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Elena Tasso

Elena Tasso

Con le commemorazioni dei santi e dei defunti abbiamo meditato sulla morte e sulla risurrezione, sul peccato e la salvezza, e le letture liturgiche di questa domenica ci invitano ancora a meditare sugli stessi temi
Nella prima lettura, tratta dal secondo Libro dei Maccabei, troviamo il racconto dei sette fratelli che per non rinunziare alla loro fede, affrontano con serenità la morte con la ferma speranza che essa non è la fine, perché sono certi di risuscitare ad una vita nuova ed eterna. La fede nella risurrezione è affermata per la prima volta in questo brano. L’esperienza della morte di tanti giusti al tempo della persecuzione di Antioco IV Epifane (215 a.C circa-164 a.C) ha fatto nascere la speranza della risurrezione.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, continuando la sua seconda lettera ai Tessalonicesi, esorta i cristiani di Tessalonica a non stancarsi di fare il bene e di condurre una vita laboriosa e ordinata nella pace.
Nel Vangelo di Luca, leggiamo che dei sadducei tentano di impegolare Gesù presentando un racconto di fantasia in cui la visione dell’oltrevita è presentata in modo materialistico e concepita come un ricalco della vita terrena. E’ la stravagante storiella dei sette fratelli che in forza della legge biblica del levirato sono costretti a sposare uno dopo l’altro la vedova del loro fratello. E’ qui che Gesù dirà alla fine: Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per Lui.

Dal secondo libro dei Maccabei
In quei giorni, ci fu il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re, a forza di flagelli e nerbate, a cibarsi di carni suine proibite. Uno di loro, facendosi interprete di tutti, disse: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri».
[E il secondo,] giunto all'ultimo respiro, disse: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell'universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna».
Dopo costui fu torturato il terzo, che alla loro richiesta mise fuori prontamente la lingua e stese con coraggio le mani, dicendo dignitosamente: «Dal Cielo ho queste membra e per le sue leggi le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo».
Lo stesso re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza di questo giovane, che non teneva in nessun conto le torture.
Fatto morire anche questo, si misero a straziare il quarto con gli stessi tormenti. Ridotto in fin di vita, egli diceva: «È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita».
2Mac 7,1-2, 9-14

Il Secondo libro dei Maccabei è un testo contenuto nella Bibbia cristiana ma non nella Bibbia ebraica.
Si tratta del riassunto di un'opera, composta intorno al 160 a.C. da un certo Giasone di Cirene, scritto direttamente in greco da un autore ignoto intorno al 124 a.C. forse ad Alessandria d’Egitto. Contrariamente a quanto si può pensare, il libro non è la continuazione del primo, ma tratta una parte degli stessi avvenimenti. Infatti, a differenza del primo libro, che illustra il periodo storico dal 175 al 135 a.C,., il secondo libro dei Maccabei si sofferma sugli avvenimenti tra gli anni 176-160. È composto da 15 capitoli e descrive la lotta per l'indipendenza della Giudea dei fratelli Maccabei (Giuda, Gionata,Simone) contro i re seleuciti della Siria, narrando eventi accaduti tra il 180 a.C. e il 161 a.C
Il brano che abbiamo riporta una parte del 7^capitolo e comincia prospettando il caso di sette giovani fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re, a forza di flagelli e nerbate, a cibarsi di carni suine proibite. Nei versetti omessi dalla liturgia, si racconta che il re ordina subito di uccidere in modo orrendo quello che si era fatto loro portavoce, sotto gli occhi degli altri fratelli e della madre che nel frattempo si esortavano a vicenda a morire da forti. Viene poi la volta del secondo il quale subisce gli stessi tormenti del primo, fino all’ultimo dei fratelli.
È precisamente nell’ambito della persecuzione che si comincia a pensare che i giusti, i quali hanno dato la vita per la loro fede, alla fine dei tempi, quando il popolo entrerà nella pienezza della comunione con Dio, usciranno dal regno dei morti e torneranno in vita per partecipare alla felicità dei loro fratelli. Non si tratta dunque di un ritorno alla vita di questo mondo, ma dell’ingresso nel regno di Dio in vista del quale i martiri hanno saputo donare la propria vita.
La fede nella risurrezione (che non appare con certezza in Isaia 26,19 o Giobbe 19), è affermata per la prima volta in questo brano. L’esperienza della morte di tanti giusti al tempo della persecuzione di Antioco IV Epifane (215 a.C circa-164 a.C) ha fatto nascere la speranza della risurrezione. Si comincia così la dottrina dell’immortalità, che si svilupperà poi nell’ambiente greco, ma senza riferimento alla resurrezione dei corpi. Il pensiero ebraico però, che non distingueva tra corpo e anima, l’idea della sopravvivenza implicava anche quella della resurrezione dei corpi. Il testo non parla direttamente della resurrezione di tutti gli uomini: considera unicamente il caso dei giusti. Solo nel Libro del profeta Daniele c’è un più chiaro riferimento: “Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna.” (Dn 12,2)

Salmo 16 - Ci sazieremo, Signore, contemplando il tuo volto.
Ascolta, Signore, la mia giusta causa,
sii attento al mio grido.
Porgi l’orecchio alla mia preghiera:
sulle mie labbra non c’è inganno.

Tieni saldi i miei passi sulle tue vie
e i miei piedi non vacilleranno.
Io t’invoco poiché tu mi rispondi, o Dio;
tendi a me l’orecchio, ascolta le mie parole.

Custodiscimi come pupilla degli occhi,
all’ombra delle tue ali nascondimi,
io nella giustizia contemplerò il tuo volto,
al risveglio mi sazierò della tua immagine.

L’orante del salmo è accusato d’empietà; una calunnia dei suoi nemici lo vuole mettere a morte. Ma egli presenta la sua causa a Dio, certo di non avere mancato. Egli chiede a Dio, quale giudice, di essere saggiato, scrutato nella notte, quando è solo con se stesso e riflette sul suo agire.
Egli ha seguito la parola del Signore e ha evitato per questo “i sentieri del violento”; non è entrato in collisione con loro. Ora, tuttavia, essi lo insidiano per distruggerlo.
I suoi nemici hanno il cuore indurito ad ogni luce di verità, e parlano con arroganza, quasi potessero accampare ragioni contro di lui: “Il loro animo è insensibile, le loro bocche parlano con arroganza”.
C’è un persecutore, che ha coinvolto altri, e l’orante chiede al Signore che con la sua spada (la sua Parola) lo abbatta, così da essere liberato dai malvagi: “con la tua spada liberami dal malvagio, con la tua mano, Signore, dai mortali”. Ma dopo avere domandato questo, cambia modo di porsi dinanzi ai suoi persecutori; ora domanda a Dio che sazi “il loro ventre”, e ne avanzi per i loro figli e nipoti. “Ne avanzi”, perché essi nel loro egoismo pensano solo a se stessi e solo quando c’è abbondanza ne danno anche a figli e nipoti.
Il salmista invoca per loro ogni bene materiale. Per lui, invece, la contemplazione del volto di Dio, cioè della sua potenza e misericordia, per mezzo della pratica della giustizia, che è amare Dio e il prossimo. Per lui nel risveglio, nella vittoria dell’alba sul buio della notte, la contemplazione del Santuario dove è presente la gloria di Dio: “della tua immagine”. L’immagine è nel significato plenior Cristo. Nel giorno della felice aurora dell’avvento messianico, il giusto si sazierà della presenza del Verbo incarnato, immagine del Padre (Gv 12,45; 2Cor 4,4; Col 1,15)
Commento di P.Paolo Berti

Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Fratelli, lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene.
Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata, come lo è anche tra voi, e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti. Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno.
Riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore: che quanto noi vi ordiniamo già lo facciate e continuerete a farlo. Il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo.
2Ts 2,16-3,5

Paolo continuando la sua lettera ai Tessalonicesi, dopo aver introdotto l'argomento riguardante i falsi presagi riguardanti il ritorno glorioso di Gesù Cristo, descrive i segni premonitori di questo arrivo e li mette in guardia per non cadere in certi inganni. Egli però loda i Tessalonicesi poiché sono stati la primizia, cioè tra i primi ad aderire alla fede in Cristo e li esorta a mantenere ferma questa fede e le tradizioni che hanno ricevuto.
Nel brano che abbiamo Paolo chiede al Signore che li aiuti a rimanere fedeli alla loro vocazione di cristiani.
“lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene”.
Paolo rivolge una supplica al Signore Gesù e a Dio Padre affinché sostengano il cammino dei cristiani di Tessalonica. Il cammino di fedeltà cristiana è frutto della volontà umana ma anche dell'intervento fortificante della grazia divina. Il Signore non mancherà di fare la Sua parte perché ci ha amati fin da principio e ricolmati di ogni bene. Rafforzati dal Suo aiuto possiamo fare del bene testimoniandolo nelle nostre azioni buone
“Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata, come lo è anche tra voi, e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti.”
Dopo aver pregato per i cristiani e aver assicurato loro l'aiuto del Signore, Paolo a sua volta si affida alle preghiere dei fratelli esortandoli a pregare l’uno per l’altro. E' una forma importante di solidarietà e fraternità cristiana.. Si può intuire sullo sfondo di queste parole la persecuzione che i predicatori del Vangelo stanno sopportando. Il Vangelo è sempre stato segno di contraddizione nel mondo, (e lo possiamo constatare anche oggi) e non in tutti suscita la fede, anzi può sollevare ostilità e persecuzioni.
“Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno. Riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore: che quanto noi vi ordiniamo già lo facciate e continuerete a farlo.”
Abbandonarsi nel Signore è sempre possibile, in qualsiasi momento perché Egli è fedele, perciò persegue coerentemente la Sua azione iniziata a favore dei credenti. Gesù agirà sostenendo la loro fede e proteggendoli da ogni influsso negativo. A partire da questa fiducia riposta nel Signore, si può anche guardare con serenità il futuro
“Il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo”-
Il brano si conclude con un voto benedicente affinché il Signore diriga chi si è affidato a Lui sul sentiero segnato dal Suo amore
La preghiera è l’atteggiamento fondamentale del credente. Essa non consiste in una pressione esercitata su Dio perché faccia quello che noi vogliamo, ma piuttosto in un mettersi in sintonia con le modalità del Suo agire nel mondo. Se Dio non avesse per primo manifestato il Suo amore, non sarebbe possibile pregarlo. La preghiera porta conforto e consolazione perché si basa sul riconoscimento della fedeltà di Dio, il quale non permette che il credente sia privato di tutto ciò che gli è necessario per combattere contro la potenza del male.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».
Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».
Lc 20, 27-38

