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Ott 31, 2023

Commemorazione dei fedeli defunti - 2 novembre 2023

La commemorazione dei fedeli defunti appare già nel secolo IX, in continuità con l’uso monastico del secolo VII di consacrare un giorno completo alla preghiera per tutti i defunti. Amalario, arcivescovo e teologo francese, nel secolo IX, poneva già la memoria di tutti i defunti successivamente a quelli dei santi che erano già in cielo. È solo con l’abate benedettino sant’Odilone di Cluny che questa data del 2 novembre fu dedicata alla commemorazione di tutti i fedeli defunti, per i quali già sant’Agostino lodava la consuetudine di pregare anche al di fuori dei loro anniversari, proprio perché non fossero trascurati quelli senza suffragio. La Chiesa è stata sempre particolarmente fedele al ricordo dei defunti.
Papa Benedetto XV (1914-1922), al tempo della prima guerra mondiale, giunse a concedere a ogni sacerdote la facoltà di celebrare «tre messe» in questo giorno.
Le letture proposte dalla liturgia ci aiuteranno a comprendere questo grande mistero che ci sgomenta. Imprimiamo nel nostro animo le parole di Gesù nel Vangelo di Giovanni quando dice: “questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno”. Queste parole ci rivelano il meraviglioso volto del nostro Dio, che ragiona con la logica dell’includere, dell’accogliere, del portare a casa. Il nostro morire è un tornare a casa. La morte non può essere veramente la fine di tutto. Questo nostro anelito alla vita viene preso per mano dall’amore sconfinato del Padre e ci assicura che Cristo è risorto, e che noi risorgeremo in Lui.


PRIMA MESSA


Dal libro di Giobbe
Rispondendo Giobbe prese a dire:
«Oh, se le mie parole si scrivessero,
se si fissassero in un libro,
fossero impresse con stilo di ferro e con piombo,
per sempre s’incidessero sulla roccia!
Io so che il mio redentore è vivo
e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!
Dopo che questa mia pelle sarà strappata via,
senza la mia carne, vedrò Dio.
Io lo vedrò, io stesso,
i miei occhi lo contempleranno e non un altro».
Gb 19,1.23-27a


Il Libro di Giobbe, composto da 42 capitoli, è stato scritto in ebraico dopo l’esilio probabilmente nel 5^ secolo a.C.. A quell’epoca il tempio era stato ricostruito (520-515 a.C. v.Esd 5-6) e le mura di Gerusalemme restaurate (445 a.C. V. Ne 2-4). Raggruppata e organizzata intorno ai loro capi la piccola comunità giudaica riprende vita. Le difficoltà però non mancano e si vedono riapparire le ingiustizie e le violenze di un tempo. I poveri, che rappresentano sovente la parte più religiosa del popolo, subiscono prepotenze ed angherie.
I profeti intervengono per rispondere agli infiniti interrogativi che il problema del male porta all’umanità che si chiede “Dov’è il Dio della giustizia?” (Ml 2,17) . Ed è questa la questione che solleva il libro di Giobbe: Perchè il male?. Ci troviamo in questo libro di fronte ad una ricerca drammatica sul senso dell'esistenza, sull'amore di Dio, e sulla fedeltà verso di Lui.
L’autore, rimasto anonimo, ambienta il suo racconto in un paese favoloso, anche per quel tempo, dell'Antico Medio Oriente. Il protagonista, Giobbe, è un uomo profondamente religioso, ma anche turbato dalla sua fede perché non riesce più a coordinare le idee che aveva di un Dio giusto e buono con i fatti che gli capitano: prima era un uomo ricco e felice, e poi improvvisamente colpito dalla sventura, perde i figli, i beni, la salute, e non è neanche confortato dalla moglie, che lo scaccia anche da casa.
Nonostante le 4 disgrazie (è da notare il numero 4 che è il numero della terra), Giobbe reagisce, sa di essere innocente, non ha rinnegato mai i decreti di Dio, perciò si rivolge a Lui con una sola preghiera: “Ricordati… “ termine usato nelle preghiere di Israele per ricordare a Dio l’alleanza e quindi la fedeltà.
Il libro di Giobbe è anche un grande canto dell’uomo con tutte le sue lacerazioni, le sue ansie e le sue speranze. Giobbe è uno di quei grandi miti sui quali di continuo l’uomo va ridisegnando la mappa delle proprie interrogazioni per verificare i contorni della propria fede.
In questo brano, Giobbe è colpito sul vivo dalle parole ingiuriose di uno dei suoi amici (Bildad), ma non viene convinto dalle sue spiegazioni. Egli è sempre cosciente di essere oppresso ingiustamente. Perseguitato da Dio, condannato dagli uomini, egli sente però che Dio è dalla sua parte ed è sicuro che prima della sua morte o anche dopo la morte, l’Eterno si alzerà in giudizio al suo fianco come difensore e vendicatore e proclamerà davanti a tutti la sua innocenza.
Nota: nei versetti «Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!»
il testo ebraico non era molto chiaro, la Vulgàta, traduzione in latino della Bibbia dall'antica versione greca ed ebraica, realizzata all'inizio del IV secolo da S.Girolamo, vi ha interpretato un atto di fede di Giobbe nella risurrezione.


