Le letture liturgiche di questa domenica hanno come tema la preghiera, una preghiera perseverante, costante, fedele, che non conosce stanchezza.
Nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, viene raccontato lo scontro tra gli israeliti e amaleciti, in cui Mosè spedisce Giosuè a combattere contro Amalek, poi si ritira a pregare con Aronne e Cur. La vittoria viene garantita da questa preghiera: “Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk”.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo nella sua seconda lettera a Timoteo, afferma che il cristiano deve sapere che la Bibbia, scritta sotto l’azione dello Spirito di Dio, è parola di Dio, fondamento della fede per la salvezza donata da Dio per mezzo di Gesù Cristo.
Nel Vangelo di Luca, Gesù racconta la parabola di un giudice “disonesto” che alla fine, fa giustizia a una vedova per liberarsi delle sue insistenze. L’insegnamento che ne scaturisce è di facile comprensione: se persino l’uomo più iniquo cede di fronte ad una supplica incessante, Dio, che è buono, non ascolterà e salverà chi lo invoca giorno e notte?
Dal libro dell’Esodo
In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm. Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio». Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle.
Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada.
Es 17,8-13
L'Esodo è il secondo libro della Bibbia cristiana e della Torah ebraica. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte.
È composto da 40 capitoli, nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il periodo descritto si colloca intorno al 1300-1200 a.C.
Il libro è suddiviso in tre grandi sezioni, corrispondenti ai tre momenti della narrazione:
La prima, (capitoli 11,1-15,21), comprende il racconto dell'oppressione degli Ebrei in Egitto, la nascita di Mosè, la fuga di Mosè a Madian e la scelta divina, il suo ritorno in Egitto, le dieci piaghe e l'uscita dal paese.
La seconda sezione (15,22-18,27) narra del viaggio lungo la costa del Mar Rosso e nel deserto del Sinai.
La terza (19,1-40,38) riguarda l'incontro tra Dio e il popolo eletto, mediante le tappe fondamentali del decalogo e del codice dell'alleanza, seguito dall'episodio del vitello d'oro e dalla costruzione del Tabernacolo
Il brano che abbiamo, è tratto dalla seconda sezione, in cui gli israeliti dopo aver lasciato il deserto di Sin, che si trova tra Elim e il Sinai, si accampano a Refidim, dove la mancanza di acqua spinge il popolo a protestare di nuovo contro Mosè, il quale per ordine di Dio fa scaturire l’acqua dalla roccia. Viene poi raccontato il combattimento contro Amalek e infine, mentre gli israeliti si trovano ancora a Refidim, c’è l’ultimo degli episodi cioè la battaglia contro gli Amaleciti.
Oltre la mancanza di cibo e di acqua, gli israeliti nel deserto dovevano fare i conti con un l’opposizione delle tribù del deserto, che erano in conflitto continuo fra di loro per l’utilizzazione dei rari pozzi d’acqua e dei preziosi pascoli. Fra queste tribù vi erano anche gli amaleciti. Costoro erano considerati come i discendenti di Amalek, capo di una tribù edomita (Gen 36,16), e quindi imparentati con gli israeliti. La loro massima concentrazione è situata nel deserto a sud della Palestina e nella penisola sinaitica. Nella Bibbia essi sono considerati come i nemici tradizionali di Israele ( Gn 14,7; Nm 13,29; Gdc 3,13; 1Sam 15), perciò la battaglia con loro nel deserto assume un valore simbolico, in quanto causa e tipo di tutti i contrasti con questa popolazione.
La causa della battaglia con gli amaleciti viene attribuita ad una loro aggressione e leggiamo che mentre Giosuè guida le schiera israelite, Mosè si reca con Aronne e Cur sulla cima di un colle, per seguire meglio lo svolgimento delle ostilità. La cosa straordinaria è che quando Mosè alzava le mani, Israele primeggiava; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. Allora, poiché Mosè sentiva pesare le mani, i suoi due aiutanti lo fanno sedere su di una roccia a forma di sedile (vedi foto ), designata come il trono di Mosè, mentre essi, uno da una parte e l’altro dall’altra, ne sostenevano le mani. In questo modo Mosè ha potuto vedere da lontano gli israeliti nella battaglia fino a sera e pregare per loro.
Le braccia alzate di Mosè si possono interpretare come un simbolo della preghiera, e la sua efficacia. Non c’è però accenno a un dialogo tra Mosè e DIO, per cui si preferisce pensare che questo gesto sia semplicemente un segno della presenza di DIO che prende posizione in favore degli israeliti e li guida alla vittoria. Mosè tiene nelle sue mani il bastone che Dio gli aveva dato come segno della sua autorità, e appare come l’intermediario che unisce il cielo alla terra, garantendo così la presenza di Dio in mezzo al Suo popolo.
Certamente lascia un po’ turbati apprendere che in quella occasione gli israeliti hanno passato a fil di spada tutti gli amaleciti… E’ inutile chiedersi se ciò sia veramente accaduto, comunque questa annotazione ha solamente lo scopo di sottolineare il carattere pieno della vittoria riportata dagli israeliti con l’aiuto di Dio.
Salmo 120 - Il mio aiuto viene dal Signore.
Alzo gli occhi verso i monti:
da dove mi verrà l'aiuto?
Il mio aiuto viene dal Signore;
che ha fatto cielo e terra.
Non lascerà vacillare il tuo piede,
non si addormenta il tuo custode.
Non si addormenterà,
non prenderà sonno, il custode d'Israele.
Il Signore è il tuo custode,
il Signore è la tua ombra
e sta alla tua destra.
Di giorno non ti colpirà il sole,
né la luna di notte.
Il Signore ti custodirà da ogni male,
egli custodirà la tua vita.
Il Signore ti custodirà
quando esci e quando entri,
da ora e per sempre.
Il salmo fa parte dei quindici salmi (119-133) detti “delle ascensioni”, perché usati nei pellegrinaggi a Gerusalemme a cui si giungeva con un percorso in salita.
Usato a tale scopo, non sembra tuttavia essere stato composto per un pellegrinaggio. Il salmo infatti potrebbe riferirsi a una situazione diversa, considerando che i monti non siano quelli dove sorgeva Gerusalemme e il tempio, ma le giogaie dell'Hermon, oltre le quali si stendevano i territori percorsi dagli eserciti Assiri e Babilonesi in avanzata verso i territori della Fenicia e della Palestina.
Del resto tutto nel salmo indica non la provvisorietà di un pellegrinaggio, ma una stato di continuità di vita.
“Alzo gli occhi verso i monti” indicherebbe proprio l'apprensione di un pio Giudeo (forse un re di Gerusalemme) di fronte alle incombenti manovre di potenti eserciti conquistatori; apprensione arginata da una ferma professione di fede: “Il mio aiuto viene dal Signore: egli ha fatto cielo e terra”.
Da questa professione di fiducia in Dio procede tutto il salmo.