Luca, dopo il lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme, in cui ha inserito molti racconti e soprattutto detti di Gesù, ora riporta che Gesù, una volta entrato trionfalmente a Gerusalemme (Lc 19,29-39) si dedica apertamente alla predicazione e all'insegnamento. I sommi sacerdoti e gli scribi come era loro solito, cercavano un pretesto per farlo arrestare. Per questo motivo in questi suoi ultimi giorni Gesù viene spesso provocato su questioni talvolta marginali, poste proprio per indurlo in inganno. Una di queste è narrata nel brano di oggi che inizia riportando: . si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda:
Questo episodio, narrato anche da Marco, (12,18-27) è l'unico in cui i sadducei vengono citati, di solito però essi fanno parte del gruppo degli scribi e dei sommi sacerdoti.
Il partito dei sadducei si richiamava a Zadòk. i cui discendenti erano gli unici riconosciuti come sacerdoti legittimi (Ez 44,15). Concentravano la propria azione nel tempio e nella politica e godevano di poca considerazione presso il popolo (al contrario dei farisei). In teologia erano conservatori: non accettavano la tradizione orale e si sottomettevano letteralmente all'autorità del Pentateuco. Poiché i libri di Mosè non parlano di risurrezione, i sadducei la contestavano. Scomparvero dalla storia d'Israele quando fu distrutto il Tempio (70 d.C.).
I sadducei si avvicinano a Gesù e il loro intento è polemico. La questione di una risurrezione era di attualità. Infatti solo a partire dal II secolo a. C. (con i fatti narrati nei libri dei Maccabei), si diffuse in Israele la fede nella risurrezione personale.
«Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”.
I sadducei citano la legge del levirato, previsto da Dt 25,5-10. Era una prassi comune ad altri popoli dell'Antico Oriente (come gli Assiri e gli Ittiti) ed era poi entrata a far parte anche della legge di Israele. Alla base di questa legge si scorge il forte desiderio di sopravvivere nei figli e di dare una continuità alla famiglia e alla stirpe. L'espressione "Mosè ci ha prescritto " mostra che i sadducei considerano Mosè il mediatore tra Dio e il popolo, e che essi conoscono la validità attuale di tale prescrizione.
“C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna”.
Dopo la citazione della legge, i sadducei espongono un caso paradossale: una donna diventa successivamente la moglie di sette fratelli che muoiono tutti senza figli. La storia è raccontata in modo volutamente esagerato.
“La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie”.
I sadducei dimostrano così di pensare che la risurrezione sia un puro e semplice ritorno alla vita precedente, per cui la risurrezione non può aver luogo poiché renderebbe Dio responsabile di situazioni che, come quella di una donna con sette mariti, sono tassativamente escluse dalla legge di Mosè. Nella logica dei sadducei basta prendere sul serio la legge del levirato per concludere che la risurrezione è impossibile e assurda : non c'è risurrezione dei morti.
“Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito:”
Con questa risposta Gesù dà un insegnamento che denuncia la visione materiale della vita futura. Egli si serve di una distinzione giudaica per mettere in contrasto due condizioni di vita: nel mondo presente, il matrimonio è necessario per la sopravvivenza dell'umanità, perché l'uomo è mortale. Nel mondo futuro invece tale realtà non servirà più perché l'uomo avrà raggiunto l'immortalità.
Gesù afferma quindi che la condizione d'esistenza nella vita futura è radicalmente diversa da quella attuale perchè sarà una vita immortale presso Dio. I risorti, di conseguenza, non hanno più bisogno dell'attività sessuale in vista della procreazione.
Rimane da approfondire l’espressione: “ma quelli che sono giudicati degni…” La vita futura e la risurrezione possono essere considerati due aspetti della stessa realtà, oppure possono affermare a una vita presso Dio subito dopo la morte e poi la risurrezione di tutti alla fine dei tempi.
“infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio”
Con questo versetto l'evangelista lega la fine dell'attività sessuale nell'aldilà con l'idea di immortalità e con l'affermazione dell'uguaglianza con gli angeli. L'immortalità (e non per esempio non avere il corpo) è dunque la caratteristica dell'essere come gli angeli: di qui la transitorietà del matrimonio. Il giudaismo non ignora il paragone tra gli eletti e gli angeli, sorprende che Gesù lo utilizzi nei confronti dei sadducei che non credevano nemmeno all'esistenza degli angeli.
Con l’espressione “infatti non possono più morire” Luca ricorda che i salvati non solo sono simili agli angeli, ma sono veramente figli di Dio, introdotti nella vita divina, grazie alla risurrezione. Partecipando alla risurrezione di Cristo gli uomini entrano in comunione con la filiazione divina di Cristo stesso.
Nella tradizione cristiana questo testo ha qualche volta provocato una certa svalutazione del matrimonio e della sessualità; si tendeva a identificare la vita di risurrezione con uno stato “angelico”. Ma l'essere come gli angeli non significa che la natura dell'uomo viene trasformata in quella angelica. L'uomo risorto non è privato della sua umanità. Ciò che il versetto vuole dimostrare è il superamento del rapporto sessuale nel futuro escatologico, visto che l'uomo sarà immortale. La mascolinità e la femminilità non si esauriscono nel matrimonio e quindi nella funzione puramente procreativa, ma esistono in vista della comunione delle persone: quest'ultima realtà, già possibile sulla terra, raggiungerà perfetto compimento e dinamicità nella vita di risurrezione.
“Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”.
Dopo aver confutato la promessa dei sadducei, Gesù porta un argomento positivo a favore della risurrezione, richiamandosi all'autorità di Mosè, autorità che anche essi riconoscono. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è il Dio che ha concluso un'alleanza con i patriarchi: Egli ha preso l'iniziativa gratuita di essere loro sostegno e salvatore, non può quindi abbandonarli nella morte.
“Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui”.
Luca termina puntando su un Dio capace di vincere la morte, perché Egli è sempre il Dio dei patriarchi che, anche se morti, dunque vivranno (per Luca già vivono). E' nella risurrezione di Gesù che il Dio dei patriarchi dimostra di essere veramente il Dio dei viventi.
Come conclusone si può dire che Gesù ci fa anche comprendere che il legame di vita e di amore formatosi tra il credente e Dio, già durante l’esistenza terrena, non può terminare, anzi giunge a compimento quando arriveremo davanti a Lui, che è l’Eterno vivente. Ciò non vuol dire che i rapporti terreni (tra marito e moglie, genitori e figli, tra amici) saranno dimenticati, perché tutto ciò che è stato amore vivrà sempre, ma con una intensità e purezza sconosciute quaggiù. Ogni rapporto di amore nato su questa terra non potrà terminare con la morte, che non è la fine, ma l’inizio della vita vera che non conosce tramonto.

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“Gesù afferma quindi che la condizione d'esistenza nella vita futura è radicalmente diversa da quella attuale perché sarà una vita immortale presso Dio. I risorti, di conseguenza, non hanno più bisogno dell'attività sessuale in vista della procreazione.
Rimane da approfondire l’espressione: “ma quelli che sono giudicati degni…” La vita futura e la risurrezione possono essere considerati due aspetti della stessa realtà, oppure possono affermare a una vita presso Dio subito dopo la morte e poi la risurrezione di tutti alla fine dei tempi.
“infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio”.
Con questo versetto l'evangelista lega la fine dell'attività sessuale nell'aldilà con l'idea di immortalità e con l'affermazione dell'uguaglianza con gli angeli. L'immortalità (e non per esempio non avere il corpo) è dunque la caratteristica dell'essere come gli angeli: di qui la transitorietà del matrimonio. Il giudaismo non ignora il paragone tra gli eletti e gli angeli, sorprende che Gesù lo utilizzi nei confronti dei sadducei che non credevano nemmeno all'esistenza degli angeli.
Con l’espressione “infatti non possono più morire” Luca ricorda che i salvati non solo sono simili agli angeli, ma sono veramente figli di Dio, introdotti nella vita divina, grazie alla risurrezione. Partecipando alla risurrezione di Cristo gli uomini entrano in comunione con la filiazione divina di Cristo stesso.
Nella tradizione cristiana questo testo ha qualche volta provocato una certa svalutazione del matrimonio e della sessualità; si tendeva a identificare la vita di risurrezione con uno stato “angelico”. Ma l'essere come gli angeli non significa che la natura dell'uomo viene trasformata in quella angelica. L'uomo risorto non è privato della sua umanità. Ciò che il versetto vuole dimostrare è il superamento del rapporto sessuale nel futuro escatologico, visto che l'uomo sarà immortale. La mascolinità e la femminilità non si esauriscono nel matrimonio e quindi nella funzione puramente procreativa, ma esistono in vista della comunione delle persone: quest'ultima realtà, già possibile sulla terra, raggiungerà perfetto compimento e dinamicità nella vita di risurrezione.
“Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”.
Dopo aver confutato la promessa dei sadducei, Gesù porta un argomento positivo a favore della risurrezione, richiamandosi all'autorità di Mosè, autorità che anche essi riconoscono. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è il Dio che ha concluso un'alleanza con i patriarchi: Egli ha preso l'iniziativa gratuita di essere loro sostegno e salvatore, non può quindi abbandonarli nella morte.
“Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui”.
Luca termina puntando su un Dio capace di vincere la morte, perché Egli è sempre il Dio dei patriarchi che, anche se morti, dunque vivranno (per Luca già vivono). E' nella risurrezione di Gesù che il Dio dei patriarchi dimostra di essere veramente il Dio dei viventi.
Come conclusone si può dire che Gesù ci fa anche comprendere che il legame di vita e di amore formatosi tra il credente e Dio, già durante l’esistenza terrena, non può terminare, anzi giunge a compimento quando arriveremo davanti a Lui, che è l’Eterno vivente. Ciò non vuol dire che i rapporti terreni (tra marito e moglie, genitori e figli, tra amici) saranno dimenticati, perché tutto ciò che è stato amore vivrà sempre, ma con una intensità e purezza sconosciute quaggiù. Ogni rapporto di amore nato su questa terra non potrà terminare con la morte, che non è la fine, ma l’inizio della vita vera che non conosce tramonto. “

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 6 novembre 2016

1. Abbiamo intrapreso il cammino dell'abitare con il cuore la città, ascoltando il grido dei suoi abitanti. Ora una tappa importante sarà la celebrazione dell'Eucarestia con Papa Francesco nella ricorcenzadella Dedicazione della Basilica Lateranense. Sabato 9 novembre alle ore 17.30 nella Basilica Cattedrale di San Giovanni in Laterano sono invitati tutti coloro che fanno parte dell’équipe pastorale parrocchiale. Le indicazioni e il mandato che il Papa ci darà saranno un'altra straordinaria occasione di ascolto che orienterà il cammino intrapreso.