Salmo 27/26 Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi

Il Signore è mia luce e mia salvezza:
di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita:
di chi avrò paura?
Una cosa ho chiesto al Signore,
questa sola io cerco:
abitare nella casa del Signore
tutti i giorni della mia vita,
per contemplare la bellezza del Signore
e ammirare il suo santuario.
Ascolta, Signore, la mia voce.
Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!
Il tuo volto, Signore, io cerco.
Non nascondermi il tuo volto.
Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
Spera nel Signore, sii forte,
si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore.


"Il Signore è mia luce”, dice il salmista. La luce è fonte di vita, fa vedere le cose, dona letizia e il salmista trova in Dio la sua luce, la sua sorgente di letizia, la sua conoscenza delle cose. E il Signore è pure sua salvezza assistendolo contro i nemici, che altrimenti prevarrebbero su di lui e gli strazierebbero la carne, tanto lo odiano. Ma col Signore non vede perché dovrebbe avere paura: “Di chi avrò timore;... di chi avrò paura?”. . . .
Egli non ha ambizioni di potere, di onori e ricchezze. Ha chiesto una sola cosa al Signore e questa sola cerca: “Abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita”. Noi chiediamo di vivere sempre centrati nell’Eucaristia, nella viva appartenenza alla Chiesa, in ammirazione della sua bellezza di pace, di carità, di fede, di speranza, di sacrificio, di testimonianza, di operosità instancabile.
“La casa del Signore” è per il salmista il luogo di rifugio offertogli dal Signore nel giorno della sventura, quando c’è la prova, la tribolazione. In essa si sente protetto, come nascosto, dalla turba degli uomini, e nello stesso tempo come posto su di una rupe inattaccabile.
Il salmista ritorna sulla sua situazione di dolore, trovando sempre conforto nella fede. Umile, non può che presentarsi come reo di molti peccati davanti al Signore e chiede di non essere respinto con ira da Signore.
Egli ha un programma: “Cercare il volto del Signore”, per conoscerlo sempre di più e così sempre di più amarlo….
Ora è saldo e sicuro, ma insidiato da falsi testimoni che lo vogliono trascinare in giudizio e per questo diffondono negli animi violenza contro di lui. Ma anche se costoro avessero da prevalere egli è certo di “contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”; nel cielo e poi un giorno nella risurrezione, nella creazione rinnovata.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.
A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione.
Rm 5,5-11

San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere nominati a Gerusalemme.
La Lettera ai Romani, che è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo, ed è anche la più lunga e più importante come contenuto teologico, è composta da 16 capitoli: i primi 11 contengono insegnamenti sull'importanza della fede in Gesù per la salvezza, contrapposta alla vanità delle opere della Legge; il seguito è composto da esortazioni morali. Paolo, in particolare, fornisce indicazioni di comportamento per i cristiani all'interno e all'esterno della loro comunità.
In questo brano, tratto dal capitolo 5, Paolo dopo aver sostenuto che di fronte alle dolorose prove della vita il credente è sorretto oltre che dalla fede, anche dalla speranza e dall’amore, ora parlando della speranza afferma: “la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”
La speranza non può deludere perché non si limita a provocare l’attesa delle realtà future, ma ne dà un’esperienza anticipata mediante l’amore che lo Spirito santo riversa nei cuori.
Poi Paolo ricorda l’opera compiuta da Cristo per i credenti: “Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi”.
Cristo dunque è morto per persone che non meritavano nulla, erano infatti “peccatori”. Con questo termine egli indica qui non i fratelli ancora legati all’osservanza delle norme rituali giudaiche (V. Rm 14,2),. ma coloro che sono sotto il dominio del peccato. Essi erano non solo deboli, ma anche “empi”, ma proprio per essi Cristo morì nel tempo stabilito.
L’Apostolo commenta quanto ha appena affermato mettendo in luce il carattere straordinario della morte di Cristo: “Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”.
A volte può capitare che un uomo sia disposto a morire per una persona giusta: ci sono casi, infatti, in cui la dedizione verso una persona amata (figlio, coniuge o amico) spinge fino al sacrificio della vita. Ma Cristo ha fatto una cosa che, umanamente parlando, è inconcepibile: egli è morto per noi proprio mentre eravamo ancora indegni e peccatori ed è in questo gesto supremo che si è manifestato l’amore di Dio per tutti noi.
Infine Paolo fa questa riflessione: “A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui”. Se Dio è giunto al punto di dimostrare mediante Cristo un amore così grande per noi quando eravamo ancora peccatori, a maggior ragione ora che siamo giustificati ci salverà per mezzo di Cristo dall’ira finale.
L’apostolo ripete poi lo stesso ragionamento introducendo il concetto di riconciliazione: “Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita”. Egli sottolinea dunque che Dio, riconciliandosi con noi mediante la morte di Cristo quando eravamo ancora nemici, non potrà non condurci alla salvezza finale ora che siamo stati riconciliati.
La riconciliazione rappresenta il primo passo verso la salvezza, che viene indicata con un verbo al futuro (saremo salvati): con esso l’apostolo vuole sottolineare che la salvezza definitiva, che consiste nell’incontro personale con Dio, è una realtà escatologica, ma al tempo stesso imminente, perché gli ultimi tempi sono già iniziati (V.Rm 13,11). Mentre la riconciliazione ha avuto luogo “per mezzo della morte del Figlio suo”, la salvezza finale si attuerà “mediante la sua vita”: la morte di Cristo ha messo dunque in moto un processo che Egli stesso, ormai vivo in forza della Sua risurrezione, porterà un giorno a compimento facendo sì che i credenti diventino partecipi della Sua nuova vita.
Infine Paolo conclude: “Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione”. In forza della riconciliazione così ottenuta, il credente può ora definitivamente “gloriarsi” in Dio.
E' decisamente una prospettiva al di là di ogni nostra possibile aspettativa, una condizione davvero felice per la quale non potevamo vantare alcun merito. Infatti il nostro gloriarci è per mezzo di Gesù Cristo che ci ha meritato questa pace con Dio, la riconciliazione, l'entrata in una vita davvero piena e libera.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno.
Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».
Gv 6,37-40

