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Feb 27, 2022

VIII Domenica del Tempo Ordinario - Anno C - "La parola che ci contesta e ci guida" - 27 febbraio 2022

Come domenica scorsa, anche oggi siamo invitati a continuare e a concludere la lettura del “Discorso della Pianura” dell’evangelista Luca, una pagina dominata dal tema dell’amore e della misericordia.
Anche nella prima lettura, tratta dal Libro del Siracide, vediamo quanto sia importante nella valutazione della qualità di ogni persona, la sua parola. Essa manifesta realmente chi ciascuno veramente sia: “Non lodare nessuno prima che abbia parlato,poiché questa è la prova degli uomini.”
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo continuando la sua lettera ai Corinzi, termina il suo discorso sulla risurrezione con un inno di trionfo e di ringraziamento per la vittoria che abbiamo riportato sulla morte, grazie alla risurrezione di Gesù.
Nel Vangelo di Luca, Gesù attraverso la parabola del cieco che non può guidare un altro cieco, della pagliuzza e della trave nel occhio, dell’albero che si riconosce dai frutti, condanna l’ipocrisia, la falsa religiosità e il giudizio interessato.
Tutti noi siamo chiamati a far vivere questa Parola in noi, fino a farci abitare da Cristo che si comunica a noi nella Chiesa attraverso il dono del suo Spirito. Nella misura in cui lo faremo saremo in grado di testimoniare Cristo non solo a parole, ma anche con i fatti, divenendo come quell’albero buono che può produrre solo frutti buoni.

Dal libro del Siràcide
Quando si scuote un setaccio
restano i rifiuti;
così quando un uomo discute,
ne appaiono i difetti.
I vasi del ceramista li mette a prova la fornace,
così il modo di ragionare è il banco di prova per un uomo.
Il frutto dimostra come è coltivato l’albero,
così la parola rivela i pensieri del cuore.
Non lodare nessuno prima che abbia parlato,
poiché questa è la prova degli uomini
Sir 27, 4-7 NV 27 5-8)

Il libro del Siracide è un libro un po’ particolare perché fa parte della Bibbia cristiana, ma non figura nel canone ebraico. Si tratta di un testo deuterocanonico che, assieme ai libri di Rut, Tobia, Maccabei I e II, Giuditta, Sapienza e le parti greche del libro di Ester e di Daniele, è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, per cui è stato accolto dalla Chiesa Cattolica, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo.
È stato scritto originariamente in ebraico a Gerusalemme attorno al 196-175 a.C. da Yehoshua ben Sira (tradotto "Gesù figlio di Sirach", da qui il nome del libro "Siracide"), un giudeo di Gerusalemme, in seguito fu tradotto in greco da suo nipote poco dopo il 132 a.C. che nel prologo spiega che tradusse il libro quando si trovava a soggiornare ad Alessandria d’Egitto, nel 38° anno del regno Tolomeo VIII, che regnò in Egitto a più riprese a partire dal 132 a.C.. Benché non sia stato accolto nel canone ebraico, il Siracide è citato frequentemente negli scritti rabbinici; nel Nuovo Testamento la lettera di Giacomo vi attinge molte espressioni, ed anche la saggezza popolare fa proprie alcune massime.
Il libro è composto da 51 capitoli e si possono così suddividere:
Prologo (del traduttore greco) - La sapienza guida la vita dell'uomo (1,1-23,28) - L'elogio della sapienza (24,1-42,14) - La sapienza di Dio nella creazione (42,15-43,33) La sapienza di Dio nella storia d'Israele (44,1-50,29) - Preghiera di Gesù figlio di Sira (51,1-30).
Questo brano, estratto dalla parte che tratta l’elogio della sapienza, nel capitolo 27 con massime e assiomi ci insegna a conoscere l’uomo e ci invita anche a conoscere noi stessi.
Nel tema della Parola dice: “Quando si scuote un setaccio restano i rifiuti; così quando un uomo discute, ne appaiono i difetti.” …. Come quando si agita un setaccio, restano i rifiuti; così quando un uomo riflette, appaiono i suoi difetti. Il vero valore di una persona si scopre solo attraverso un’analisi del suo linguaggio, cioè delle sue espressioni.
“Non lodare nessuno prima che abbia parlato,poiché questa è la prova degli uomini “. E’ la parola infatti che rivela il sentimento dell’uomo, che manifesta realmente chi ciascuno veramente sia. Chi ha la mente e il cuore pieni della sapienza di Dio da lui non possono che venire cose buone.
Gesù quando parlava di frutti non intendeva solo parole , ma piuttosto tutto il modo di comportarsi e di vivere. Le parole possono ingannare chi non conosce la persona, non chi ci vive insieme.