2. Come si legge nelle linee per il cammino di questo anno pastorale, siamo chiamati ad <abitare con il cuore la città> per ascoltarne il "grido", per dar conto delle sofferenze e delle fatiche della gente che vive a Roma guardando alla vita concreta delle persone. Un percorso di lettura del territorio e di ascolto delle storie di vita di giovani, famiglie e poveri troverà ampio spazio sul settimanale diocesano Roma Sette anche grazie alle segnalazioni che vorrete proporre. Per questo la domenica 10 novembre è dedicata per sostenere il giornale cattolico "Avvenire".

3. Domenica 10 novembre dopo !a messa delle ore 10,00 ci sarà l’incontro con i genitori del 2° anno di comunione nella rotonda.

Le letture liturgiche di questa domenica ci portano a meditare sulla tenerezza e la pazienza di Dio “amante della vita” per le sue creature.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Sapienza, si afferma che da sempre Dio ama tutto ciò che ha creato. Dio non ha creato la morte, e appena nota un segno di pentimento si trattiene dal castigo perché ama tutte le Sue creature .
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, nella seconda lettera ai Tessalonicesi, ammonisce di ascoltare le parole della fede sulla fine del mondo e a non dare credito ad altre rivelazioni.
Nel Vangelo di Luca, troviamo il racconto di Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, che riceve Gesù, anzi è proprio Gesù che si autoinvita a casa sua. Da quel momento, da uomo di potere, Zaccheo si trasforma in portatore di misericordia, da avaro si fa generoso, da impositore di tributi diventa mediatore di giustizia trasformandosi totalmente. Da questo racconto possiamo comprendere che Gesù non discrimina nessuno, ma garantisce il miracolo della conversione a innocenti e peccatori, a poveri e ricchi, agli eredi del popolo eletto e agli stranieri, a tutti gli uomini, senza distinzione di storia, posizione sociale, razza, cultura.

Dal libro della Sapienza
Signore, tutto il mondo davanti a te è come polvere sulla bilancia,
come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra.
Hai compassione di tutti, perché tutto puoi,
chiudi gli occhi sui peccati degli uomini,
aspettando il loro pentimento.
Tu infatti ami tutte le cose che esistono
e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato;
se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata.
Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta?
Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza?
Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue,
Signore, amante della vita.
Poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose.
Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano
e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato,
perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore.
Sap 11, 23-12,2

Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico.
È stato composto ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. da Filone o da un suo discepolo, e si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”) .
L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, per mettere questo scritto, come del resto il Qoelet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele. Il libro è stato scritto tutto in greco, anche la prima parte (1-5) , per la quale alcuni hanno ipotizzato, a torto, un originale ebraico. L'unità della composizione è confermata dall'unità della lingua, che risulta flessibile e ricca, scorrevole e senza forzature nelle diverse forme della retorica.
Nel brano che abbiamo riflettendo sulla moderazione con cui Dio ha agito al tempo dell’esodo contro gli egiziani, l’Autore cerca di dare una risposta al perché Dio, l’onnipotente, si dimostri tanto paziente verso i peccatori, ed afferma:
“Signore, tutto il mondo davanti a te è come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra. Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento”.
E’ eloquente questo confronto tra l’onnipotenza di Dio e la piccolezza del mondo, paragonato alla polvere che non sposta il piatto della bilancia e ad una goccia di rugiada che evapora subito al sorgere del sole.
Il motivo di questo comportamento di Dio è il particolare rapporto che lo lega a tutto ciò che Egli stesso ha creato: “Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita. Poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose. Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore.”
Emerge che Dio è amante della vita e la Sua mano onnipotente, che sorregge l'universo, sembra sfiorare con tenerezza la fronte della sua fragile creatura. Con infinita tenerezza si china su di essa, ammonendo il peccatore e richiamandolo con la moderazione dei suoi castighi, pronto a sospenderli al primo accenno di pentimento.
Si percepisce in questi versetti un Dio quasi riluttante a punire, il cui cuore "freme di compassione" di fronte allo sfacelo che il peccato provoca nell'uomo.
Quanto è lontana da questa immagine "materna" di Dio l'idea di un Dio-giudice e giustiziere, pronto a scagliare le saette della sua ira quando gli si voltano le spalle!
Ricordiamoci sempre, nei momenti bui che non mancano mai, che noi siamo tra queste mani tenere e forti.
Se neppure il peccato può spegnere il Suo amore per noi, chi ci potrà separare da Lui?
C'è solo da abbandonarsi fiduciosi al Suo amoroso abbraccio, aderendo con gioia alla Sua volontà, nella serena certezza che in tutto Egli cerca il nostro vero bene. E’ proprio per questo che Egli ci invita al pentimento del male commesso e a un sempre rinnovato impegno per evitarlo.

Salmo 144- Benedirò il tuo nome per sempre, Signore.

O Dio, mio re, voglio esaltarti
e benedire il tuo nome in eterno e per sempre.
Ti voglio benedire ogni giorno,
lodare il tuo nome in eterno e per sempre.

Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.

Ti lodino, Signore, tutte le tue opere
e ti benedicano i tuoi fedeli.
Dicano la gloria del tuo regno
e parlino della tua potenza

Fedele è il Signore in tutte le sue parole
e buono in tutte le sue opere.
Il Signore sostiene quelli che vacillano
e rialza chiunque è caduto.

Molti sono i frammenti di altri salmi che entrano nella composizione di questa composizione, che tuttavia risulta bellissima nella sua forma alfabetica e ricca di stimoli alla fede, alla speranza, alla pietà, alla lode. Il salmo è uno dei più recenti del salterio, databile nel III o II secolo a.C.
Esso inizia rivolgendosi a Dio quale re: “O Dio, mio re, voglio esaltarti (...) in eterno e per sempre”. “In eterno e per sempre”, indica in modo incessante e continuativo nel tempo.
Segue uno sguardo su come la trasmissione, di generazione in generazione, delle opere di Dio non sia sentita solo come fatto prescritto (Cf. Es 13,14), ma come gioia di comunicazione, poiché le opere di Dio sono affascinanti: “Il glorioso splendore della tua maestà e le tue meraviglie voglio meditare. Parlino della tua terribile potenza: anch’io voglio raccontare la tua grandezza. Diffondano il ricordo della tua bontà immensa, acclamino la tua giustizia". Il salmista fa un attimo di riflessione sulla misericordia di Dio, riconoscendo la sua pazienza verso il suo popolo. E' il momento dell'umiltà. La lode non può essere disgiunta dall'umile consapevolezza di essere peccatori: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature“. “Su tutte le creature”, cioè su tutti gli uomini, e pure sugli animali (Cf. Ps 35,7; 103,21).
Il salmista desidera che tutte le opere di Dio diventino lode a Dio sul labbro dei fedeli: “Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli. Dicano la gloria del tuo regno...”. “Tutte le tue opere”, anche quelle inanimate . Il significato profondo di questo invito cosmico sta nel fatto che, il salmista vede le creature come bloccate da una cappa buia posta dalle divinizzazioni pagane. Il salmista desidera che esse siano libere da quella cappa, che nega loro la glorificazione del Creatore….
Il salmista continua a celebrare la bontà di Dio verso gli uomini: “Giusto è il Signore in tutte le sue vie (...). Il Signore custodisce tutti quelli che lo amano, ma distrugge tutti i malvagi”. …
Il cristiano nella potenza dello Spirito Santo annuncia le grandi opere del Signore (At 2,11), che sono quelle relative a Cristo: la salvezza, la liberazione dal peccato, ben più alta e profonda di quella dall'Egitto; il regno di Dio posto nel cuore dell'uomo e tra gli uomini in Cristo, nel dono dello Spirito Santo; i cieli aperti, il dono dei sacramenti, massimamente l'Eucaristia.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Fratelli, preghiamo continuamente per voi, perché il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede, perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi, e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo.
Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente.
2Ts 1,11-2, 2