Questo brano tratto dal 6^ Capitolo del Vangelo di Giovanni, si colloca subito dopo il discorso di Gesù sul pane di vita. Precedentemente Gesù dopo aver moltiplicato i pani e i pesci si era ritirato sulla montagna e poi aveva attraversato il lago. La gente però che lo voleva fare re lo seguì sull'altra sponda e allora egli tiene il famoso discorso sul pane di vita disceso dal cielo. Egli assicura di essere il vero pane, chi viene a Lui non avrà più fame e chi crede in Lui non avrà più sete. Poi Gesù ritorna dai suoi discepoli, che nel frattempo erano risaliti in barca per tornare a Cafarnao, camminando sulle acqua del lago e ai loro timori risponde: “Sono io, non temete”.
Quando poi alla folla, che per ritrovarlo aveva attraversato il lago con le barche, Gesù dice: “voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati” . E poi Gesù introduce il discorso sul pane di vita. “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete.
Da qui inizia il brano liturgico: “Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori,”
Coloro che seguono Gesù sono come dei doni che il Padre fa al Figlio. Egli li accoglie, non li getta fuori. Il verbo "gettare fuori" è quello utilizzato spesso da Matteo per indicare coloro che sono esclusi dal regno di Dio e dal banchetto delle nozze di Suo Figlio (V. Mt 22,13).
“perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato”.
Già Isaia (55,10-11) affermava che la parola di Dio è simile a un messaggero che ritorna solo dopo aver compiuto la sua missione. Così anche Gesù è disceso dal cielo per compiere la Sua missione facendo la volontà del Padre.
Dio vuole la salvezza completa e perfetta di tutte le persone affidate a Suo Figlio. Questa salvezza ci è data attraverso la risurrezione finale. Le parole di Gesù: "E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell'ultimo giorno" ci fanno capire che Gesù salva tutti donando la vita eterna, la vita stessa di Dio. E questo dono della vita eterna è legato a una condizione: contemplare il Figlio di Dio e credere in lui. Si tratta dello sguardo contemplativo di una fede profonda che orienta tutta l'esistenza verso la persona di Gesù.
Gesù è Dio che realizza il desiderio più profondo dell'uomo: vivere sempre. Egli appaga questo desiderio vitale dell'uomo a condizione che egli creda, non solo a parole ma con la vita vissuta, che Gesù è il Figlio di Dio.
L'espressione "nell'ultimo giorno" ha un significato preciso: è il giorno in cui termina la creazione dell'uomo e si compie la morte di Gesù; il giorno in cui si celebrerà il trionfo finale del Figlio sulla morte e tutti potranno ricevere lo Spirito che verrà donato all'umanità: il giorno della Pasqua di risurrezione. Allora Gesù porterà a compimento la Sua missione tramite la risurrezione e donerà la vita definitiva, che ha inizio già nella vita presente mediante la fede e il suo compimento nella risurrezione alla fine dei tempi.