“Non lascerà vacillare il tuo piede”, cioè ti impedirà di fare mosse false, compromettenti.
Dio è “è la tua ombra", nel senso che è ristoro nel dardeggiare delle difficoltà e nello stesso tempo è forza che “sta alla tua destra”.
“Di giorno non ti colpirà il sole, né la luna di notte”, cioè Dio impedirà che venga ridotto a prigioniero condotto via senza alcun riguardo.
“Il Signore ti custodirà quando esci e quando entri”, cioè in tutte le situazioni di vita.
Commento di P.Paolo Berti
Dal seconda lettera di S.Paolo apostolo a Timoteo
Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.
Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento.
2Tm 3,14-4:2
Paolo continuando la sua seconda lettera a Timoteo, dopo avergli ricordato la fedeltà e averlo esortato a proseguire su questa linea, nonostante le sofferenze e persecuzioni, prosegue dicendo: “tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù”.
Timoteo deve perciò rimanere saldo sulla sua formazione dottrinale, frutto dell'educazione religiosa ricevuta fin dall'infanzia, da cui egli ha ricavato una fede incrollabile. A questo si aggiunge anche la forza derivante dalla conoscenza delle Scritture, che ha la capacità di comunicare una sapienza che conduce alla salvezza. Questa però deriva non da una semplice conoscenza dei testi, ma dalla fede in Gesù Cristo, che viene presentato così, non solo come fonte della salvezza, ma anche come l'unica chiave interpretativa della Scrittura.
Poi afferma: “Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona”.
L’espressione “tutta la scrittura” può indicare tutta la collezione dei libri sacri oppure ciascun libro preso individualmente. Essa è “ispirata da Dio”, cioè è composta sotto l’ispirazione dello Spirito di Dio e in forza dello Spirito.
Questo testo è l’unico in cui si parla esplicitamente di “ispirazione” delle Scritture e questa particolarità significa che le Scritture sono composte da autori che pur essendo persone normali, sono assistiti dallo Spirito che ne garantisce la verità dal punto di vista della salvezza, non certo sul piano della scienza o della storia. In altre parole, le Scritture hanno una grande importanza perché contengono la lunga esperienza religiosa di un popolo dal quale Gesù ha preso un corpo e non si può quindi essere Suoi discepoli se non si fa riferimento alle Scritture. E’ necessario comunque essere consapevoli che nella Scrittura non si trova sempre la soluzione dei nostri problemi, ma lo stimolo ad andare avanti in una ricerca che non si concluderà mai su questa terra.
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
Lc 18, 1-8
Con questo brano, l’evangelista Luca continua a raccontare gli spostamenti di Gesù, nel suo viaggio verso Gerusalemme. Dopo aver guarito i dieci lebbrosi, Gesù propone due parabole quella del giudice e della vedova e quella del fariseo e del pubblicano che sottolineano ambedue l’importanza di pregare. Senza stancarsi. Dopo l’introduzione vengono presentate le caratteristiche dei due protagonisti della parabola, il giudice e la vedova: “In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Il giudice è descritto come una persona cinica, che non teme Dio e non si cura del suo prossimo mentre per descrivere la donna è bastato dire che era vedova.
Sappiamo che l’orfano e la vedova erano due categorie di bisognosi verso i quali la Bibbia richiama spesso l’attenzione: “non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io ascolterò il suo grido” (Es 22, 21-22). La vedova e l’orfano, non avendo più un uomo che potesse difenderne i diritti, erano più facilmente oggetto di ingiustizia, di angherie e di maltrattamenti, la loro situazione economica era spesso precaria perché non potevano contare sul reddito del marito o del padre.
Anche se la protagonista del racconto appartiene a questa categoria, però non è disposta ad accettare il sopruso di cui è vittima, perciò si rivolge al giudice per avere giustizia. Nonostante il disinteresse del giudice, le insistenze della donna hanno esito positivo, infatti: “Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”. Quindi il giudice alla fine cede e fa giustizia alla donna: ciò che prevale in lui non è certo il senso del dovere, ma il desiderio di non essere più importunato.
Alla fine Gesù dà la sua interpretazione della parabola richiamando l’attenzione dei discepoli non tanto sull’insistenza della donna, ma piuttosto sull’atteggiamento del giudice e pone una domanda, che esprime da sola la risposta:”E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente”.
Infatti se un giudice, per di più disonesto, alla fine si decide a fare giustizia alla vedova, a maggior ragione Dio farà giustizia per i suoi eletti, dal momento che è un Padre premuroso e giusto.
L’ultima frase del brano è piuttosto misteriosa: “Tuttavia, il Figlio dell’uomo, venendo, troverà ancora la fede sulla terra?”. Luca quando scriveva si rivolgeva ad una comunità scoraggiata perché provata da persecuzioni sempre crescenti. E' una frase che sembra pessimista, ma che vuole in realtà mettere in guardia i credenti di ogni tempo: l'amore del Padre non può venir meno, ci ha donato tutto donandoci il Figlio. Se la frase con cui si chiude il nostro brano è una domanda, quella con cui inizia dice in che cosa consiste la fede: "Bisogna pregare senza scoraggiarci mai". All'interno di questa inclusione, ci è presentato l'esempio della vedova che ha vinto la prepotenza del giudice al quale non importava niente di nessuno.
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“Pregare, dunque. Come Mosè, il quale è stato soprattutto uomo di Dio, uomo di preghiera. Lo vediamo oggi nell’episodio della battaglia contro Amalek, in piedi sul colle con le braccia alzate; ma ogni tanto, per il peso, le braccia gli cadevano, e in quei momenti il popolo aveva la peggio; allora Aronne e Cur fecero sedere Mosè su una pietra e sostenevano le sue braccia alzate, fino alla vittoria finale.
Questo è lo stile di vita spirituale che ci chiede la Chiesa: non per vincere la guerra, ma per vincere la pace!
Nell’episodio di Mosè c’è un messaggio importante: l’impegno della preghiera richiede di sostenerci l’un l’altro. La stanchezza è inevitabile, a volte non ce la facciamo più, ma con il sostegno dei fratelli la nostra preghiera può andare avanti, finché il Signore porti a termine la sua opera.
San Paolo, scrivendo al suo discepolo e collaboratore Timoteo, gli raccomanda di rimanere saldo in quello che ha imparato e in cui crede fermamente. Tuttavia anche Timoteo non poteva farcela da solo: non si vince la “battaglia” della perseveranza senza la preghiera. Ma non una preghiera sporadica, altalenante, bensì fatta come Gesù insegna nel Vangelo di oggi: «pregare sempre, senza stancarsi mai». Questo è il modo di agire cristiano: essere saldi nella preghiera per rimanere saldi nella fede e nella testimonianza. Ed ecco di nuovo una voce dentro di noi: “Ma Signore, com’è possibile non stancarsi? Siamo esseri umani… anche Mosè si è stancato!...”. E’ vero, ognuno di noi si stanca. Ma non siamo soli, facciamo parte di un Corpo! Siamo membra del Corpo di Cristo, la Chiesa, le cui braccia sono alzate giorno e notte al Cielo grazie alla presenza di Cristo Risorto e del suo Santo Spirito. E solo nella Chiesa e grazie alla preghiera della Chiesa noi possiamo rimanere saldi nella fede e nella testimonianza.