Paolo scrisse probabilmente la seconda lettera ai Tessalonicesi mentre si trovava a Corinto durante il suo primo viaggio missionario, verso il 50-51. Non potendo tornare a Tessalonica inviò il suo discepolo Timoteo per confortare i credenti e portare loro sue notizie. Il tema fondamentale della lettera è l’escatologia, ossia la fine della storia del mondo, quando il Signore risorto ritornerà.
In questo brano Paolo dopo aver espresso la sua soddisfazione perché i Tessalonicesi sopportano con coraggio persecuzioni e tribolazioni continua dichiarando: preghiamo continuamente per voi, perché il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede, perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi, e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo “.
Il sostegno della grazia di Dio è necessario perché Cristo sia glorificato in loro ed essi possano partecipare alla glorificazione del Signore Gesù Cristo.
Nel punto più importante della lettera, l’apostolo desidera correggere le attese escatologiche della comunità: “Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente.”
Circa il tempo del ritorno del Signore, la comunità dei Tessalonicesi era entrata in crisi, nonostante che Paolo nella sua prima lettera avesse precisato che nessuno ne poteva conoscere la data. Qualcuno aveva detto che il Signore gli aveva rivelato come imminente il suo ritorno. Altri avevano discusso in tal senso, equivocando alcuni passi della prima lettera. Altri avevano dato credito a lettere spacciate come scritte dall'apostolo dove si parlava dell'imminente venuta del Signore. Quest'ultimo fatto era molto grave perché sicuramente, oltre che a gettare allarmismo, era evidente l’intenzione malevola di attribuire a Paolo cose che mai aveva detto.
L’Apostolo cerca di corregge così l’errore dottrinale di quelli che erano persuasi che il giorno del Signore fosse imminente, poi anche l’errore pratico che ne era derivato per quei credenti troppo ansiosi che si erano lasciati andare e vivevano l’attesa in modo ozioso. Più avanti nella lettera, prima di terminare Paolo ordinerà loro “esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace”. Non interessandosi del mondo, ma affrontandolo coraggiosamente, i credenti devono andare incontro al Signore testimoniando, in ogni loro opera e azione, la propria fede.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là.
Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto».
Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».
Lc 19, 1-10

Luca continua a passare in rassegna i pubblici peccatori e l’episodio di Zaccheo va letto sullo sfondo dei brani che lo precedono, in particolare quello del fariseo e il publicano, ed anche Zaccheo come pubblicano, per l’opinione di allora era assai difficile per lui entrare nel regno di Dio. Di Zaccheo l’evangelista si limita a dire che era “capo dei pubblicani” e “ricco”. In altre parole egli era un grosso imprenditore, che riscuoteva le tasse per conto dei romani per cui si era arricchito lasciando da parte qualsiasi scrupolo di carattere morale o religioso. E facile immaginare che il popolo l’odiasse non solo per le estorsioni con cui si era arricchito, ma anche per la sua collaborazione con Roma, la potenza occupante.
Al passaggio di Gesù, Zaccheo cercava di vedere chi fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Il suo interesse è determinato da curiosità, ma forse anche da una certa insoddisfazione interiore e dal desiderio di dare un senso alla propria vita. Il suo desiderio di vedere Gesù è tanto forte da fargli dimenticare il rango sociale a cui apparteneva e salendo sull’albero forse pensava di restare inosservato. Ma Gesù, passando vicino al luogo in cui si trovava, si ferma e dice: “Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. La reazione di Zaccheo è immediata infatti Luca annota che “Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia”.
All’accoglienza gioiosa di Zaccheo si contrappone l’atteggiamento scandalizzato di tutti i presenti che mormorano: “È entrato in casa di un peccatore!” Gesù non risponde alla provocazione ma al suo posto parla Zaccheo che alzatosi dice: “Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”. Egli manifesta così il profondo cambiamento avvenuto in lui annunziando ciò che aveva intenzione di fare.
E’ da notare che la sua decisione è alquanto spropositata: il Levitico prescriveva di restituire i beni rubati aumentati di un quinto (Lv 5,20-24) mentre a un pubblicano che si convertiva i rabbini ordinavano di dare solo il 20 per cento dei suoi beni ai poveri.
Zaccheo sicuramente rimarrà sempre ricco, anche dopo la drastica riduzione dei suoi beni, ma qui c’è un insegnamento nuovo, che rettifica un’impressione falsa che si può avere da altri detti del Vangelo. Non è la ricchezza in sè che Gesù condanna senza appello, ma il cattivo uso di essa. C’è salvezza dunque anche per il ricco! Zaccheo è la riprova: che Dio può compiere anche il miracolo di convertire e salvare un ricco senza, necessariamente, ridurlo allo stato di povertà. Una speranza questa che Gesù non negò mai e che anzi alimentò, non disdegnando di frequentare sia i poveri che alcuni ricchi. Per Zaccheo ha detto “Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto .

 

*****

 

“Il Vangelo di oggi ci presenta un fatto accaduto a Gerico, quando Gesù giunse in città e fu accolto dalla folla.
A Gerico viveva Zacchèo, il capo dei “pubblicani”, cioè degli esattori delle tasse. Zaccheo era un ricco collaboratore degli odiati occupanti romani, uno sfruttatore del suo popolo. Anche lui, per curiosità, voleva vedere Gesù, ma la sua condizione di pubblico peccatore non gli permetteva di avvicinarsi al Maestro; per di più, era piccolo di statura, e per questo sale su un albero di sicomoro, lungo la strada dove Gesù doveva passare.
Quando arriva vicino a quell’albero, Gesù alza lo sguardo e gli dice: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Possiamo immaginare lo stupore di Zaccheo! Ma perché Gesù dice «devo fermarmi a casa tua»? Di quale dovere si tratta? Sappiamo che il suo dovere supremo è attuare il disegno del Padre su tutta l’umanità, che si compie a Gerusalemme con la sua condanna a morte, la crocifissione e, al terzo giorno, la risurrezione. E’ il disegno di salvezza della misericordia del Padre. E in questo disegno c’è anche la salvezza di Zaccheo, un uomo disonesto e disprezzato da tutti, e perciò bisognoso di convertirsi. Infatti il Vangelo dice che, quando Gesù lo chiamò, «tutti mormoravano: “E’ entrato in casa di un peccatore!”». Il popolo vede in lui un furfante, che si è arricchito sulla pelle del prossimo. E se Gesù avesse detto: “Scendi, tu, sfruttatore, traditore del popolo! Vieni a parlare con me per regolare i conti!”. Di sicuro il popolo avrebbe fatto un applauso. Invece incominciarono a mormorare: “Gesù va a casa di lui, del peccatore, dello sfruttatore”.
Gesù, guidato dalla misericordia, cercava proprio lui. E quando entra in casa di Zaccheo dice: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto». Lo sguardo di Gesù va oltre i peccati e i pregiudizi. E questo è importante! Dobbiamo impararlo. Lo sguardo di Gesù va oltre i peccati e i pregiudizi; vede la persona con gli occhi di Dio, che non si ferma al male passato, ma intravede il bene futuro; Gesù non si rassegna alle chiusure, ma apre sempre, sempre apre nuovi spazi di vita; non si ferma alle apparenze, ma guarda il cuore. E qui ha guardato il cuore ferito di quest’uomo: ferito dal peccato della cupidigia, da tante cose brutte che aveva fatto questo Zaccheo. Guarda quel cuore ferito e va lì.
A volte noi cerchiamo di correggere o convertire un peccatore rimproverandolo, rinfacciandogli i suoi sbagli e il suo comportamento ingiusto. L’atteggiamento di Gesù con Zaccheo ci indica un’altra strada: quella di mostrare a chi sbaglia il suo valore, quel valore che Dio continua a vedere malgrado tutto, malgrado tutti i suoi sbagli.
Questo può provocare una sorpresa positiva, che intenerisce il cuore e spinge la persona a tirare fuori il buono che ha in sé. È il dare fiducia alle persone che le fa crescere e cambiare. Così si comporta Dio con tutti noi: non è bloccato dal nostro peccato, ma lo supera con l’amore e ci fa sentire la nostalgia del bene. Tutti abbiamo sentito questa nostalgia del bene dopo uno sbaglio. E così fa il nostro Padre Dio, così fa Gesù. Non esiste una persona che non ha qualcosa di buono. E questo guarda Dio per tirarla fuori dal male.
La Vergine Maria ci aiuti a vedere il buono che c’è nelle persone che incontriamo ogni giorno, affinché tutti siano incoraggiati a far emergere l’immagine di Dio impressa nel loro cuore. E così possiamo gioire per le sorprese della misericordia di Dio! Il nostro Dio, che è il Dio delle sorprese”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 30 ottobre 2016

 

Le commemorazioni dei santi martiri, comuni a diverse Chiese, cominciarono ad essere celebrate nel IV secolo, ma la commemorazione di tutti i Santi la si deve a Papa Gregorio III (731-741) che scelse il 1^ novembre come data dell'anniversario della consacrazione di una cappella a San Pietro alle reliquie "dei santi apostoli e di tutti i santi…”. Venne poi decretata festa di precetto da parte del re franco Luigi il Pio nell'835 e il decreto fu emesso su richiesta di papa Gregorio IV con il consenso di tutti i vescovi.
La commemorazione dei fedeli defunti al 2 novembre ebbe origine nel sec. X nel monastero benedettino di Cluny. Papa Benedetto XV, al tempo della prima guerra mondiale, giunse a concedere a ogni sacerdote la facoltà di celebrare «tre messe» in questo giorno.
Le letture proposte dalla liturgia di questi due giorni ci aiuteranno a dare una risposta alla domanda: chi sono i santi? Non sono solo coloro che hanno raggiunto la gloria degli altari, ma sono anche coloro che hanno interpretato ed interpretano nel mondo il bisogno di Dio, che accettano e fanno fruttificare la grazia del Signore, che collaborano al compimento del progetto divino della riconsacrazione del mondo nell’amore. La santità è certamente anche un dono di Dio e, nello stesso tempo, il risultato di un impegno morale, svolto anche nell’ombra, che solo Dio vede. La santità non è quindi solo il raccolto finale di una vita spesa nel bene, la santità è il segno di una quotidiana partecipazione ai progetti di Dio.