seconda MESSA


Dal libro del profeta Isaia
In quel giorno, preparerà il Signore
degli eserciti per tutti i popoli,
su questo monte,
un banchetto di grasse vivande.
Egli strapperà su questo monte
il velo che copriva la faccia di tutti i popoli
e la coltre distesa su tutte le nazioni.
Eliminerà la morte per sempre.
Il Signore Dio asciugherà le lacrime
su ogni volto,
l’ignominia del suo popolo farà scomparire
da tutta la terra,
poiché il Signore ha parlato.
E si dirà in quel giorno:
«Ecco il nostro Dio;
in lui abbiamo sperato perché ci salvasse.
Questi è il Signore in cui abbiamo sperato;
rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza,
Is 25,6a-7-9

Questa parte del libro del profeta Isaia è una sezione di oracoli chiamata “grande Apocalisse” perché riguarda la fine del mondo e il giudizio finale. Al centro di questa raccolta troviamo l’oracolo che preannunzia il banchetto degli ultimi tempi.
Il banchetto viene così descritto: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte,un banchetto di grasse vivande», Il simbolismo del banchetto è noto nella Bibbia, ma qui Isaia si riferisce anzitutto al banchetto dell’alleanza, che i capi di Israele avevano consumato sul monte Sinai al cospetto di DIO, ma in questo caso però il convito viene preparato direttamente da Dio. Anche qui il banchetto viene imbandito sulla montagna, che indica simbolicamente il luogo in cui Dio ha messo la Sua dimora.
Diversamente dal banchetto del Sinai però qui sono presenti non solo i rappresentanti di Israele, ma ”tutte le nazioni”. L’alleanza escatologica quindi non sarà più limitata a un solo popolo, ma si estenderà a tutta l’umanità. Dalla magnificenza dei cibi serviti nel banchetto, si può comprendere l’importanza decisiva nella storia della salvezza.
Nel corso del banchetto il Signore indica ai convitati, sotto forma di doni simbolici, gli scopi che intende perseguire. Anzitutto Dio “strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni”.
Sul monte avviene dunque una nuova rivelazione, analoga a quella avvenuta sul Sinai.. Poi” Eliminerà la morte per sempre” Secondo la Genesi la morte era stata la prima conseguenza del peccato di Adamo (V.Gen 3,19), . non si tratta però semplicemente della morte fisica, ma della lontananza da Dio che la morte fisica simboleggia. Oltre a cancellare per sempre la morte, “Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto” Anche la sofferenza sia fisica che morale fa parte della triste relazione tra peccato e morte, per questo nel banchetto finale anch’essa verrà eliminata per sempre. (L’Apocalisse al cap. 21 ne farà riferimento nel v.4 “E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte),
Infine “l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra, poiché il Signore ha parlato”.
Alla promessa fatta da Dio per mezzo del profeta, il popolo reagisce con un piccolo inno di lode che verrà pronunziato quando le promesse si saranno realizzate: “Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza,”
In questa preghiera predomina la speranza in una salvezza che può venire solo dal Signore. Il popolo esprime la sua fede nella parola di DIO e aspetta solo da Lui l’eliminazione di quei mali che gli impediscono di godere fino in fondo della Sua comunione.
Il testo termina con queste parole non riportate nel brano liturgico: “poiché la mano del Signore si poserà su questo monte”.
La “mano del Signore” rappresenta la Sua potenza che gli permette di intervenire in modo straordinario ed efficace nella storia e negli eventi di questo mondo. Ma questa potenza non si esercita più nella guerra contro i Suoi nemici, bensì nella riconciliazione di tutte le nazioni con Lui e tra di loro.


Salmo 24/25 Chi spera in te, Signore, non resta deluso
Ricòrdati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre
Ricordati di me nella tua misericordia
Per la tua bontà, Signore.

Allarga il mio cuore angosciato,
Liberami dagli affanni
Vedi la mia povertà e la mia fatica
e perdona tutti i miei peccati.

Proteggimi, portami in salvo,
che io non resti deluso,
Perché in te mi sono rifugiato.
Mi proteggano integrità e rettitudine,
Perché in te ho sperato