Abbiamo ascoltato la promessa di Gesù nel Vangelo: Dio farà giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui. Ecco il mistero della preghiera: gridare, non stancarsi, e, se ti stanchi, chiedere aiuto per tenere le mani alzate. Questa è la preghiera che Gesù ci ha rivelato e ci ha donato nello Spirito Santo. Pregare non è rifugiarsi in un mondo ideale, non è evadere in una falsa quiete egoistica. Al contrario, pregare è lottare, e lasciare che anche lo Spirito Santo preghi in noi. E’ lo Spirito Santo che ci insegna a pregare, che ci guida nella preghiera, che ci fa pregare come figli.
I santi sono uomini e donne che entrano fino in fondo nel mistero della preghiera. Uomini e donne che lottano con la preghiera, lasciando pregare e lottare in loro lo Spirito Santo; lottano fino alla fine, con tutte le loro forze, e vincono, ma non da soli: il Signore vince in loro e con loro….
Dio conceda anche a noi di essere uomini e donne di preghiera; di gridare giorno e notte a Dio, senza stancarci; di lasciare che lo Spirito Santo preghi in noi, e di pregare sostenendoci a vicenda per rimanere con le braccia alzate, finché vinca la Divina Misericordia.”
Papa Francesco Parte dell’Omelia del 16 ottobre 2016
Oggi 20 Ottobre 2019 è la giornata mondiale missionaria. La Messa delle ore 10.00 celebrata da Padre Pietro è stata animata dalle suore angolane insieme a Padre Adriano.
Anche le letture liturgiche di questa domenica hanno come tema la fede, una fede che non ha confini razziali, culturali, sociali.
Nella prima lettura, tratta dal secondo libro dei Re, troviamo il racconto di Naamàn, generale siriano, guarito dalla lebbra, che fa la sua “professione di fede” e riconosce il vero Dio e a Lui solo rende omaggio. In questa narrazione si può comprendere come Dio chiama alla fede anche quelli che noi giudichiamo lontani da Lui.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo nella sua seconda lettera a Timoteo, invita il suo discepolo, a condividere la sua condizione, ora in catene per il Vangelo. Egli ricorda anche a tutti noi. Che nessun ostacolo può opporsi alla diffusione della Parola di Dio.
Nel Vangelo di Luca, Gesù guarisce dieci lebbrosi e solo uno straniero (un samaritano) ritorna per ringraziarlo. Solo a lui Gesù in finale dichiara: “Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato!”. Tutti sono stati guariti, ma lui solo è stato salvato. Questo samaritano diventa per noi esempio di fede e di amore.
Dal secondo libro dei Re
In quei giorni, Naamàn, (il comandante del’esercito del re di Aram) scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato (dalla sua lebbra).
Tornò con tutto il séguito da (Elisèo),l'uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: “Ecco, ora so che non c'è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo”.
Quello disse: “Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò”. L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò.Allora Naamàn disse: “Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocàusto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore”.
2Re 5,14-17
Il Secondo libro dei Re, insieme al primo, in origine formavano un unico libro. Entrambi fanno parte dei Libri storici per il canone cristiano e dei cosiddetti “profeti anteriori‘” per il canone ebraico. E’ stato composto, secondo alcuni studiosi, intorno al VI secolo a.C. dallo stesso autore che ha scritto il libro del Deuteronomio; per questo lo si definisce autore ''Deuteronomista'‘.
Per ricostruire le vicende dei due regni di Israele, egli attinge a materiali d'archivio, alle tradizioni orali e alla memoria storica del suo popolo. Una delle caratteristiche dell'autore è il continuo ricorso a formule fisse per delineare i regni dei vari sovrani e in particolare, il secondo libro dei Re, descrive la vicenda del popolo ebraico dal IX al VI secolo a.C., cioè dalla fine del regno di Acazia (circa 852 a.C.) fino alla distruzione del regno di Giuda nel 587 a.C..
Le vicende di Elia e di Eliseo sono narrate in due cicli che occupano la parte centrale dei due libri dei Re (1Re 17-22; 2Re 1-17).
Eliseo, il quale operò sotto i re Ioram (852-841), Ieu (841-814), Ioacaz (814-798), Ioas (798-783), è protagonista di numerosi racconti popolari spesso interrotti da riferimenti alle vicende politiche. Il suo ciclo si apre con il rapimento di Elia in cielo, del quale egli è l’unico testimone (2Re 2,1-8). Divenuto così erede spirituale del suo maestro, Eliseo compie alcuni miracoli di carattere umanitario. Infine viene narrata la conversione di Naaman, un generale degli aramei che era diventato lebbroso (2Re 5,1-19). Il brano liturgico riprende la parte conclusiva di questo racconto.
Naaman si era rivolto al profeta per chiedergli di essere guarito, ma questi, senza neppure presentarsi di persona, gli dice semplicemente di bagnarsi sette volte nel fiume Giordano. Naaman si sente offeso da questo comportamento e da quanto gli dice di fare il profeta Eliseo, ma poi esegue quanto gli è stato detto e guarisce dal suo male.
Allora torna da Eliseo e dichiara pubblicamente :“Ecco, ora so che non c'è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo”. Come ringraziamento per quanto ha ricevuto, Naaman vorrebbe fare un dono al profeta, ma egli rifiuta decisamente.
Allora Naaman fa a Eliseo questa richiesta: “Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocàusto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore”. Siccome Naaman risiede in un paese straniero dove si adorano altri dèi, mentre JHWH si adora solo nella terra di Israele, chiede che gli sia consentito di poter portare con sé una certa quantità di questa terra su cui pregare il Signore e offrirgli i propri sacrifici , inoltre, siccome egli è tenuto, in forza del proprio rango, ad accompagnare il re nel tempio di Rimmon, dove si compie un culto inconciliabile con quello del Signore, chiede al profeta se gli è permesso di compiere il proprio dovere in modo puramente esterno, senza con ciò venire meno alla sua nuova fede.
Il brano liturgico non riporta la richiesta completa di Naaman e neanche la risposta di Eliseo che si limita a dirgli “Và in pace”.