Solennità di tutti i Santi – 1 Novembre 2019

Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni Apostolo
Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio».
E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele.
Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce:
«La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello».
E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen».
Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».
Ap 7,2-4.9-14

L‘Apocalisse di Giovanni, è l’ultimo libro del Nuovo Testamento, si compone di 22 capitoli, ed è uno dei testi più controversi e difficili da interpretare. Appartiene al gruppo di scritti neotestamentari noto come “letteratura giovannea“, in quanto redatta, intorno all’anno 95, verso la fine dell'impero di Domiziano, dai discepoli dell’apostolo che si sono ispirati al suo insegnamento.
I libri che hanno di più influenzato l'Apocalisse sono i libri dei Profeti, principalmente Daniele, Ezechiele, Isaia, Zaccaria e poi anche il Libro dei Salmi.
L'autore presenta se stesso come Giovanni, esiliato a Patmos, isola dell‘Egeo, a circa 70 km da Efeso, a causa della parola di Dio. Secondo alcuni studiosi, la stesura definitiva del libro, anche se iniziata durante l'esilio dell’autore, sarebbe avvenuta ad Efeso.
Questo brano costituisce l’intermezzo della sezione che va sotto il nome “i sette sigilli”. Essi vengono aperti dall’Agnello immolato, cioè da Gesù che si presenta così, per mezzo della sua passione, come il rivelatore del disegno salvifico di Dio. Ad ogni apertura corrisponde la realizzazione progressiva dei decreti di Dio. Volta per volta vengono rivelati coloro che devono realizzare questi decreti: i quattro cavalieri, i martiri con il loro invito alla giustizia, il cosmo, gli Angeli e i Santi con le loro preghiere.
Prima dell'apertura del settimo sigillo vi è una pausa. Giovanni poi continua il racconto della sua visione:
“Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio.”
Gli angeli vengono mandati sulla terra a mettere un segno per distinguere gli eletti di Dio. Questo segno pone gli eletti sotto la protezione di Dio, e grazie al Suo aiuto essi potranno resistere alle prove della persecuzione, non però saranno risparmiati dalla sofferenza e neppure dalla morte fisica, ma saranno preservati dalla distruzione totale e dall'annientamento.
“E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele”.
Questo è un numero figurativo, formato da 12 per 12 per 1000. Il numero 12, è il segno del tempo giunto a compimento, poiché nei 12 mesi dell’anno la terra compie il suo giro intorno al sole. Perciò il numero 12, qui abbinato al numero 1000, è considerato segno della perfezione e della completezza. Il numero 144.000, proveniente da ogni tribù dei figli d'Israele, è il prodotto di 12 (tribù d'Israele), per 12 (numero degli apostoli) per 1000 (numero di grandezza divina).
Giovanni poi vede la schiera dei beati che si trova già in cielo:
“Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello».
I beati del cielo sono una folla immensa, non si può calcolare, non si può esprimere nemmeno con un numero simbolico. Provengono da tutte le parti del mondo. Essi stanno in piedi: atteggiamento dell'uomo vivo e libero. I vestiti bianchi sono simbolo della gloria del cielo e le palme sono simbolo di vittoria.
“Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».
Uno degli anziani chiede a Giovanni chi siano queste persone e Giovanni a sua volta lo chiede all'anziano. Si tratta di coloro che hanno perseverato nel momento della prova. Essi hanno potuto resistere non grazie alle loro forze, ma grazie al sangue di Cristo, alla Sua redenzione, a cui hanno potuto accedere grazie alla fede e ai sacramenti.
Il canto che gli eletti elevano a Dio nella liturgia gloriosa del cielo riconosce che “La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello”. C’è quindi un primato assoluto di Dio! Essere santi vuol dire accogliere un dono più che conquistarlo, ma una volta accolto, il dono deve essere a sua volta donato . E’ in questo che scatta l’impegno dell’uomo, la sua risposta d’amore, all’amore di Dio.
Questa grazia è luminosamente presente in tutti i santi, anche in quelli che espressamente non appartengono al cristianesimo, ma che certamente in modo misterioso e segreto sono legati a Dio e al Suo Figlio incarnato.
La santità nasce da un dialogo efficace in cui la prima battuta, quella che rompe il silenzio e crea la bellezza del discorso, è pronunziata da Dio. A questo punto è di vitale importanza rispondere, pronunciare il sì all’adesione piena e totale . Con questo impegno personale la vita è trasformata, divenendo un dialogo vivo e continuo con Dio, che è Amore e a questo amore si risponde solo amando.
Salmo 23/24 - Ecco la generazione che cerca il tuo volto, Signore.
Del Signore è la terra e quanto contiene:
il mondo, con i suoi abitanti.
È lui che l’ha fondato sui mari
e sui fiumi l’ha stabilito.
Chi potrà salire il monte del Signore?
Chi potrà stare nel suo luogo santo?
Chi ha mani innocenti e cuore puro,
chi non si rivolge agli idoli.
Egli otterrà benedizione dal Signore,
giustizia da Dio sua salvezza.
Ecco la generazione che lo cerca,
che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.
Il salmo presenta il momento in cui Israele ritorna dell’esilio. Ora è consapevole, dopo la distruzione di Gerusalemme e del tempio, che per salire al tempio e per abitare alla sua ombra bisogna essere puri di cuore; il tempio non salva nessuno se non c’è la fedeltà alla legge.
Il Signore è di maestà infinita, e sua “è la terra e quanto contiene: il mondo, con i suoi abitanti”.
Dalla considerazione della grandezza e potenza di Dio parte l’esame delle qualità di chi andrà ad abitare all’ombra del tempio del Signore.
Il tempio è stato distrutto e un coro dice alle porte di ristabilire se stesse. Esse sono state distrutte, ma sono pure “eterne” (traduzione letterale), e perciò saranno rifatte.
Dalle porte del tempio, comprese quelle dell’atrio degli olocausti, entrerà il re della gloria a prendere dimora con la sua gloria nel tempio, nel santo dei santi.
E’ il Signore potente in battaglia, che vince i suoi nemici. “Il Signore degli eserciti” è il Signore delle schiere dei valorosi nella fede.
Il “sensus plenior" del salmo è per salire il monte santo, cioè giungere alla mensa Eucaristica, salire in un cammino d’iniziazione, alla partecipazione piena all’altare, e dimorare nella fede e nell’amore nella casa del Signore richiede rettitudine di vita. Occorre cercare colui che già si è fatto trovare; cercarlo per più conoscerlo e amarlo, in un tendere all’infinito a lui.
E i cieli sono aperti. Le porte del cielo ostruitesi per il peccato dell’uomo ora si sono riaperte. I cori angeli hanno proclamato: “Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria…”. Entri il “Signore valoroso in battaglia”, quella che ha condotto contro le tenebre lanciategli da Satana e i dolori della croce. “E’ il Signore degli eserciti il re della gloria”, il Signore delle schiere apostoliche della Chiesa, che porta la luce del vangelo ovunque.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Giovanni Apostolo
Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.
1Gv 3,1-3

La Prima lettera di Giovanni è una lettera tradizionalmente attribuita a Giovanni apostolo ed evangelista ed inclusa tra i libri del Nuovo Testamento (la quarta delle cosiddette “lettere cattoliche”). La lettera nella sua redazione finale dovrebbe essere stata scritta verso la fine del I secolo, probabilmente ad Efeso.
Nel II secolo, tra tutti gli scritti attribuiti a Giovanni, solo la "Prima lettera" era riconosciuta da tutte le chiese come "Sacra Scrittura“. I destinatari della lettera sono pagani delle comunità dell‘Asia Minore che si sono convertiti al Cristianesimo. Lo scopo che Giovanni si prefigge è quello di richiamare le comunità cristiane all’amore fraterno e di metterle in guardia verso i falsi maestri gnostici ed eretici, che negavano l’incarnazione di Gesù Cristo.
La seconda parte del capitolo 2 è dedicata agli ultimi tempi, che per l'autore della lettera sono ormai vicini. Egli parla di diversi anticristi, cioè di avversari del Signore che cercano di allontanare da lui i suoi fedeli. Essi però li hanno riconosciuti, alcuni facevano parte addirittura della loro comunità, e non sono caduti nei loro tranelli. Giovanni ricorda loro come distinguerli: negano che Gesù è il Cristo, negano che sia Figlio di Dio. I cristiani devono dunque rimanere fedeli a Lui e attendere con fiducia la sua parusia, cioè il suo ritorno nella gloria..
Questo brano, tratto dal 3^ capitolo, “Vivere da Figli di Dio”, leggiamo:
“Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.”
Chi ha aderito al Vangelo non può vacillare nel momento della prova perché è stato il destinatario di un amore grandissimo. Siamo figli di Dio! Questo titolo per noi oggi probabilmente ha perso forse un po' di significato, ma rimane sempre un'affermazione forte. Anche noi come i cristiani di allora siamo “chiamati figli di Dio” , ma il mondo non ci riconosce come tali perché non ha riconosciuto Dio. E' il paradosso dell'amore di Dio, che lascia libere le persone di riconoscerlo come il Signore del mondo e della vita.
“Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”.
In questo versetto c'è una tensione tra l'oggi e il futuro dei figli di Dio. Adesso è una situazione un po' nascosta, non si sa bene come saremo quando Cristo si manifesterà nella gloria. Una cosa sappiamo: saremo simili a Lui, ricolmi di gloria e di felicità perché lo vedremo faccia a faccia “così come egli è”. Questa anticipazione della gloria futura ci può bastare!
Il desiderio dei credenti è quello di vedere il Signore. La Sua gloria e la Sua bellezza ci investirà completamente e noi parteciperemo di questa Sua gloria.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
Mt 5,1-12 a

L’evangelista Matteo riunisce in un primo grande discorso gli insegnamenti di Gesù , presentando così un catechismo di iniziazione cristiana, opposto all’ideale religioso giudaico. C’era la legge, cioè l’insieme delle esigenze morali, religiose, culturali, personali e collettive che valeva per tutto il popolo di Dio e tutto questo Mosè l’aveva ricevuto sul Sinai. D’ora in poi c’è la nuova legge che Gesù dà sulla montagna come su un nuovo Sinai. Non toglie nulla alla legge di Mosè, ma la completa andando alla radice dei comportamenti umani. Gesù afferma che beati sono gli uomini e le donne poveri di spirito, beati i misericordiosi, gli afflitti, i miti, gli affamati di giustizia, i puri di cuore, i perseguitati a causa della giustizia ed anche coloro che sono insultati e perseguitati a causa del Suo nome.
Parole come queste non le aveva dette mai nessuno e i discepoli certo non le avevano mai udite sino a quel momento. E anche noi che le ascoltiamo oggi paiono davvero molto lontane, si ha come l’impressione di vedere il mondo alla rovescia, quasi agli antipodi di ciò che pensiamo, diciamo e facciamo.
Le beatitudini però non sono delle cose da fare, ma frutti di una scelta di vita che non è sforzo solo nostro, ma conseguenza dell’opera dello Spirito in noi. Solo lo Spirito ci può rendere miti, pacifici, puri di cuore, misericordiosi … Il nostro sforzo deve consistere nell’accogliere l’azione dello Spirito Santo in noi, di obbedire in tutto a Dio. Quanto riusciremo ad accogliere e seguire lo Spirito che elargisce i Suoi doni (fortezza, scienza, sapienza, intelletto, consiglio, pietà, timor di Dio) tanto saremo capaci di vivere le beatitudini. Capiremo così che le beatitudini sono la vita stessa di Gesù, Lui le ha vissute tutte. Per questo, il nostro aderire ad esse ci inserisce nella vita di Cristo, ci unisce più che mai a Lui. Il premio delle beatitudini è Dio stesso: è Lui la beatitudine vera, la felicità che non avrà mai fine.