Il salmista è pieno d’umiltà al ricordo delle sue numerose colpe della sua giovinezza. E’ sgomento alla vista che tanti suoi amici lo hanno tradito per un nulla. Uno screzio è bastato perché si mettessero contro di lui. Egli, piegato dal peso dei suoi peccati, domanda che Dio guardi a lui e non a quanto ha fatto non osservando “la sua alleanza e i suoi precetti”. Si trova in grande difficoltà di fronte ad avversari che lo odiano in modo violento e lui non ha via di salvezza che quella del Signore. Gli errori passati sono il frutto del suo abbandono della “via giusta”. Ora sa che “tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà”, cioè non portano a rovina, ma anzi danno prosperità, poiché la discendenza di chi teme il Signore “possederà la terra”. L’orante voleva affermarsi sugli altri agendo con spavalderia, con vie traverse, ed ecco che sconfessa tutto il suo passato, trattenendone però la lezione di umiltà, che gli ha dato. Egli sa che non andrà deluso perché ha deciso di essere protetto da "integrità e rettitudine”, cioè dall’osservanza dell’alleanza stabilita da Dio con Israele. L’orante non pensa solo a se stesso, si sente parte del popolo di Dio, e invoca la liberazione di Israele dalle angosce date dai nemici. La liberazione dell’Israele di Dio, la Chiesa, cioè l’Israele fondato sulla fede in Cristo, non escludendo nella sua carità quello etnico basato sulla carne e sul sangue, per il quale la pace passerà dall’accoglienza del Principe della pace.
Il ccmmento è tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera di S. Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”.
Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio.
La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.
Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.
Rm 8,14-23

Paolo, continuando la sua lettera ai Romani, in questo brano tratta il tema portante della vita del cristiano che è animata e guidata dallo Spirito. Questa presenza dello Spirito ci rende figli di Dio ed essere figli significa anche essere eredi, partecipare della stessa sorte di Cristo. Non è un caso se questo brano è stato scelto come lettura per la commemorazione dei defunti perché queste parole ci rafforzano nel vivere la nostra vita cristiana e ci consolano al pensiero della nostra morte e di quella dei nostri cari.
«tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio»
E' questa l’affermazione molto forte che Paolo ci da. Essere figli di Dio non è riducibile a una qualità acquisita più o meno magicamente e nemmeno si tratta di uno status giuridico, che non cambia il volto dell'esistenza. Consiste invece in un nuovo cammino di vita, aperto e sostenuto dall'azione potente dello Spirito, il cui traguardo è l'entrata nell'eredità divina.
«E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”.
In questo versetto possiamo vedere le due fasi, la situazione attuale e il punto di arrivo. Già adesso siamo figli di Dio se ci muoviamo sotto la guida dello Spirito perché abbiamo già raggiunto uno stato di libertà dal dominio del peccato. Viviamo il già e il non ancora e ci sentiamo liberi di gridare "Abbà, Padre". In questa invocazione a Dio ci rapportiamo con la familiarità del bambino nei confronti del papà, esprimendo ciò che realmente siamo Suoi figli adottivi.
«Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio».
Possiamo sentirci figli di Dio per l'azione conduttrice dello Spirito e sentiamo di esserlo ancora di più quando siamo uniti nella preghiera.
«E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria».
Il concetto figliolanza l’Apostolo lo sviluppa ancora di più. C'è un'eredità che ci aspetta e paradossalmente questa eredità consiste nella condivisione del destino di Cristo, crocifisso e glorificato. Il tema della sofferenza dell'uomo fedele acquista un colore nuovo alla luce della passione di Cristo. Il risultato finale è comunque la gloria, grazie alla Sua risurrezione.
«Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi». L’apostolo in un’altra lettera aveva osservato che ”il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria (2Cor 4,17). Qui sottolinea che le sofferenze a cui i credenti sono sottoposti nella vita terrena non sono nulla di fronte alla gloria che Dio ha riservato per loro. Naturalmente questa gloria, che un giorno sarà rivelata in essi da Dio, appartiene a loro già fin d’ora, ma in modo ancora nascosto agli occhi della gente.
«L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio»
In questi versetti troviamo il nocciolo della teologia di Paolo: la conseguenza logica di tutto il suo discorso teologico. Il tempo presente, dopo la morte e risurrezione di Cristo tutto il mondo è in attesa della rivelazione definitiva di quanti sono stati resi figli di Dio grazie alla fede.
“La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta» L’apostolo intravede per tutte le creature non solo la liberazione dal peccato al quale sono state sottomesse, ma una vera e propria trasformazione, che le metterà in sintonia con la nuova condizione dei redenti. A diversità di tanti testi apocalittici non si parla di una nuova terra e di un nuovo cielo, ma del creato attuale. Il compimento delle promesse riguarda soprattutto l'umanità. La creazione è stata coinvolta nella situazione di peccato e perdizione dell'uomo. Il termine caducità indica il vuoto spirituale e l'insignificanza in cui l'adorazione degli idoli ha fatto sprofondare coloro che negano l'esistenza dell'unico vero Dio. Il cosmo è stato posto in questa situazione da Dio, in seguito alla disobbedienza di Adamo
«nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio».
Anche gli esseri privi di intelligenza umana (come gli animali) che compongono la creazione vengono associati a questa attesa dell'umanità. C'è una mancanza che accomuna tutti, la finitezza, la caducità che avrà fine solo quando tutti i figli di Dio saranno entrati nella gloria che li attende.
“Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi.”
C'è una situazione di sofferenza che dura sin dalla fondazione del mondo, ma non si tratta di una sofferenza sterile, ma di sofferenza che porta alla vita. E' come il dolore di una donna che sta per partorire, quindi porterà alla nascita di una vita nuova, sarà feconda di una nuova umanità.
“Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”.
Coloro che hanno aderito a Cristo nella fede possiedono già le primizie dello Spirito, cioè un'anticipazione della gloria futura e questo li aiuta a vivere nel tempo presente con gioia e speranza. Nonostante ciò anch'essi gemono nella sofferenza. Anche loro dovranno passare attraverso la morte prima che questa presenza dello Spirito si manifesti completamente.
Nei successivi versetti (non riportati nel brano liturgico) «Nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza (.vv. 24-25) Paolo vuole evidenziare che anche i credenti, come tutto il creato, sono stati salvati “nella speranza”. Il concetto stesso di speranza esige che quanto si spera non sia ancora visto, perché in questo caso non sarebbe più oggetto di speranza. Ma proprio perché si spera in ciò che non si vede, si è capaci di attenderlo con pazienza, cioè senza venir meno di fronte alle prove della vita.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.»
Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.
Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.
E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».
Mt 25, 31-46