La guarigione di Naamàn è presentata come l’occasione di un’autentica conversione al Dio di Israele da parte di un non israelita. Le richieste di Naamàn si comprendono alla luce dei problemi che si ponevano dopo l’esilio a uno straniero che volesse riconoscere e adorare JHWH come unico Dio. Secondo la mentalità dell’epoca egli, vivendo in una terra straniera, non poteva adorare JHWH, il quale, pur essendo il Dio di tutta la terra, aveva come Sua sede speciale la terra di Israele. Oltre a ciò, dato che si trattava di una persona importante, doveva partecipare al culto della divinità del posto in cui viveva: un rifiuto poteva essere considerato come una ribellione.
Eliseo dicendo solo “Va in pace” non prende palesemente posizione su questo atteggiamento esterno di idolatria, ma si dimostra comprensivo e tollerante, per cui astenendosi da ogni giudizio, lascia a Naamàn il compito di decidere con la sua coscienza.
È questo veramente un gesto di grande rispetto e di solidarietà! Tutto il racconto tende così a dimostrare che la religione israelitica è l’unica vera, ma al tempo stesso sottolinea che anche a un non ebreo è possibile aderire al vero Dio senza essere costretto a praticare tutte le norme che regolano il culto di Israele. In questo senso il brano rivela una mentalità alquanto moderna, che certo al suo tempo ha avuto difficoltà ad essere compresa da tutti.
Salmo 97 - Il Signore ha rivelato ai popoli la sua giustizia
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo.
Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa di Israele.
Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami al Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!
Il tempo della composizione di questo salmo è probabilmente quello del postesilio. Il motivo del suo invito ad un “canto nuovo” non è però ristretto al solo ritorno dall'esilio, ma nasce da tutti gli interventi di Dio per la liberazione di Israele dagli oppressori e dai nemici.
E' Dio stesso che, come prode guerriero, ha vinto i suoi nemici, che sono gli stessi nemici di Israele: “Gli ha dato vittoria la sua destra”.
Il “canto nuovo” celebra le “meraviglie” di Dio, tuttavia è aperto al futuro messianico, che abbraccerà tutti i popoli.
“La sua salvezza”, mostrata ai popoli per mezzo di Israele, ridonda già su di loro: “Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. Il Signore è colui che viene, che viene costantemente a giudicare la terra; e che verrà nel futuro per mezzo dell'azione del Messia, al quale darà il potere di giudicare nell'ultimo giorno la terra: “Giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine”.
Ogni episodio di liberazione il salmo lo vede come preparazione della diffusione a tutte le genti della salvezza del Signore. E' una salvezza universale che tocca anche il creato, che deve fremere di fronte agli eventi finali che lo sconvolgeranno: “Frema il mare...”; ma anche esultare, perché sarà sottratto dalla caducità introdotta da Adamo (Cf. Rm 8,19): “I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne”.
Noi, in Cristo, recitiamo il salmo nell'avvento messianico. La salvezza di Dio, quella che ci libera dal peccato - male supremo - è quella donataci per mezzo di Cristo. La giustizia che si è mostrata a noi è Cristo, che per noi è morto e ci ha resi giusti davanti al Padre per mezzo del lavacro del suo sangue. Dio, è il Dio che viene (Cf. Ap 1,7; 4,8) per mezzo dell'azione dello Spirito Santo, che presenta Cristo, nostra salvezza e giustizia.
Commento di P.Paolo Berti
Dal seconda lettera di S.Paolo apostolo a Timoteo
Figlio mio, ricordati di Gesù Cristo,
risorto dai morti, discendente di Davide,
come io annuncio nel mio vangelo,per il quale soffro
fino a portare le catene come un malfattore.
Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch'essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo;
se perseveriamo, con lui anche regneremo;
se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà;
se siamo infedeli, lui rimane fedele,
perché non può rinnegare se stesso.
2Tm 2:8-13
Il capitolo, da cui è stato tratto questo brano, era cominciato con un riferimento all’incarico dato da Paolo al discepolo-figlio Timoteo, a cui aveva fatto seguito l'esortazione alla perseveranza e all’impegno nonostante le sofferenze che si prospettano. A questo punto inizia l’esortazione rivolta a Timoteo : “…ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide,come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore”.
Al centro dei pensieri di Timoteo deve esserci la persona di Cristo. Di lui si dice, con riferimento a un'antica professione di fede, che è risorto dai morti ed è discendente di Davide. L’origine davidica di Gesù Cristo, il Messia, richiama al fatto che per mezzo Suo si sono attuate le promesse. Citando la Sua risurrezione, non si può non citare la Sua morte di croce e di conseguenza la Sua risurrezione dai morti . Qui c’è il senso ultimo e profondo delle sofferenze che ora toccano in sorte a tutti i credenti, dei quali Paolo rimane il modello ideale.
Il tema della sofferenza dell’Apostolo e della sua attuale prigionia introduce un’affermazione di principio a cui fa seguito un nuovo riferimento alla sua esperienza: “Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch'essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna”.
Nonostante Paolo sia incatenato come un criminale comune, non così è per la Parola di Dio, che raggiunge tutti gli uomini di buona volontà. La Parola di Dio non può essere incatenata, anzi, si può dire che la partecipazione personale di Paolo all’esperienza di morte e risurrezione di Cristo, serva alla diffusione del Vangelo più dell’annuncio pubblico che egli ne fa con la sua parola.
L’esempio di Paolo, figura ideale e tipica dell'apostolo e martire per il Vangelo, introduce la citazione di un altro inno in cui questo pensiero è applicato a tutti i cristiani:
“Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso”.
Il morire con Lui comporta di riflesso il vivere con Lui e la perseveranza nelle prove ha come effetto l’ingresso con Lui nel Suo regno. Il rinnegarlo comporta invece l’essere rinnegati da Lui. Il termine “rinnegare”, indica il rifiuto e la ribellione nei confronti di Cristo e a questo rifiuto corrisponde anche il rifiuto da parte di Cristo. Quest’ultima affermazione viene però subito corretta perché anche in caso di infedeltà da parte del discepolo, Gesù rimane fedele, perché questo fa parte del “Suo modo di essere”, venendo meno al quale, “Egli rinnegherebbe se stesso”. Si tratta quindi di un rapporto che non può venire meno perché non si basa sulla buona volontà del credente, ma su una scelta irrevocabile di Dio.
Dal vangelo secondo Luca
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza, e dissero ad alta voce: “Gesù maestro, abbi pietà di noi!”. Appena li vide, Gesù disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?”. E gli disse: “Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato!”.
Lc 17, 11-19
Con questo brano, l’evangelista Luca continua a raccontare gli spostamenti di Gesù, nel suo viaggio verso Gerusalemme. Questa volta non abbiamo un discorso di Gesù, ma il racconto di un miracolo. I suoi discepoli lo accompagnano ed insieme sono ormai giunti nel territorio della Samaria. Stanno per entrare in un villaggio, quando un gruppo di 10 lebbrosi va incontro al Rabbi di Nazareth.