 

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“La prima Lettura di oggi, dal Libro dell’Apocalisse, ci parla del cielo e ci pone davanti a «una moltitudine immensa», incalcolabile, «di ogni nazione, tribù, popolo e lingua». Sono i santi. Che cosa fanno “lassù”? Cantano insieme, lodano Dio con gioia. Sarebbe bello ascoltare il loro canto… Ma possiamo immaginarlo: sapete quando? Durante la Messa, quando cantiamo «Santo, santo, santo il Signore Dio dell’universo...». È un inno – dice la Bibbia – che viene dal cielo, che si canta là (cfr Is 6,3; Ap 4,8), un inno di lode. Allora, cantando il “Santo”, non solo pensiamo ai santi, ma facciamo quello che fanno loro: in quel momento, nella Messa, siamo uniti a loro più che mai.
E siamo uniti a tutti i santi: non solo a quelli più noti, del calendario, ma anche a quelli “della porta accanto”, ai nostri familiari e conoscenti che ora fanno parte di quella moltitudine immensa. Oggi allora è festa di famiglia. I santi sono vicini a noi, anzi sono i nostri fratelli e sorelle più veri. Ci capiscono, ci vogliono bene, sanno qual è il nostro vero bene, ci aiutano e ci attendono. Sono felici e ci vogliono felici con loro in paradiso.
Per questo ci invitano sulla via della felicità, indicata nel Vangelo odierno, tanto bello e conosciuto: «Beati i poveri in spirito […] Beati i miti […] Beati i puri di cuore…». Ma come? Il Vangelo dice beati i poveri, mentre il mondo dice beati i ricchi. Il Vangelo dice beati i miti, mentre il mondo dice beati i prepotenti. Il Vangelo dice beati i puri, mentre il mondo dice beati i furbi e i gaudenti. Questa via della beatitudine, della santità, sembra portare alla sconfitta. Eppure – ci ricorda ancora la prima Lettura – i santi tengono «rami di palma nelle mani», cioè i simboli della vittoria. Hanno vinto loro, non il mondo. E ci esortano a scegliere la loro parte, quella di Dio che è Santo.
Chiediamoci da che parte stiamo: quella del cielo o quella della terra? Viviamo per il Signore o per noi stessi, per la felicità eterna o per qualche appagamento ora? Domandiamoci: vogliamo davvero la santità? O ci accontentiamo di essere cristiani senza infamia e senza lode, che credono in Dio e stimano il prossimo ma senza esagerare? Il Signore «chiede tutto, e quello che offre è la vera vita - offre tutto -, la felicità per la quale siamo stati creati» (Esort. ap. Gaudete ed exultate , 1). Insomma, o santità o niente! Ci fa bene lasciarci provocare dai santi, che qua non hanno avuto mezze misure e da là “tifano” per noi, perché scegliamo Dio, l’umiltà, la mitezza, la misericordia, la purezza, perché ci appassioniamo al cielo piuttosto che alla terra.
Oggi i nostri fratelli e sorelle non ci chiedono di sentire un’altra volta un bel Vangelo, ma di metterlo in pratica, di incamminarci sulla via delle Beatitudini. Non si tratta di fare cose straordinarie, ma di seguire ogni giorno questa via che ci porta in cielo, ci porta in famiglia, ci porta a casa. Oggi quindi intravediamo il nostro futuro e festeggiamo quello per cui siamo nati: siamo nati per non morire mai più, siamo nati per godere la felicità di Dio! Il Signore ci incoraggia e a chi imbocca la via delle Beatitudini dice: «Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli» . La Santa Madre di Dio, Regina dei santi, ci aiuti a percorrere con decisione la strada della santità; lei, che è la Porta del cielo, introduca i nostri cari defunti nella famiglia celeste.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 1 novembre 2018


Commemorazione di tutti i fedeli defunti 2 novembre 2019

Dal libro di Giobbe
Rispondendo Giobbe prese a dire:
«Oh, se le mie parole si scrivessero,
se si fissassero in un libro,
fossero impresse con stilo di ferro e con piombo,
per sempre s’incidessero sulla roccia!
Io so che il mio redentore è vivo
e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!
Dopo che questa mia pelle sarà strappata via,
senza la mia carne, vedrò Dio.
Io lo vedrò, io stesso,
i miei occhi lo contempleranno e non un altro».
Gb 19,1.23-27a

Il Libro di Giobbe, composto da 42 capitoli, è stato scritto in ebraico dopo l’esilio probabilmente nel 5^ secolo a.C.. A quell’epoca il tempio era stato ricostruito (520-515 a.C. v.Esd 5-6) e le mura di Gerusalemme restaurate (445 a.C. V. Ne 2-4). Raggruppata e organizzata intorno ai loro capi la piccola comunità giudaica riprende vita. Le difficoltà però non mancano e si vedono riapparire le ingiustizie e le violenze di un tempo. I poveri, che rappresentano sovente la parte più religiosa del popolo, subiscono prepotenze ed angherie.
I profeti intervengono per rispondere agli infiniti interrogativi che il problema del male porta all’umanità che si chiede “Dov’è il Dio della giustizia?” (Ml 2,17) . Ed è questa la questione che solleva il libro di Giobbe: Perchè il male?. Ci troviamo in questo libro di fronte ad una ricerca drammatica sul senso dell'esistenza, sull'amore di Dio, e sulla fedeltà verso di Lui.
L’autore, rimasto anonimo, ambienta il suo racconto in un paese favoloso, anche per quel tempo, dell'Antico Medio Oriente. Il protagonista, Giobbe, è un uomo profondamente religioso, ma anche turbato dalla sua fede perchè non riesce più a coordinare le idee che aveva di un Dio giusto e buono con i fatti che gli capitano: prima era un uomo ricco e felice, e poi improvvisamente colpito dalla sventura, perde i figli, i beni, la salute, e non è neanche confortato dalla moglie, che lo scaccia anche da casa.
Nonostante le 4 disgrazie (è da notare il numero 4 che è il numero della terra), Giobbe reagisce, sa di essere innocente, non ha rinnegato mai i decreti di Dio, perciò si rivolge a Lui con una sola preghiera: “Ricordati… “ termine usato nelle preghiere di Israele per ricordare a Dio l’alleanza e quindi la fedeltà.
Il libro di Giobbe è anche un grande canto dell’uomo con tutte le sue lacerazioni, le sue ansie e le sue speranze. Giobbe è uno di quei grandi miti sui quali di continuo l’uomo va ridisegnando la mappa delle proprie interrogazioni per verificare i contorni della propria fede.
In questo brano, Giobbe è colpito sul vivo dalle parole ingiuriose di uno dei suoi amici (Bildad), ma non viene convinto dalle sue spiegazioni. Egli è sempre cosciente di essere oppresso ingiustamente. Perseguitato da Dio, condannato dagli uomini, egli sente però che Dio è dalla sua parte ed è sicuro che prima della sua morte o anche dopo la morte, l’Eterno si alzerà in giudizio al suo fianco come difensore e vendicatore e proclamerà davanti a tutti la sua innocenza.

Nota: nei versetti 25-27 il testo ebraico non era molto chiaro, la Vulgàta, traduzione in latino della Bibbia dall'antica versione greca ed ebraica, realizzata all'inizio del IV secolo da S.Girolamo, vi ha interpretato un atto di fede di Giobbe nella risurrezione.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.
A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione.
Rm 5,5-11