Questo brano del Vangelo di Matteo riporta l’ultima settimana trascorsa da Gesù a Gerusalemme prima della passione. Gesù prima aveva raccontato la parabola delle dieci vergini, poi la parabola dei talenti, ed ora più che una parabola il brano inizia presentando una vera e propria profezia su quello che sarà il nostro incontro con Dio.
“Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria”.
La descrizione ricorda la teofania descritta da Zaccaria: Verrà allora il Signore mio Dio e con lui tutti i suoi santi. (Zc 14,5). Ma mentre nell’AT Dio non si faceva vedere da nessuno, Gesù al contrario apparirà visibilmente dinanzi a tutte le genti. Egli verrà per giudicare il mondo, avvolto dallo splendore della divinità (la “sua” gloria) e attorniato da tutti gli angeli, che costituiranno la Sua corte celeste. Gesù dunque si manifesterà come il Figlio dell’uomo, al quale Dio “diede potere, gloria e regno” (Dn 7,14) e sarà presentato con le Sue qualità di re e di pastore.
La venuta del giudice supremo dà inizio a una grande convocazione: Davanti a Lui verranno radunati tutti i popoli. ”Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.”
Alla grandiosa manifestazione escatologica del Figlio dell’uomo sono chiamate tutte le genti e il giudizio non riguarderà le nazioni come collettività, bensì le singole persone che le compongono, le quali verranno giudicate secondo le loro opere.
La sentenza viene emessa in due parti, riguardanti rispettivamente i giusti e gli empi: Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo”,
Il regno, promesso da Gesù ai poveri, ai perseguitati, nel giorno del giudizio viene trasmesso da Cristo giudice con il conferimento della salvezza totale e definitiva a coloro che hanno usato misericordia verso i bisognosi.
Vengono poi date le motivazioni della sentenza: “perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Alla sentenza del giudice, i giusti reagiscono con una certa sorpresa dicendo: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”
. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
La risposta dimostra che anche dopo la glorificazione Gesù continua a manifestare la Sua presenza nelle persone più bisognose, mantenendo una comunione particolare con esse, perché prive d’ogni altro appoggio e d’ogni sicurezza terrena.
La condanna di quelli che stanno alla sinistra costituisce il risvolto negativo del giudizio che è la contrapposizione del dialogo con i giusti. Dio nell’Eden aveva maledetto il serpente ma non l’uomo, anche se venne assoggettato per punizione al lavoro faticoso. Ora la maledizione del Figlio dell’uomo segna la condanna definitiva dei malvagi e la privazione eterna della comunione con Dio. Gesù infatti dice: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.
Si può rivelare che, mentre nella parte precedente i giusti sono benedetti dal Padre, in questa il Padre non viene nominato come colui che maledice. Inoltre non si afferma che il fuoco sia stato preparato per l’uomo, bensì per il diavolo e per i suoi angeli. Quindi l’uomo, facendo buon uso della sua libertà, può sfuggire alla perdizione, ed essere così salvato.
La parabola termina con :”E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna”.
Le parole di Gesù sono severe e serene allo stesso tempo, ci invitano ad un impegno serio e faticoso, ma sono anche fonte di gioia e di speranza. Ci fanno capire che Gesù non è un re distante e impassibile, relegato alle dimore celesti, ma è vicino a noi, più di quanto noi possiamo sperare ed immaginare.
Le stupende parole di S.Agostino ce ne dipingono un po’ la Sua vera fisionomia:
“tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace” (Confessioni 27,38)