L’episodio è così introdotto: Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Questo versetto che introduce la terza e ultima tappa del viaggio di Gesù verso Gerusalemme, riporta un percorso un po’ strano perché controllando la mappa sembra che Gesù va verso Gerusalemme camminando a ritroso! Sicuramente l'evangelista voleva solo trovare un posto adatto per descrivere l'incontro del Signore con un gruppo di lebbrosi composto da giudei e da un samaritano.
“Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza”,
Del villaggio in cui Gesù entra non si ha alcuna indicazione, se non che gli vengono incontro questi dieci uomini lebbrosi. Coloro che erano affetti da lebbra (ma spesso si trattava solo di una malattia della pelle) erano cacciati dalla società, però potevano abitare in luoghi appartati nei villaggi. Secondo le norme descritte nel Levitico (13,45-46) dovevano tenersi a distanza, per evitare il contagio e anche per motivi cultuali, in quanto si trovavano in stato di impurità.
“e dissero ad alta voce: “Gesù maestro, abbi pietà di noi!”.
Il Levitico prescriveva che se essi avessero incontrato qualcuno, avrebbero dovuto gridare “Immondo! Immondo! Immondo!”; ma il loro grido verso Gesù è invece una preghiera: è l'invocazione del nome di Gesù unito al titolo di Maestro, che Luca mette sempre in bocca ai discepoli.
“Appena li vide, Gesù disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono purificati.
Diversamente dall’episodio narrato da Luca nel capitolo 5 (13-14) , Gesù non guarisce i lebbrosi prima di mandarli ai sacerdoti, ma dà subito l'ordine di mostrarsi ad essi.
Come per Naaman il Siro (2Re 5), il miracolo avviene a distanza. Il sacerdote aveva l'incarico, dopo l'esame del caso, di dichiarare impuro il lebbroso, e aveva anche il dovere di dichiararlo puro, dopo la guarigione; non perché svolgeva la funzione di medico, ma in quanto interprete della Legge. Comunque, per il guarito, questa dichiarazione del sacerdote significava la reintegrazione nella comunità civile e religiosa.
“Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; “
Con questo versetto si apre la seconda parte del racconto: il ritorno di un samaritano per ringraziare, come aveva fatto Naaman. Luca però non rivela subito che si tratta di un samaritano e dice solamente “uno di loro” quasi per prepararci alla sorpresa, mettendo prima in luce la fede dello sconosciuto. Quest'ultimo infatti vede la sua guarigione: un vedere che non si limita alla costatazione della salute fisica ritrovata, ma implica l'apertura alla fede. Con l’espressione “lodando Dio” , egli riconosce nella guarigione operata da Gesù l'agire di Dio.
“e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.”
Il guarito rende gloria a Dio e rende grazie a Gesù: per il credente sono due atteggiamenti inseparabili: in Gesù, Dio si lascia incontrare. L'ex-lebbroso accompagna il suo ringraziamento con un gesto di prostrazione, segno di profondo rispetto. Emerge un particolare: la convivenza tra lebbrosi giudei e samaritani è verosimile, visto che un lebbroso perdeva la sua identità sociale e religiosa.
“Ma Gesù osservò: “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?”.”
Questo discorso di Gesù, composto da una successione di tre domande, costituisce il vertice del racconto. La prima domanda dichiara che tutti hanno beneficiato della guarigione. La seconda costata l'assenza di nove dei guariti. L'ultima precisa ciò che questi avrebbero dovuto fare: non basta la guarigione; essa avrebbe dovuto essere per essi il segno di una realtà nuova; non tornando da Gesù, hanno mancato nell'essenziale.
A questa prospettiva si aggiunge anche una nota di esortazione: i doni ricevuti da Dio richiedono la risposta riconoscente dell'uomo. Inoltre, chiamando il samaritano “straniero”, lo si costituisce rappresentante di tutti gli stranieri, del mondo pagano aperto alla salvezza, e posto in contrasto con i membri del popolo eletto.
“E gli disse: “Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato!”.
Luca, servendosi di una formula conosciuta risalente probabilmente a Gesù, esprime il proprio pensiero: è la fede che salva, non importa se il credente appartenga al popolo d'Israele o alle nazioni pagane.
La fede che l'evangelista vede manifestata dal samaritano non si limita alla fiducia nel potere taumaturgico di Gesù (anche gli altri nove lebbrosi avevano creduto che Gesù li avrebbe sanati). E' la fede che percepisce nella guarigione un invito, torna verso il donatore, entra in rapporto con Gesù.
E' questa la fede salvifica!
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“Il Vangelo di questa domenica ci invita a riconoscere con stupore e gratitudine i doni di Dio. Sulla strada che lo conduce alla morte e alla risurrezione, Gesù incontra dieci lebbrosi, che gli vanno incontro, si fermano a distanza e gridano la propria sventura a quell’uomo in cui la loro fede ha intuito un possibile salvatore: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi! .
Sono malati, e cercano qualcuno che li guarisca. Gesù, rispondendo, dice loro di andare a presentarsi ai sacerdoti, che, secondo la Legge, avevano l’incarico di constatare una eventuale guarigione. In questo modo egli non si limita a fare una promessa, ma mette alla prova la loro fede. In quel momento, infatti, i dieci non sono ancora guariti. Riacquistano la salute mentre sono in cammino, dopo aver obbedito alla parola di Gesù. Allora, tutti pieni di gioia, si presentano ai sacerdoti, e poi se ne andranno per la loro strada, dimenticando però il Donatore, cioè il Padre che li ha guariti mediante Gesù, il suo Figlio fatto uomo.
Uno soltanto fa eccezione: un samaritano, uno straniero che vive ai margini del popolo eletto, quasi un pagano! Quest’uomo non si accontenta di aver ottenuto la guarigione attraverso la propria fede, ma fa sì che tale guarigione raggiunga la sua pienezza tornando indietro ad esprimere la propria gratitudine per il dono ricevuto, riconoscendo in Gesù il vero Sacerdote che, dopo averlo rialzato e salvato, può metterlo in cammino e accoglierlo tra i suoi discepoli.
Saper ringraziare, saper lodare per quanto il Signore fa per noi, quanto è importante! E allora possiamo domandarci: siamo capaci di dire grazie? Quante volte ci diciamo grazie in famiglia, in comunità, nella Chiesa? Quante volte diciamo grazie a chi ci aiuta, a chi ci è vicino, a chi ci accompagna nella vita? Spesso diamo tutto per scontato! E questo avviene anche con Dio. È facile andare dal Signore a chiedere qualcosa, ma tornare a ringraziarlo… Per questo, Gesù sottolinea con forza la mancanza dei nove lebbrosi ingrati: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?».