San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere nominati a Gerusalemme.
La Lettera ai Romani, che è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo, ed è anche la più lunga e più importante come contenuto teologico, è composta da 16 capitoli: i primi 11 contengono insegnamenti sull'importanza della fede in Gesù per la salvezza, contrapposta alla vanità delle opere della Legge; il seguito è composto da esortazioni morali. Paolo, in particolare, fornisce indicazioni di comportamento per i cristiani all'interno e all'esterno della loro comunità.
In questo brano, tratto dal capitolo 5, Paolo dopo aver sostenuto che di fronte alle dolorose tribolazioni della vita il credente è sorretto oltre che dalla fede, anche dalla speranza e dall’amore, ora parlando della speranza afferma: “la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”
La speranza non può deludere perché non si limita a provocare l’attesa delle realtà future, ma ne dà un’esperienza anticipata mediante l’amore che lo Spirito santo riversa nei cuori. Poi Paolo ricorda l’opera compiuta da Cristo per i credenti: “Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi”. Cristo dunque è morto per persone che non meritavano nulla, erano infatti “peccatori”. Con questo termine egli indica qui non i fratelli ancora legati all’osservanza delle norme rituali giudaiche (V. Rm 14,2),. ma coloro che sono sotto il dominio del peccato. Essi erano non solo deboli, ma anche “empi”, ma proprio per essi Cristo morì nel tempo stabilito.
L’Apostolo commenta quanto ha appena affermato mettendo in luce il carattere straordinario della morte di Cristo: “Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”.
A volte può capitare che un uomo sia disposto a morire per una persona giusta: ci sono casi, infatti, in cui la dedizione verso una persona amata (figlio, coniuge o amico) spinge fino al sacrificio della vita. Ma Cristo ha fatto una cosa che, umanamente parlando, è inconcepibile: egli è morto per noi proprio mentre eravamo ancora indegni e peccatori. E in questo gesto supremo si è manifestato l’amore di Dio per tutti noi.
Infine Paolo fa questa riflessione: “A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui”. Se Dio è giunto al punto di dimostrare mediante Cristo un amore così grande per noi quando eravamo ancora peccatori, a maggior ragione ora che siamo giustificati ci salverà per mezzo di Cristo dall’ira finale.
L’apostolo ripete poi lo stesso ragionamento introducendo il concetto di riconciliazione: “Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita”. Egli sottolinea dunque che Dio, riconciliandosi con noi mediante la morte di Cristo quando eravamo ancora nemici, non potrà non condurci alla salvezza finale ora che siamo stati riconciliati.
La riconciliazione rappresenta il primo passo verso la salvezza, che viene indicata con un verbo al futuro (saremo salvati): con esso l’apostolo vuole sottolineare che la salvezza definitiva, che consiste nell’incontro personale con Dio, è una realtà escatologica, ma al tempo stesso imminente, perché gli ultimi tempi sono già iniziati (V.Rm 13,11). Mentre la riconciliazione ha avuto luogo “per mezzo della morte del Figlio suo”, la salvezza finale si attuerà “mediante la sua vita”: la morte di Cristo ha messo dunque in moto un processo che Egli stesso, ormai vivo in forza della Sua risurrezione, porterà un giorno a compimento facendo sì che i credenti diventino partecipi della Sua nuova vita.
Infine Paolo conclude: Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione. In forza della riconciliazione così ottenuta, il credente può ora definitivamente “gloriarsi” in Dio.
E' decisamente una prospettiva al di là di ogni nostra possibile aspettativa, una condizione davvero felice per la quale non potevamo vantare alcun merito. Infatti il nostro gloriarci è per mezzo di Gesù Cristo che ci ha meritato questa pace con Dio, la riconciliazione, l'entrata in una vita davvero piena e libera.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno.
Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».
Gv 6,37-40

Questo brano tratto dal 6^ Capitolo del Vangelo di Giovanni, si colloca subito dopo il discorso di Gesù sul pane di vita. Precedentemente Gesù dopo aver moltiplicato i pani si era ritirato sulla montagna e poi aveva attraversato il lago. Ma la gente che lo voleva fare re lo seguì sull'altra sponda e allora egli tiene il famoso discorso sul pane di vita disceso dal cielo. Egli assicura di essere il vero pane, chi viene a lui non avrà più fame e chi crede in lui non avrà più sete. . Poi Gesù ritorna dai suoi discepoli, che nel frattempo erano risaliti in barca per tornare a Cafarnao, camminando sulle acqua del lago e ai loro timori risponde: “Sono io, non temete”. Quando poi alla folla, che per ritrovarlo attraversò il lago con le barche, Gesù dice: “voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati” . E poi Gesù introduce il discorso sul pane di vita. ..
“Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori,”
Coloro che seguono Gesù sono come dei doni che il Padre fa al Figlio. Egli li accoglie, non li getta fuori. Il verbo "gettare fuori" è quello utilizzato spesso da Matteo per indicare coloro che sono esclusi dal regno di Dio e dal banchetto delle nozze di suo Figlio (V. Mt 22,13).
“perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato”.
Già Isaia (55,10-11) affermava che la parola di Dio è simile a un messaggero che ritorna solo dopo aver compiuto la sua missione. Così anche Gesù è disceso dal cielo per fare la volontà del Padre,
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno.
Gesù dunque è venuto nel mondo per fare la volontà del Padre, e la volontà del Padre è che tutti siano salvi e risorgano dalla morte nell’ultimo giorno per la vita eterna. Esiste una fame di vita eterna, una fame di Dio! E c’è una pane di Dio, un cibo di vita eterna per colui che crede in Cristo! .

 

*****

 

“Ieri abbiamo celebrato la Solennità di tutti i Santi, e oggi la liturgia ci invita a commemorare i fedeli defunti. Queste due ricorrenze sono intimamente legate fra di loro, così come la gioia e le lacrime trovano in Gesù Cristo una sintesi che è fondamento della nostra fede e della nostra speranza. Da una parte, infatti, la Chiesa, pellegrina nella storia, si rallegra per l’intercessione dei Santi e dei Beati che la sostengono nella missione di annunciare il Vangelo; dall’altra, essa, come Gesù, condivide il pianto di chi soffre il distacco dalle persone care, e come Lui e grazie a Lui fa risuonare il ringraziamento al Padre che ci ha liberato dal dominio del peccato e della morte.
Tra ieri e oggi tanti fanno una visita al cimitero, che, come dice questa stessa parola, è il “luogo del riposo”, in attesa del risveglio finale. È bello pensare che sarà Gesù stesso a risvegliarci. Gesù stesso ha rivelato che la morte del corpo è come un sonno dal quale Lui ci risveglia. Con questa fede sostiamo – anche spiritualmente – presso le tombe dei nostri cari, di quanti ci hanno voluto bene e ci hanno fatto del bene. Ma oggi siamo chiamati a ricordare tutti, anche quelli che nessuno ricorda. Ricordiamo le vittime delle guerre e delle violenze; tanti “piccoli” del mondo schiacciati dalla fame e della miseria; ricordiamo gli anonimi che riposano nell’ossario comune. Ricordiamo i fratelli e le sorelle uccisi perché cristiani; e quanti hanno sacrificato la vita per servire gli altri. Affidiamo al Signore specialmente quanti ci hanno lasciato nel corso di quest’ultimo anno.
La tradizione della Chiesa ha sempre esortato a pregare per i defunti, in particolare offrendo per essi la Celebrazione eucaristica: essa è il miglior aiuto spirituale che noi possiamo dare alle loro anime, particolarmente a quelle più abbandonate. Il fondamento della preghiera di suffragio si trova nella comunione del Corpo Mistico. Come ribadisce il Concilio Vaticano II, «la Chiesa pellegrinante sulla terra, ben consapevole di questa comunione di tutto il Corpo Mistico di Gesù Cristo, fino dai primi tempi della religione cristiana ha coltivato con grande pietà la memoria dei defunti» (Lumen gentium, 50).
Il ricordo dei defunti, la cura dei sepolcri e i suffragi sono testimonianza di fiduciosa speranza, radicata nella certezza che la morte non è l’ultima parola sulla sorte umana, poiché l’uomo è destinato ad una vita senza limiti, che ha la sua radice e il suo compimento in Dio. A Dio rivolgiamo questa preghiera: «Dio di infinita misericordia, affidiamo alla tua immensa bontà quanti hanno lasciato questo mondo per l’eternità, dove tu attendi l’intera umanità, redenta dal sangue prezioso di Cristo, tuo Figlio, morto in riscatto per i nostri peccati. Non guardare, Signore, alle tante povertà, miserie e debolezze umane, quando ci presenteremo davanti al tuo tribunale, per essere giudicati per la felicità o la condanna. Volgi su di noi il tuo sguardo pietoso, che nasce dalla tenerezza del tuo cuore, e aiutaci a camminare sulla strada di una completa purificazione. Nessuno dei tuoi figli vada perduto nel fuoco eterno dell’inferno, dove non ci può essere più pentimento. Ti affidiamo Signore le anime dei nostri cari, delle persone che sono morte senza il conforto sacramentale, o non hanno avuto modo di pentirsi nemmeno al temine della loro vita. Nessun abbia da temere di incontrare Te, dopo il pellegrinaggio terreno, nella speranza di essere accolto nelle braccia della tua infinita misericordia. Sorella morte corporale ci trovi vigilanti nella preghiera e carichi di ogni bene fatto nel corso della nostra breve o lunga esistenza. Signore, niente ci allontani da Te su questa terra, ma tutto e tutti ci sostengano nell’ardente desiderio di riposare serenamente ed eternamente in Te. Amen» (P. Antonio Rungi, passionista, Preghiera dei defunti).
Con questa fede nel destino supremo dell’uomo, ci rivolgiamo ora alla Madonna, che ha patito sotto la Croce il dramma della morte di Cristo ed ha partecipato poi alla gioia della sua risurrezione. Ci aiuti Lei, Porta del cielo, a comprendere sempre più il valore della preghiera di suffragio per i defunti. Loro ci sono vicini! Ci sostenga nel quotidiano pellegrinaggio sulla terra e ci aiuti a non perdere mai di vista la meta ultima della vita che è il Paradiso. E noi con questa speranza che non delude mai, andiamo avanti!”
Papa Francesco Omelia del 2 Novembre 2018

Le letture liturgiche di questa domenica hanno ancora come tema la preghiera, ma la prospettiva è differente. Lo sguardo è proiettato sul modo di pregare; modo che diventa determinante nel rapporto con Dio, con se stessi e con gli altri.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del Siracide, si afferma che la preghiera umile e perseverante di chi si riconosce piccolo e povero, fa dolce violenza al cuore di Dio: “Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone”.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo terminando la sua seconda lettera a Timoteo, vede la sua esistenza come una “offerta”, simile cioè al vino o all’olio versati sulle vittime destinate all’olocausto. Egli si offre a Dio convinto di aver adempiuto la sua missione, e attende con fiducia il premio.
Nel Vangelo di Luca, la parabola del fariseo e del pubblicano nel tempio insegna il giusto modo di pregare. Nella vita possiamo dire che siamo a volte un po’ farisei e un po’ pubblicani e su questo P.Cantalamessa ha giustamente commentato: “Se proprio dobbiamo rassegnarci ad essere un po’ l’uno e un po’ l’altro, allora che sia almeno il rovescio: farisei nella vita e pubblicani al tempio! Come il fariseo, cerchiamo nella vita di ogni giorno, di non essere ladri, ingiusti e adulteri, di osservare meglio i comandamenti di Dio; come il pubblicano, riconosciamo quando siamo al cospetto di Dio, che quel poco che abbiamo fatto è tutto dono suo e imploriamo, per noi e per tutti, la sua misericordia.”