 

*****

LE PAROLE DI PAPA FRANCESCO

“Letture che abbiamo ascoltato suscitano in noi, in me, due parole: attesa e sorpresa.
Attesa esprime il senso della vita, perché viviamo nell’attesa dell’incontro: l’incontro con Dio, che è il motivo della nostra preghiera di intercessione oggi, specialmente per i Cardinali e i Vescovi defunti nel corso dell’ultimo anno, per i quali offriamo in suffragio questo Sacrificio eucaristico.
Tutti viviamo nell’attesa, nella speranza di sentirci rivolte un giorno quelle parole di Gesù: «Venite, benedetti dal Padre mio» (Mt 25,34). Siamo nella sala d’attesa del mondo per entrare in paradiso, per prendere parte a quel “banchetto per tutti i popoli” di cui ci ha parlato il profeta Isaia (cfr 25,6). Egli dice qualcosa che ci scalda il cuore perché porterà a compimento proprio le nostre attese più grandi: il Signore «eliminerà la morte per sempre» e «asciugherà le lacrime su ogni volto» (v. 8). È bello quando il Signore viene ad asciugare le lacrime! Ma è tanto brutto quando speriamo che sia qualcun altro, e non il Signore, ad asciugarle. E più brutto ancora, non avere lacrime. Allora noi potremo dire: «Questi è il Signore in cui abbiamo sperato – quello che asciuga le lacrime –; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza» (v. 9). Sì, viviamo nell’attesa di ricevere beni così grandi e belli che nemmeno riusciamo a immaginarli, perché, come ci ha ricordato l’Apostolo Paolo, «siamo eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rm 8,17) e “aspettiamo di vivere per sempre, aspettiamo la redenzione del nostro corpo” (cfr v. 23).
Fratelli e sorelle, alimentiamo l’attesa del Cielo, esercitiamoci nel desiderio del paradiso. Ci fa bene oggi chiederci se i nostri desideri hanno a che fare con il Cielo. Perché rischiamo di aspirare continuamente a cose che passano, di confondere i desideri con i bisogni, di anteporre le aspettative del mondo all’attesa di Dio. Ma perdere di vista ciò che conta per inseguire il vento sarebbe lo sbaglio più grande della vita. Guardiamo in alto, perché siamo in cammino verso l’Alto, mentre le cose di quaggiù non andranno lassù: le migliori carriere, i più grandi successi, i titoli e i riconoscimenti più prestigiosi, le ricchezze accumulate e i guadagni terreni, tutto svanirà in un attimo, tutto. E rimarrà delusa per sempre ogni attesa riposta in esse. Eppure, quanto tempo, quante fatiche ed energie spendiamo preoccupandoci e rattristandoci per queste cose, lasciando che si affievolisca la tensione verso casa, perdendo di vista il senso del cammino, la meta del viaggio, l’infinito a cui tendiamo, la gioia per cui respiriamo! Chiediamoci: vivo quello che dico nel Credo, «aspetto – cioè – la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà»? E come va la mia attesa? Sono capace di andare all’essenziale o mi distraggo in tante cose superflue? Coltivo la speranza o vado avanti lamentoso, perché do troppo valore a tante cose che non contano e che poi passeranno?
Nell’attesa di domani, ci aiuta il Vangelo di oggi. E qui emerge la seconda parola che vorrei condividere con voi: sorpresa. Perché è grande la sorpresa ogni volta che ascoltiamo il capitolo 25 di Matteo. È simile a quella dei protagonisti, che dicono: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?» (vv. 37-39). Quando mai? Così si esprime la sorpresa di tutti, lo stupore dei giusti e lo sgomento degli ingiusti.
Quando mai? Lo potremmo dire anche noi: ci aspetteremmo che il giudizio sulla vita e sul mondo avvenga all’insegna della giustizia, davanti a un tribunale risolutore che, vagliando ogni elemento, faccia chiarezza per sempre sulle situazioni e sulle intenzioni. Invece, nel tribunale divino, l’unico capo di merito e di accusa è la misericordia verso i poveri e gli scartati: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me», sentenzia Gesù (v. 40). L’Altissimo sembra che stia nei più piccoli. Chi abita i cieli dimora tra i più insignificanti per il mondo. Che sorpresa! Ma il giudizio avverrà così perché a emetterlo sarà Gesù, il Dio dell’amore umile, Colui che, nato e morto povero, ha vissuto da servo. La sua misura è un amore che va oltre le nostre misure e il suo metro di giudizio è la gratuità. Allora, per prepararci sappiamo che cosa fare: amare gratuitamente e a fondo perduto, senza attendere contraccambio, chi rientra nella sua lista di preferenze, chi non può restituirci nulla, chi non ci attira, chi serve i più piccoli.