…Per saper ringraziare, occorre anche l’umiltà. Nella prima Lettura abbiamo ascoltato la vicenda singolare di Naaman, comandante dell’esercito del re di Aram. Ammalato di lebbra, per guarire accetta il suggerimento di una povera schiava e si affida alle cure del profeta Eliseo, che per lui è un nemico. Naaman è disposto però ad umiliarsi. Ed Eliseo non pretende niente da lui, gli ordina solo di immergersi nell’acqua del fiume Giordano. Tale richiesta lascia Naaman perplesso, addirittura contrariato: ma può essere veramente un Dio quello che chiede cose così banali? Vorrebbe tornarsene indietro, ma poi accetta di immergersi nel Giordano e subito guarisce.
Il cuore di Maria, più di ogni altro, è un cuore umile e capace di accogliere i doni di Dio. E Dio, per farsi uomo, ha scelto proprio lei, una semplice ragazza di Nazareth, che non viveva nei palazzi del potere e della ricchezza, che non ha compiuto imprese straordinarie. Chiediamoci – ci farà bene - se siamo disposti a ricevere i doni di Dio, o se preferiamo piuttosto chiuderci nelle sicurezze materiali, nelle sicurezze intellettuali, nelle sicurezze dei nostri progetti.
È significativo che Naaman e il samaritano siano due stranieri. Quanti stranieri, anche persone di altre religioni, ci danno esempio di valori che noi talvolta dimentichiamo o tralasciamo. Chi vive accanto a noi, forse disprezzato ed emarginato perché straniero, può insegnarci invece come camminare sulla via che il Signore vuole. Anche la Madre di Dio, insieme col suo sposo Giuseppe, ha sperimentato la lontananza dalla sua terra. Per lungo tempo anche Lei è stata straniera in Egitto, lontano dai parenti e dagli amici. La sua fede, tuttavia, ha saputo vincere le difficoltà. Teniamo stretta a noi questa fede semplice della Santa Madre di Dio; chiediamo a Lei di saper ritornare sempre a Gesù e dirgli il nostro grazie per tanti benefici della sua misericordia.”
Papa Francesco Parte dell’Omelia del 9 ottobre 2016
Le letture liturgiche di questa domenica hanno come tema la fede, che spesso è messa a dura prova quando ci sembra che Dio sia assente o resti silenzioso proprio nei momenti in cui abbiamo più bisogno.
Nella prima lettura, il profeta Abacuc si lamenta con Dio perché sembra tardare a soccorrere il suo popolo. Il Signore gli risponde che si perde solo chi vuole perdersi, mentre “il giusto vivrà per la sua fede”.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo nella sua seconda lettera a Timoteo, chiede al suo discepolo, e naturalmente anche a noi oggi, di essere coraggiosi nel rendere testimonianza a Cristo e di conservare il bene prezioso della fede, afferma inoltre che Dio, attraverso la grazia della fede: non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza.
Nel Vangelo di Luca, agli apostoli che gli chiedevano di aumentare la propria fede Gesù risponde: Se aveste fede quanto un granello di sènape, potreste …” La fede è dunque, un’energia che non si misura in base alla quantità, ma in base all’autenticità e all’intensità; la fede fruttifica anche se è un seme microscopico, si radica nella mente e nel cuore e nutre l’intelligenza, generando lo spirito di servizio e la dedizione gratuita a Dio e al prossimo.
Dal libro del profeta Abacuc
Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti,
a te alzerò il grido: “Violenza!” e non salvi?
Perché mi fai vedere l'iniquità
e resti spettatore dell'oppressione?
Ho davanti a me rapina e violenza
e ci sono liti e si muovono contese.
Il Signore rispose e mi disse:
“Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette
perché la si legga speditamente.
È una visione che attesta un termine,
parla di una scadenza e non mentisce;
se indùgia, attendila, perché certo verrà e non tarderà”.
Ecco, soccombe colui che non ha l'animo retto,
mentre il giusto vivrà per la sua fede.
Ab 1,2-3; 2,2-4
Abacùc è l'ottavo dei 12 profeti minori; di lui si hanno poche notizie, se non che visse al tempo del profeta Geremia (605-589 a.C). Come Geremia profetizzò durante il regno del re Ioakim, ricordato per la sua tirannia e incapacità di una chiara linea politica, infatti strinse alleanze sia con il faraone d’Egitto sia con i Babilonesi nemici degli Egiziani. I Babilonesi, durante il suo regno, assediarono Gerusalemme e, in seguito, la distrussero e lui fu deportato a Babilonia dove morì nel 597.
Il libro di Abacuc è composto di tre capitoli e si divide in due parti.
Il brano liturgico inizia con una domanda che prende dal 1^ capitolo e la risposta dal secondo.
La prima domanda contiene un rimprovero nei confronti di Dio:
“Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non salvi? “
Angosciato davanti al trionfo dell’empietà e dell’ingiustizia, il profeta si rivolge a Dio invocando il Suo aiuto. Siccome Dio sembra indifferente di fronte alla triste situazione in cui il popolo si trova, il profeta gli espone le miserie di cui soffre. Egli parla a nome di tutto il popolo e dei giusti oppressi, di cui si fa portavoce. L’espressione “fino a quando”, dettata dall’impotenza, denota la supplica e nello stesso tempo il rimprovero che si fa a Dio (V Sal 13,2-3; Ger 12,4). Viene perciò messo in questione l’atteggiamento di Dio nei confronti del male: come può Dio tollerare che capitino certe cose? Una domanda attuale anche ai nostri giorni.
Il profeta continua la sua domanda con tono ancora più forte:
“Perché mi fai vedere l'iniquità e resti spettatore dell'oppressione? Ho davanti a me rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese”. Dio viene in modo provocatorio ritenuto colpevole di quello che sta accadendo e permette che il profeta assista impotente all’espandersi del male e dell’oppressione.
Abacuc si lamenta di dover vedere intorno a sé soltanto rapina e violenza, liti e contese. Ciò che egli descrive è una situazione di profonda degenerazione sociale, (molto vicina a ciò che noi viviamo oggi) in cui dominano i prepotenti, i quali litigano fra loro e impongono agli altri il loro volere. La domanda che gli sale alla bocca esprime un dubbio amaro circa il governo del mondo da parte di Dio. L’impressione che il profeta ha è che Dio si sia lasciato sfuggire di mano il controllo di questo mondo.
La riposta riportata dalla liturgia è quella che fa seguito alla seconda domanda, simile alla prima, con la quale il profeta accusa Dio di comportarsi con gli uomini come fa il pescatore che prende all’amo i pesci del mare e fa di essi il suo cibo (V.1,12-17
Ad essa Dio risponde, ma prima sembra voler sottolineare l’importanza di ciò che sta per dire: “Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine,parla di una scadenza e non mentisce; se indùgia, attendila,perché certo verrà e non tarderà”
L’uso di scrivere una visione su una tavoletta di legno, pietra o bronzo che sia (V. Is 8,1; 30,8; Ger 30,2; Ez 37,16) ha lo scopo di far conoscere con precisione a un gran numero di persone il contenuto del messaggio. Esso serve anche a dare la possibilità un giorno, quando l’oracolo si sarà verificato, di riconoscere che l’evento era stato annunziato in precedenza. La parola di Dio, comunicata in una visione, possiede una potenza tale per cui il fatto di essere scritta aumenta ancora di più la sua efficacia. In questo caso il messaggio contiene l’indicazione di un termine, cioè di una scadenza. La sciagura non durerà all'infinito, ma è destinata a terminare. Al credente non resta altro che aspettare con fiducia che la predizione si attui.