Salmo 92 /91 - E’ bello rendere grazie al Signore
E’ bello rendere grazie al Signore
e cantare al tuo nome, o Altissimo,
annunciare al mattino il tuo amore,
la tua fedeltà lungo la notte

Il giusto fiorirà come palma,
crescerà come cedro del Libano;
piantati nella casa del Signore,
fioriranno negli atri del nostro Dio

Nella vecchiaia daranno ancora frutti,
saranno verdi e rigogliosi,
per annunciare quanto è retto il Signore,
mia roccia: in lui non c’è malvagità.

Il salmo esordisce presentando la bellezza del dar lode a Dio, della preghiera che canta contemplando ciò che Dio è: “Al tuo nome, o Altissimo”.
Il salmo è individuale, ma celebra la preghiera liturgica del tempio, dove erano in uso gli strumenti musicali e dove si lodava Dio anche durante veglie notturne. A
questa preghiera nel tempio egli partecipava.
Il salmista, probabilmente un levita, riflette sulla grandezza delle opere di Dio: la liberazione dall'Egitto, l'alleanza del Sinai, la conquista della Terra Promessa, la costruzione del tempio.
Egli osserva che i pensieri di Dio hanno una profondità tale che gli uomini non possono esaurirne la comprensione (Cf. Ps 35,7; 39,6).
Gli uomini insensati non sono umili, per questo non possono intendere le cose di Dio, e scelgono i loro vaneggiamenti che li conducono alla rovina eterna, che come tale è irreversibile. Il loro fiorire e affermarsi “è solo per la loro eterna rovina”.
Il salmista ha molti nemici, che sono anche e principalmente nemici di Dio, ma riceve da Dio la forza per la lotta: “Tu mi doni la forza di un bufalo, mi hai cosparso di olio splendete”. Noi in Cristo la forza la riceviamo dallo Spirito Santo, e l'olio che abbiamo ricevuto è quello del crisma del sacramento della Confermazione.
La forza e la sicurezza che il salmista sente nella fede lo porta a non temere gli uomini, gli avversari: “I miei occhi disprezzeranno i miei nemici”. Per noi cristiani non c'è il disprezzo dei nemici in quanto persone, ma solo disprezzo delle loro lusinghe per travolgerci, delle loro intimidazioni per fiaccarci.
E' certo che gli empi non potranno prosperare che per un attimo, ma poi cadranno in rovina: “Contro quelli che mi assalgono, i miei orecchi udranno sventure”.
Il contrario avverrà per i giusti, che si radicano nella frequentazione del tempio, e per questo fioriranno “negli atri del nostro Dio”, e nella vecchiaia “daranno ancora frutti”. Esempi perfetti di questo sono Simeone ed Anna (Lc 2,25s.36s).
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, quando questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura:
La morte è stata inghiottita nella vittoria.
Dov’è, o morte, la tua vittoria?
Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?
Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge. Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!
Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore..
1Cor 15, 54-58