Questa mattina ho ricevuto una lettera da un cappellano di una casa di bambini, un cappellano protestante, luterano, in una casa di bambini in Ucraina. Bambini orfani di guerra, bambini soli, abbandonati. E lui diceva: “Questo è il mio servizio: accompagnare questi scartati, perché hanno perso i genitori, la guerra crudele li ha fatti rimanere soli”. Quest’uomo fa quello che Gesù gli chiede: curare i più piccoli della tragedia. E quando ho letto quella lettera, scritta con tanto dolore, mi sono commosso, perché ho detto: “Signore, si vede che tu continui a ispirare i veri valori del Regno”.
Quando mai?, dirà questo pastore quando incontrerà il Signore. Quel “quando” meravigliato, che ritorna ben quattro volte nelle domande che l’umanità rivolge al Signore (cfr vv. 37.38.39.44), arriva tardi, solo «quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria» (v. 31).
Fratelli, sorelle, non lasciamoci sorprendere anche noi. Stiamo ben attenti a non addolcire il sapore del Vangelo. Perché spesso, per convenienza o per comodità, tendiamo ad attenuare il messaggio di Gesù, ad annacquare le sue parole. Ammettiamolo, siamo diventati piuttosto bravi a fare compromessi con il Vangelo. Sempre fino a qui, fino a là… compromessi. Dare da mangiare agli affamati sì, ma la questione della fame è complessa, e non posso certo risolverla io! Aiutare i poveri sì, però poi le ingiustizie vanno affrontate in un certo modo e allora è meglio attendere, anche perché a impegnarsi poi si rischia di venire disturbati sempre e magari ci si accorge che si poteva fare meglio, meglio aspettare un po’. Stare vicini ai malati e ai carcerati sì, ma sulle prime pagine dei giornali e sui social ci sono altri problemi più urgenti e dunque perché proprio io devo interessarmi a loro? Accogliere i migranti sì, certo, però è una questione generale complicata, riguarda la politica… Io non mi mischio in queste cose… Sempre i compromessi: “sì, sì…”, ma “no, no”. Questi sono i compromessi che noi facciamo con il Vangelo. Tutto “sì” ma, alla fine, tutto “no”. E così, a forza di “ma” e di “però” –tante volte noi siamo uomini e donne di “ma” e di “però” – facciamo della vita un compromesso con il Vangelo. Da semplici discepoli del Maestro diventiamo maestri di complessità, che argomentano molto e fanno poco, che cercano risposte più davanti al computer che davanti al Crocifisso, in internet anziché negli occhi dei fratelli e delle sorelle; cristiani che commentano, dibattono ed espongono teorie, ma non conoscono per nome neanche un povero, non visitano un malato da mesi, non hanno mai sfamato o vestito qualcuno, non hanno mai stretto amicizia con un bisognoso, scordando che «il programma del cristiano è un cuore che vede» (Benedetto XVI, Deus caritas est, 31).
Quando mai? – la grande sorpresa: sorpresa dalla parte giusta e dalla parte ingiusta – Quando mai? Si chiedono sorpresi sia i giusti che gli ingiusti. La risposta è una sola: il quando è adesso, oggi, all’uscita di questa Eucaristia. Adesso, oggi. Sta nelle nostre mani, nelle nostre opere di misericordia: non nelle puntualizzazioni e nelle analisi raffinate, non nelle giustificazioni individuali o sociali. Nelle nostre mani, e noi siamo responsabili.
Oggi il Signore ci ricorda che la morte giunge a fare verità sulla vita e rimuove ogni attenuante alla misericordia. Fratelli, sorelle, non possiamo dire di non sapere. Non possiamo confondere la realtà della bellezza con il trucco fatto artificialmente. Il Vangelo spiega come vivere l’attesa: si va incontro a Dio amando perché Egli è amore. E, nel giorno del nostro congedo, la sorpresa sarà lieta se adesso ci lasciamo sorprendere dalla presenza di Dio, che ci aspetta tra i poveri e i feriti del mondo. Non abbiamo paura di questa sorpresa: andiamo avanti nelle cose che il Vangelo ci dice, per essere giudicati giusti alla fine. Dio attende di essere accarezzato non a parole, ma con i fatti.”

Omelia pronunciata da Papa Francesco nella Basilica di San Pietro - Altare della Cattedra
Mercoledì, 2 novembre 2022

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

Parrocchia Nostra Signora de La Salette
Piazza Madonna de La Salette 1 - 00152 ROMA
tel. e fax 06-58.20.94.23
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Settore Ovest - Prefettura XXX - Quartiere Gianicolense - 12º Municipio
Titolo presbiterale: Card. Polycarp PENGO
Affidata a: Missionari di Nostra Signora di «La Salette» (M.S.)
 

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