Dopo questa lunga premessa, viene riportato il messaggio che invece è molto corto:
“Ecco, soccombe colui che non ha l'animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede”.
L’oracolo divino è redatto in forma concisa: ci sono due espressioni parallele di cui la prima riguarda l’empio e la seconda il giusto. Il primo viene designato in modo negativo come ”colui che non ha l’animo retto”. E questo si riferisce non tanto agli invasori caldei, quanto ai giudei che, pur conoscendo le prescrizioni divine, non le mettono in pratica, peccando così di orgoglio e di presunzione. A costoro si preannunzia l’insuccesso e la rovina (V.: Sal 1,4-5; 35,5). Per coloro che, nel mezzo di una sciagura che si è abbattuta su tutto il popolo, si aggrappano a false sicurezze, come potrebbero essere il denaro o l’adorazione degli dèi degli invasori, non c’è speranza. Essi saranno spazzati via dalla disgrazia e non avranno un futuro.
Diverso sarà invece il destino dei giusti. Costoro sono quella parte del popolo che si mantiene fedele a DIO e agli impegni presi con Lui nel contesto dell’alleanza. Essi non si lasciano intimidire dalle violenze degli invasori e rifiutano di venire a patti con loro. Di costoro si dice che “vivranno”.
In un contesto in cui si parla di giustizia, la vita che viene loro garantita non è la semplice sopravvivenza, ma la vita piena in comunione con Dio che comporta anche il benessere materiale (V. Dt 30,15-16; Pr 10,27-28\; 11,19). Solo loro vedranno la fine della calamità e potranno ritornare a una vita tranquilla e senza eccessive tribolazioni.
Abacuc vuole capire l’agire di Dio, ma non vi riesce. Dopo le sue proteste, tace e attende e da vera persona di fede accetta di soffrire. Abacuc testimonia che la persona di fede è quella che resta fedele a Dio proprio nelle situazioni che umanamente sembrano insopportabili e incomprensibili.
Da profeta capisce che la vera giustizia è nelle mani di Dio e lascia a Dio la gloria di intervenire quando lo crede opportuno. Lui è “come sentinella”, aspetta ma nell’attesa continua a lodare Dio. Non si accontenta di risposte superficiali, accetta piuttosto di rimanere senza risposte e, anche se non vede segni di cambiamento, sceglie di continuare a confidare solo nel Signore. Questa è fede autentica!
Salmo 94 Ascoltate oggi la voce del Signore.
Venite, cantiamo al Signore,
acclamiamo alla roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie,
a lui acclamiamo con canti di gioia.
Entrate, prostrati, adoriamo,
in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
E’ lui il nostro Dio, e noi il popolo del suo pascolo,
il gregge che egli conduce.
Se ascoltaste oggi la sua voce:
“Non indurite il cuore, come a Merìba,
come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova,pur avendo visto le mie opere”.
Il salmo è un invito alla preghiera durante una visita al tempio, probabilmente durante la festa delle capanne, che celebrava il cammino nel deserto (Cf. Dt 31,11), visto che il salmo ricorda l'episodio di Massa e Meriba.
Dio è presentato come “roccia della nostra salvezza”, indicando la roccia la sicurezza data da Dio di fronte ai nemici.
Egli è “grande re sopra tutti gli dei”; sono gli dei concepiti dai pagani, dietro i quali striscia l'azione dei demoni
Egli è colui che ha in suo potere ogni cosa: “Nella sua mano sono gli abissi della terra, sono sue le vette dei monti...”.
Il gruppo orante è invitato ad accostarsi a Dio, cioè ad entrare nell'atrio del tempio. Successivamente il gruppo è invitato a prostrarsi davanti al Signore. Segue l'invito ad ascoltare la voce del Signore. Nel silenzio dell'adorazione davanti al tempio Dio muove il cuore (“la sua voce”) indirizzandolo al bene, all'obbedienza dei comandamenti, al cambiamento della vita.
“Non indurite il cuore”; il cuore indurito non ascolta la voce del Signore e segue i suoi pensieri, ma si troverà a vagare nei deserti di un'esistenza senza Dio, senza alcun riposo.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla seconda lettera di S.Paolo aspostolo a Timoteo
Figlio mio, ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te mediante l'imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza.
Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo.
Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù. Custodisci mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato.
2 Tm 1:6-8.13-14
Questa seconda lettera a Timoteo si distingue dalla prima soprattutto perchè testimonia una tenera relazione di paternità spirituale di Paolo con il discepolo Timoteo. L’Apostolo la scrive quando è di nuovo prigioniero a Roma nel 67: le condizioni della prigionia sono dure, ben differenti da quelle della prima volta, quando predicava liberamente, in domicilio coatto (At 28,16).Paolo si sente solo, nessuno lo ha difeso in tribunale: i suoi giorni sono contati e si prepara al sacrificio supremo. Lo preoccupa ciò che accade nelle comunità: tutte le idee nuove e strane trovano sostenitori che raccolgono successi a discapito del Vangelo, dell’unità e della missione.
Il brano si apre con l’esortazione spirituale a Timoteo: “ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te mediante l'imposizione delle mie mani”. Timoteo deve perciò costantemente ravvivare il “dono” che ha ricevuto da Dio mediante l'imposizione delle mani fatta personalmente da parte di Paolo. Questo carisma è legato alla testimonianza coraggiosa che si fonda sullo Spirito:“Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza”.
Le tre qualità connesse con il dono dello Spirito sono quelle che deve avere ogni credente, del quale Timoteo è il modello: “forza, amore e saggezza”. Esse sono contrapposte alla “timidezza”, che consiste nella paura e nella pigrizia. Poi l’apostolo invita alla testimonianza: “Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo”. La testimonianza riguarda l'annuncio coraggioso del vangelo e la perseveranza nelle prove. I versi omessi dalla liturgia, danno la motivazione teologica di questa testimonianza. In essi si sottolinea l’iniziativa gratuita e efficace di Dio per la salvezza, la realizzazione della salvezza in Gesù Cristo e infine la sua attuazione storica per mezzo dell'annuncio del Vangelo, di cui Paolo è stato incaricato.
Il brano termina con un’esortazione: ” Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù. Custodisci mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato”. Timoteo ha avuto in consegna da Paolo il patrimonio della fede genuina, nonché l’esperienza dell’amore, di cui egli è stato maestro. Ora egli deve custodire il bene prezioso, assieme al quale ha ricevuto la garanzia di conservarlo e trasmetterlo integro, cioè l’opera dello Spirito santo che rimane come energia interiore nei credenti.