Continuando la sua prima lettera ai Corinzi, nel capitolo 15, che abbiamo iniziato nella V domenica, San Paolo in questo brano termina il suo discorso sulla risurrezione con un inno di trionfo e di ringraziamento per quanto Dio ha concesso agli uomini con la vittoria della vita sulla morte per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo.
“Quando questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura: La morte è stata inghiottita nella vittoria.
Dov’è, o morte, la tua vittoria?Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?”
Paolo nel brano precedente aveva cercato di spiegare come sarebbe avvenuta la risurrezione dai morti. Il corpo come un seme sarebbe stato sepolto nella terra e sarebbe risorto nella gloria e nell'incorruttibilità. E quando ciò avverrà, si avvereranno le parole della Scrittura. (Paolo cita liberamente un passo di Isaia 25,8 e Osea 13,14) Anche l’Apocalisse tratta la fine della morte in Ap 20,14.
“Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge.”
La morte, potenza malefica, per esercitare la sua distruttività a danno dell’uomo, si avvale del peccato che ne è il velenoso pungiglione. La legge è la norma, il precetto, ed ha il suo compito per quanto riguarda l’ordine morale del singolo e del popolo di Dio. Da se stessa, però, la legge non ha la forza perché questa vittoria si adempia; è come un circolo vizioso tra legge e peccato che porta dunque alla morte. Ciò che la supera, infondendo tutto il vigore necessario al credente, è solo Gesù Cristo. (Una riflessione profonda sullo stretto rapporto esistente tra legge, peccato e morte, Paolo la fa nelle lettere ai Galati e ai Romani).
“Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!”
Paolo ringrazia infine Dio che grazie alla morte e alla risurrezione di Gesù, primizia di coloro che sono morti, ci dona la vittoria sulla morte.
“Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore”.
E’ una calda esortazione a una fedeltà che trova nella perseveranza il suo modo d’essere irremovibile. Conseguenza diretta della fede nel Cristo risorto, ben lungi dal costringere i credenti ad avere pensieri di timore del futuro o della morte, li rinforza e li rende protagonisti di un agire in funzione di quell’opera del Signore” che è sempre relativa al suo precetto: l’amore reciproco che difende e fa trasformare gradualmente l’uomo dentro ciò che è vero, buono, bello. Non è certo facile, ed è certamente faticoso e Paolo lo riconosce, ma nel Signore (con la Sua grazia) la fatica non è certo vana.

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola:
«Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro.
Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.
Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo.
L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda.
Lc 6, 39-45

Come domenica scorsa, anche oggi nel brano che abbiamo continuiamo la lettura del “Discorso della pianura” come ce la presenta l’evangelista Luca, tutta dominata dal tema dell’amore e della misericordia.
Nel primo versetto Gesù presenta ai suoi discepoli una mini-parabola o proverbio forse presa da una raccolta di detti della sapienza popolare: :
“Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro”
L’uomo per essere guida di un altro deve avere in sé una luce interiore, altrimenti è destinato a essere causa di rovina non solo per sé ma anche per altri. A differenza di Matteo, che questo detto lo applica ai farisei, che chiama guide cieche, Luca invece lo riferisce a tutti quelli, compresi i discepoli e anche noi oggi, che si sentono autorizzati a giudicare e a condannare gli altri. Sono ciechi perché non si ritengono bisognosi della misericordia di Dio e perciò non la usano neanche verso gli altri. Praticamente si sostituiscono a Dio, perché credono di essere in grado di giudicare da soli ciò che è bene e ciò che è male.
Poi Gesù pone un’altra infermità sempre nell’ambito della vista:
“Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? “
Sono parole che ci accusano di essere ”falsi maestri”, anche quando tendiamo, quasi istintivamente, a giudicare e a condannare il comportamento degli altri senza tener conto del nostro. Usiamo in questo modo due misure, una per giudicare gli altri e un’altra per giudicare anzi per giustificare noi stessi.
“Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”. Solo se si fa un esame serio su noi stessi, si trova la giusta misura con cui regolare la critica verso gli altri. Infine se ci consideriamo, come siamo, tutti peccatori e quindi bisognosi della misericordia Dio, non possiamo non usare misericordia verso gli altri e perdonare.
È importante notare che in questi versetti la parola “fratello” è riportata per ben quattro volte per indicarci che il prossimo ha la stessa nostra dignità, come l’ha chi ci è fratello. Chi critica l’altro senza aver prima fatto autocritica, è considerato da Luca un ipocrita. Sicuramente Luca non gli dà il significato che noi oggi diamo a questa parola, ma a quello che gli veniva attribuito nel teatro greco dove l’ipocrita è il protagonista che risponde alle domande del coro. L’ipocrita è quindi chi vuole mettersi al centro di tutto, al posto di Dio, come giudice degli altri.
“Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono”. “Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo.”
E’ un dato naturale, dalla natura dell’albero dipende il tipo di frutto. Dal frutto, che si raccoglie, si capisce di quale albero si tratta.
“L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda.”
Chi mette in pratica queste parole di Gesù diventa automaticamente una persona sincera, umile e giusta. Non si arrogherà il diritto di giudicare gli altri, ma si umilierà “sino alla condizione di servo” come il Cristo per salvare ognuno di noi. Non si nasconderà dietro alla dignità del suo nome e della sua professione per essere servito, ma si presenterà per servire. Dal profondo del suo cuore non porterà astio, ma dolcezza e mitezza, dall’albero della sua vita non coglierà frutti velenosi, ma darà cibo e disseterà, come ha fatto Gesù durante la sua esistenza terrena. Dalle sue labbra non usciranno parole che fanno male, ma parole che sono “spirito e vita” . Questo brano quando lo si comprenderà pienamente, si trasformerà in un canto d’amore ma anche in una celebrazione della sincerità del cuore contro ogni orgoglio e ipocrisia. Il grande teologo Dietrich Bonhoeffer, morto martire nei campi di concentramento nazisti, nella sua opera ”Etica” ricordava che “la bontà non è una qualità della vita, ma la vita stessa e che essere buono significa vivere” . E’ per questo che Gesù ha definito gli ipocriti “sepolcri imbiancati”, morti che camminano (Mt 23,27) che si illudono di mostrarsi vivi e rigogliosi, in realtà avendo un cuore inquinato, essi sono senza vita, ciechi e spenti.

