come essi siano abili nell’aggirare questo comandamento.
Poi riprendendo il discorso sui cibi impuri, Gesù chiama nuovamente la folla e dice: “Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro”. Parole brevi e lapidarie. Non c’è niente che possa rendere impuro il discepolo tra le realtà che sono fuori del suo corpo: né il cibo, né il contatto, né le relazioni. Ciò che invece rende impuro l’uomo viene dal suo interno e si manifesta nel suo comportamento.
Queste parole non sono facilmente comprensibili, tanto che più tardi , lontano dalla folla, i discepoli interrogano Gesù sul significato di ciò che aveva detto ed Egli risponde: Siete anche voi così privi di intelletto? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, “Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo.”
Ponendosi sulla linea del messaggio profetico, Gesù sottolinea che nel rapporto con Dio non conta la purezza esteriore, ma solo quella che deriva dall’obbedienza profonda e sincera alla Sua volontà.
Per concludere si può dire che ciò che tiene lontano da Dio le persone buone sono le tradizioni religiose staccate dall'amore, che è la loro sorgente. L'uomo è sempre tradizionalista e abitudinario, ma il vero cristiano sa rompere con il passato perché vive una novità inaudita: la memoria del corpo e del sangue del suo Signore consegnato a lui nel pane. Questo mistero di amore è la "sua" tradizione, che ha ricevuto e, a sua volta, trasmette (1Cor 11,23ss).
Il discepolo mangia questo pane e ne vive, e fonda la sua vita non sulla propria osservanza della legge, ma sulla grazia di Dio.
Il principio del bene e del male è il nostro cuore buono o cattivo, illuminato dall'amore o accecato dall'egoismo. La norma ultima di comportamento per fare la volontà di Dio viene dal discernimento del nostro cuore. siamo mossi da Dio o dal demonio?, dall'amore o dall'egoismo?.
S. Agostino nei suoi scritti diceva: Ama, e fa' quello che vuoi!". Ma è bene leggere nel suo contesto questa espressione per non intenderla in modo sbagliato : “Una volta per tutte dunque ti viene imposto un breve precetto: ama e fa’ ciò che vuoi; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene”.

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“In questa domenica riprendiamo la lettura del Vangelo di Marco. Nel brano odierno Gesù affronta un tema importante per tutti noi credenti: l’autenticità della nostra obbedienza alla Parola di Dio, contro ogni contaminazione mondana o formalismo legalistico.
Il racconto si apre con l’obiezione che gli scribi e i farisei rivolgono a Gesù, accusando i suoi discepoli di non seguire i precetti rituali secondo le tradizioni. In questo modo, gli interlocutori intendevano colpire l’attendibilità e l’autorevolezza di Gesù come Maestro perché dicevano: “Ma questo maestro lascia che i discepoli non compiano le prescrizioni della tradizione”. Ma Gesù replica forte e replica dicendo: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”» Così dice Gesù. Parole chiare e forti! Ipocrita è, per così dire, uno degli aggettivi più forti che Gesù usa nel Vangelo e lo pronuncia rivolgendosi ai maestri della religione: dottori della legge, scribi… “Ipocrita”, dice Gesù.
Gesù infatti vuole scuotere gli scribi e i farisei dall’errore in cui sono caduti, e qual è questo errore? Quello di stravolgere la volontà di Dio, trascurando i suoi comandamenti per osservare le tradizioni umane. La reazione di Gesù è severa perché grande è la posta in gioco: si tratta della verità del rapporto tra l’uomo e Dio, dell’autenticità della vita religiosa. L’ipocrita è un bugiardo, non è autentico.
Anche oggi il Signore ci invita a fuggire il pericolo di dare più importanza alla forma che alla sostanza. Ci chiama a riconoscere, sempre di nuovo, quello che è il vero centro dell’esperienza di fede, cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo, purificandola dall’ipocrisia del legalismo e del ritualismo.
Il messaggio del Vangelo oggi è rinforzato anche dalla voce dell’Apostolo Giacomo, che ci dice in sintesi come dev’essere la vera religione, e dice così: la vera religione è «visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo».
“Visitare gli orfani e le vedove” significa praticare la carità verso il prossimo a partire dalle persone più bisognose, più fragili, più ai margini. Sono le persone delle quali Dio si prende cura in modo speciale, e chiede a noi di fare altrettanto.
“Non lasciarsi contaminare da questo mondo” non vuol dire isolarsi e chiudersi alla realtà. No. Anche qui non dev’essere un atteggiamento esteriore ma interiore, di sostanza: significa vigilare perché il nostro modo di pensare e di agire non sia inquinato dalla mentalità mondana, ossia dalla vanità, dall’avarizia, dalla superbia. In realtà, un uomo o una donna che vive nella vanità, nell’avarizia, nella superbia e nello stesso tempo crede e si fa vedere come religioso e addirittura arriva a condannare gli altri, è un ipocrita.
Facciamo un esame di coscienza per vedere come accogliamo la Parola di Dio. Alla domenica la ascoltiamo nella Messa. Se la ascoltiamo in modo distratto o superficiale, essa non ci servirà molto. Dobbiamo, invece, accogliere la Parola con mente e cuore aperti, come un terreno buono, in modo che sia assimilata e porti frutto nella vita concreta. Gesù dice che la Parola di Dio è come il grano, è un seme che deve crescere nelle opere concrete. Così la Parola stessa ci purifica il cuore e le azioni e il nostro rapporto con Dio e con gli altri viene liberato dall’ipocrisia.
L’esempio e l’intercessione della Vergine Maria ci aiutino a onorare sempre il Signore col cuore, testimoniando il nostro amore per Lui nelle scelte concrete per il bene dei fratelli.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 2 settembre 2018

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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