L’invito alla fedeltà e alla perseveranza cristiana contenuto in questo brano anche se è diretto soprattutto ai responsabili ecclesiastici, dei quali Timoteo è il rappresentante ideale, il tono generale delle espressioni è indirizzato però a tutti i credenti.
Paolo esortando il discepolo Timoteo incoraggia tutti i discepoli di ogni tempo e di ogni luogo alla fedeltà, alla perseveranza nelle prove, e a restare fedeli al Vangelo.
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: “Accresci in noi la fede!”. Il Signore rispose: “Se aveste fede quanto un granello di sènape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola? Non gli dirà piuttosto: Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.
Lc 17, 5-10
Siamo ancora nella parte dedicata al viaggio di Gesù verso Gerusalemme e dopo la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro, Luca riporta alcuni detti di Gesù. I primi due, omessi dal brano liturgico, riguardano rispettivamente lo scandalo e la correzione fraterna. Il testo liturgico riporta invece il terzo detto, che è un’istruzione riguardante la fede e la successiva parabola del servo che torna dalla campagna.
Il brano inizia riportando la richiesta che gli apostoli fanno a Gesù:
“Accresci in noi la fede!”.
Gesù però non risponde dicendo cosa devono fare, ma dà loro un criterio per valutare quanta fede hanno:
“Se aveste fede quanto un granello di sènape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe”.
La risposta di Gesù presenta un'immagine paradossale tesa a sottolineare come la fede se autentica è sempre efficace e capace di grandi cose, anche se è piccola come un granello di senape, che è certamente microscopico, quasi invisibile, ma una volta seminato cresce moltissimo, e nell'arco di un anno può divenire un albero. Il gelso, invece, è un albero secolare che può vivere anche 600 anni, ha radici profonde, che si abbarbicano nella terra. E' un albero, simbolo di stabilità, molto difficile da sradicare, ed è per questo che Gesù usa queste immagini per affermare che chi ha fede è aperto a Dio, ha una fiducia totale in Lui, che può manifestare in lui la Sua forza;
Al discorso sulla fede fa seguito una parabola che invita all’umiltà conosciuta solo da Luca
”Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola? Non gli dirà piuttosto: Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?.
Gesù parte da un esempio della vita sociale per reagire contro un atteggiamento umano che tende ad avanzare pretese dinanzi a Dio, e critica anche una mentalità commerciale nel rapporto uomo-Dio.
Da questo esempio si può anche rilevare la situazione sociale al tempo di Gesù, quando i possidenti ebrei potevano avere dei servi e questi erano a loro completa disposizione, non solo per il lavoro nei campi, ma anche per ogni altra prestazione.
Luca anche se in questo brano fa emergere il senso della sovranità di Dio, non intende certo affermare che il rapporto con Dio sia come quello con un padrone!
Gesù conclude così la sua parabola: ” Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: "Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare".
Queste parole pronunciate da Gesù ci potrebbero sembrare un po’ dure, ma dobbiamo tenere in mente che il padrone che ci comanda non è un uomo come noi, che non si farebbe scrupolo a sfruttare gli altri e trattarli come servi, ma è DIO. Lui non ci chiede niente per sé perché ha già tutto e noi per quanto ci adoperiamo, non possiamo aggiungere niente alla Sua gloria.
La difficoltà di accettare le parole di Gesù, comunque, rimane, perché essa altro non è che tentazione dell'albero del bene e del male, che sta sempre sopra la nostra testa, e sotto al quale dobbiamo decidere se fidarci di Lui, oppure fare come piace a noi.
Riconoscerci servi inutili altro non è che affidarci a Lui e fidarci di Lui, anche quando non lo capiamo, come il profeta Abacuc, che, timoroso di soccombere davanti all'arroganza dei malvagi, supplica: “Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non salvi? Perché mi fai vedere l'iniquità e resti spettatore dell'oppressione …, e si sente rispondere: “Ecco, soccombe colui che non ha l'animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede”.
Possiamo a questo punto solo pregare il Signore che ci aiuti a divenire giusti, di mantenere un animo retto, che ci aiuti ad avere una fiducia totale in Lui anche quando il male sembra prevalere.
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“Il brano del Vangelo comincia così: «In quel tempo gli apostoli dissero al Signore: “Accresci in noi la fede!”» Mi pare che tutti noi possiamo fare nostra questa invocazione. Anche noi come gli Apostoli diciamo al Signore Gesù: “Accresci in noi la fede!”. Sì, Signore, la nostra fede è piccola, la nostra fede è debole, fragile, ma te la offriamo così com’è, perché Tu la faccia crescere. …
E il Signore che cosa ci risponde? Risponde: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» Il seme della senape è piccolissimo, però Gesù dice che basta avere una fede così, piccola, ma vera, sincera, per fare cose umanamente impossibili, impensabili. Ed è vero! Tutti conosciamo persone semplici, umili, ma con una fede fortissima, che davvero spostano le montagne! Pensiamo, per esempio, a certe mamme e papà che affrontano situazioni molto pesanti; o a certi malati, anche gravissimi, che trasmettono serenità a chi li va a trovare. Queste persone, proprio per la loro fede, non si vantano di ciò che fanno, anzi, come chiede Gesù nel Vangelo, dicono: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare». Quanta gente tra noi ha questa fede forte, umile, e che fa tanto bene!
In questo mese di ottobre, che è dedicato in particolare alle missioni, pensiamo a tanti missionari, uomini e donne, che per portare il Vangelo hanno superato ostacoli di ogni tipo, hanno dato veramente la vita; come dice san Paolo a Timoteo: «Non vergognarti di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo» . Questo però riguarda tutti: ognuno di noi, nella propria vita di ogni giorno, può dare testimonianza a Cristo, con la forza di Dio, la forza della fede. La fede piccolissima che noi abbiamo, ma che è forte! Con questa forza dare testimonianza di Gesù Cristo, essere cristiani con la vita, con la nostra testimonianza!
E come attingiamo questa forza? La attingiamo da Dio nella preghiera. La preghiera è il respiro della fede: in un rapporto di fiducia, in un rapporto di amore, non può mancare il dialogo, e la preghiera è il dialogo dell’anima con Dio. ….
La fede è anzitutto un dono che noi abbiamo ricevuto. Ma per portare frutti, la grazia di Dio richiede sempre la nostra apertura a Lui, la nostra risposta libera e concreta. Cristo viene a portarci la misericordia di Dio che salva. A noi è chiesto di affidarci a Lui, di corrispondere al dono del suo amore con una vita buona, fatta di azioni animate dalla fede e dall’amore.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 6 ottobre 2013
Queste sono le foto scattate da Gennaro Momo per rivivere i momenti importanti e toccanti della festa parrocchiale.
Altre foto qui sotto in galleria
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)