 

*****

Le Parole di Papa Francesco

L’odierna pagina evangelica presenta brevi parabole, con le quali Gesù vuole indicare ai suoi discepoli la strada da percorrere per vivere con saggezza. Con l’interrogativo: «Può forse un cieco guidare un altro cieco?» , Egli vuole sottolineare che una guida non può essere cieca, ma deve vedere bene, cioè deve possedere la saggezza per guidare con saggezza, altrimenti rischia di causare dei danni alle persone che a lei si affidano. Gesù richiama così l’attenzione di quanti hanno responsabilità educative o di comando: i pastori d’anime, le autorità pubbliche, i legislatori, i maestri, i genitori, esortandoli ad essere consapevoli del loro ruolo delicato e a discernere sempre la strada giusta sulla quale condurre le persone.
E Gesù prende in prestito una espressione sapienziale per indicare se stesso come modello di maestro e guida da seguire: «Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro» . È un invito a seguire il suo esempio e il suo insegnamento per essere guide sicure e sagge. E tale insegnamento è racchiuso soprattutto nel discorso della montagna, che da tre domeniche la liturgia ci propone nel Vangelo, indicando l’atteggiamento della mitezza e della misericordia per essere persone sincere, umili e giuste.
Nel brano di oggi troviamo un’altra frase significativa, quella che esorta a non essere presuntuosi e ipocriti. Dice così: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?» . Tante volte, lo sappiamo tutti, è più facile o comodo scorgere e condannare i difetti e i peccati altrui, senza riuscire a vedere i propri con altrettanta lucidità. Noi sempre nascondiamo i nostri difetti, li nascondiamo anche a noi stessi; invece, è facile vedere i difetti altrui. La tentazione è quella di essere indulgenti con se stessi – manica larga con se stessi – e duri con gli altri. È sempre utile aiutare il prossimo con saggi consigli, ma mentre osserviamo e correggiamo i difetti del nostro prossimo, dobbiamo essere consapevoli anche noi di avere dei difetti. Se io credo di non averne, non posso condannare o correggere gli altri. Tutti abbiamo difetti: tutti. Dobbiamo esserne consapevoli e, prima di condannare gli altri, dobbiamo guardare noi stessi dentro. Possiamo così agire in modo credibile, con umiltà, testimoniando la carità.
Come possiamo capire se il nostro occhio è libero o se è impedito da una trave? È ancora Gesù che ce lo dice: «Non vi è albero buono che produca frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto». Il frutto sono le azioni, ma anche le parole. Anche dalle parole si conosce la qualità dell’albero. Infatti, chi è buono trae fuori dal suo cuore e dalla sua bocca il bene e chi è cattivo trae fuori il male, praticando l’esercizio più deleterio fra noi, che è la mormorazione, il chiacchiericcio, parlare male degli altri. Questo distrugge; distrugge la famiglia, distrugge la scuola, distrugge il posto di lavoro, distrugge il quartiere. Dalla lingua incominciano le guerre. Pensiamo un po’, noi, a questo insegnamento di Gesù e facciamoci la domanda: io parlo male degli altri? Io cerco sempre di sporcare gli altri? Per me è più facile vedere i difetti altrui che i miei? E cerchiamo di correggerci almeno un po’: ci farà bene a tutti.
Invochiamo il sostegno e l’intercessione di Maria per seguire il Signore su questo cammino.
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 3 marzo 2019

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