Dal libro del Siracide
Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone.
Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell'oppresso.
Non trascura la supplica dell'orfano né la vedova, quando si sfoga nel lamento.
Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi.
La preghiera del povero attraversa le nubi, né si quieta finché non sia arrivata;
non desiste finché l'Altissimo non sia intervenuto,
e abbia reso soddisfazione ai giustie ristabilito l'equità.
Sir 35,15b – 17.20-22a

Il libro del Siracide è un libro un po’ particolare perché fa parte della Bibbia cristiana, ma non figura nel canone ebraico. Si tratta di un testo deuterocanonico che, assieme ai libri di Rut, Tobia, Maccabei I e II, Giuditta, Sapienza e le parti greche del libro di Ester e di Daniele, è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, per cui è stato accolto dalla Chiesa Cattolica, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo . È stato scritto originariamente in ebraico a Gerusalemme attorno al 196-175 a.C. da Yehoshua ben Sira (tradotto "Gesù figlio di Sirach", da qui il nome del libro "Siracide"), un giudeo di Gerusalemme, in seguito fu tradotto in greco dal nipote poco dopo il 132 a.C. .
È composto da 51 capitoli con vari detti di genere sapienziale, sintesi della religione ebraica tradizionale e della sapienza comune. Benché non sia stato accolto nel canone ebraico, il Siracide è citato frequentemente negli scritti rabbinici; nel Nuovo Testamento la lettera di Giacomo vi attinge molte espressioni, ed anche la saggezza popolare fa proprie alcune massime.
Nel prologo l'anonimo nipote dell'autore spiega che tradusse il libro quando si trovava a soggiornare ad Alessandria d’Egitto, nel 38° anno del regno Tolomeo VIII, che regnò in Egitto a più riprese a partire dal 132 a.C..
In questo brano la prima parte riporta una massima che riguarda il potere del giudizio di Dio: Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. In quanto giudice Dio non fa preferenza di persone e questa imparzialità si manifesta soprattutto nel rapporto con le categorie più disagiate, verso le quali è facile commettere soprusi: Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell'oppresso. Non trascura la supplica dell'orfano né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Nella categoria degli sfruttati ci sono in primo piano le vedove e gli orfani e nei loro confronti è facile che i giudici umani commettano ingiustizie. Ma Dio è dalla loro parte e li difende nei confronti di coloro che li opprimono.
Dopo le massime riguardanti Dio come giudice, Siracide presenta l’efficacia della preghiera rivolta a Dio : Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi. La preghiera del povero attraversa le nubi, né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l'Altissimo non sia intervenuto, e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l'equità. È soprattutto la preghiera di coloro che sono discriminati e oppressi che giunge direttamente a Dio ed è talmente insistente da provocare il Suo intervento. Il povero è qui identificato con il giusto, cioè la persona innocente, quello che non si è macchiato di soprusi e ingiustizie, per cui Dio non lo abbandona a se stesso, ma interviene per fargli giustizia.
I fatti che ogni giorno accadono sembrano smentire questa affermazione che può sembrare anche ingenua, tuttavia bisogna riconoscere che, pur credendo che Dio agisce potentemente nelle vicende di questo mondo, noi non possiamo umanamente conoscere i sistemi che usa quando interviene. Solo in base alla fede si può affermare che Dio è dalla parte degli ultimi e lo si può dimostrare nella misura in cui noi siamo disponibili a impegnarci fino in fondo in loro favore. L’amore di Dio verso gli ultimi si manifesta soprattutto nel comportamento concreto di quanti credono in Lui.

Salmo 33 - Il povero grida e il Signore lo ascolta

Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore,
I poveri ascoltino e si rallegrino.

Il volto del Signore contro i malfattori
per eliminarne dalla terra il ricordo.
Gridano e il Signore li ascolta,
li libera da tutte le loro angosce.

Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato,
egli salva gli spiriti affranti.
Il Signore riscatta la vita dei suoi servi,
non sarà condannato chi in lui si rifugia.

L’autore del salmo, ricco dell’esperienza di Dio indirizza il suo sapere ai poveri, agli umili, e in particolare ai suoi figli. Egli afferma che sempre benedirà il Signore e che sempre si glorierà di lui. Egli chiede di venire ascoltato e invita gli umili ad unirsi con lui nel celebrare il Signore: “Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome”.
Egli comunica la sua storia dicendo che ha cercato il Signore e ne ha ricevuto risposta cosicché “da ogni timore mi ha liberato”. Per questo invita gli umili a guardare con fiducia a Dio, e dice: “sarete raggianti”. “Questo povero”, cioè il vero povero, quello che è umile, è ascoltato dal Signore e l’angelo del Signore lo protegge dagli assalti dei nemici: “L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono (Dio), e li libera”. L’angelo del Signore è con tutta probabilità l’angelo protettore del popolo di Dio, chiamato così per antonomasia; sarebbe l’arcangelo Michele (Cf. Es 14,19; 23,23; 32,34; Nm 22,22; Dn 10,21; 12,1).
Il salmista continua la sua composizione invitando ad amare Dio dal quale procede gioia e pace: “Gustate e vedete com'è buono il Signore, beato l’uomo che in lui si rifugia”.
L’orante moltiplica i suoi inviti al bene: “Sta lontano dal male e fa' il bene, cerca e persegui la pace”. Cercala, cioè trovala in Dio, e perseguila comportandoti rettamente con gli altri.
Il salmista non nasconde che il giusto è raggiunto da molti mali, ma dice che “da tutti lo libera il Signore”. Anche dalle angosce della morte, poiché “custodisce tutte le tue ossa, neppure uno sarà spezzato”. Queste parole sono avverate nel Cristo, come dice il Vangelo di Giovanni (19,16). Per noi vanno interpretate nel senso che se anche gli empi possono prevalere fino ad uccidere il giusto e farne scempio, le sue ossa sono al riparo perché risorgeranno.
Commento ” di P.Paolo Berti

Dal seconda lettera di S.Paolo apostolo a Timoteo
Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.
Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.
Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
2Tm 4,6-8, 16-18

Paolo nel terminare la sua lettera a Timoteo volge lo sguardo al passato: io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Riguardo al suo passato, Paolo descrive la sua vita apostolica come una battaglia e come una competizione sportiva paragonando l'impegno e il rischio della sua missione alle gare nello stadio. Lo sguardo si volge poi al futuro, con il ricorso nuovamente alle immagini delle gare sportive: Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. Per l’ambiente greco al vincitore di una gara spettava la corona di alloro, premio carico di significati come onore, gioia, immortalità e trionfo. Alla corona qui invece segue “di giustizia”: non si tratta dunque di un riconoscimento umano, ma di quello che viene da Dio.
Nella seconda parte del brano Paolo ritorna sulla sua situazione attuale:. Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. In questo sfogo si sente il rammarico per l’abbandono da parte dei suoi, ma verso di loro Paolo ha parole di perdono. È difficile sapere se si tratta di un ricordo storico o del semplice motivo dell’abbandono dai suoi amici, come era stato per Gesù. La solitudine di Paolo però è riempita dalla vicinanza del Signore: Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Paolo è consapevole che solo con la grazia di Dio ha potuto portare a termine la sua missione. Questo risultato è espresso con l’immagine della lotta vittoriosa dei gladiatori contro i leoni nel circo. Non si tratta però di una vittoria umana, bensì del successo dell’opera di evangelizzazione, che può benissimo coesistere con l’imminente martirio. L’esperienza del conforto che gli viene dal Signore apre infine il cuore alla speranza: “Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen”. La liberazione a cui tende l’Apostolo non è più quella che si attua in questo mondo, ma quella che consiste nell’ingresso nel regno dei cieli, quando l’anima si ricongiunge definitivamente con Dio.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di esser giusti e disprezzavano gli altri:
“Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio perchè non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore.
Io vi dico: questi a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato e chi invece si umilia sarà esaltato”.
Lc 18, 9-14

In questo brano del Vangelo di Luca, troviamo la celebre parabola, del fariseo e del pubblicano, che ancora una volta è solo l’evangelista Luca a riferirci e che idealmente continua la lezione sulla preghiera introdotta da Gesù la scorsa domenica con la parabola del giudice iniquo e della vedova.
Luca introduce il brano precisando che:
“Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di esser giusti e disprezzavano gli altri:” E’ chiaro il riferimento ai farisei, i quali si distinguevano per un’osservanza rigorosa dei comandamenti e si tenevano separati dagli altri. Tra i più discriminati erano i pubblicani, i quali erano oggetto di critica in modo particolare perché erano a contatto con i pagani e per questo venivano considerati impuri. Il racconto ci presenta subito i personaggi appartenenti a queste due categorie:
“Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano”
Sono ambedue giudei praticanti, che si recano regolarmente al tempio per pregare.
Viene per primo descritto l’atteggiamento del fariseo: “Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il modo di fare del fariseo in apparenza è normale, sia per la posizione del corpo, sia per il contenuto della preghiera. Comincia con il ringraziamento: “O Dio ti ringrazio ……” ma continua poi con l’elenco delle proprie buone azioni, che sono anche più numerose di quanto prescriveva la stessa legge ebraica. Era prescritto infatti il digiuno una volta l’anno, ma lui digiunava ben due volte la settimana; la decima doveva pagarsi solo per i prodotti più importanti della terra, ma lui la paga addirittura per tutti senza distinzione!.
Il suo ringraziamento però è in realtà una esaltazione di se stesso e disprezzo degli altri uomini, che considera come “ladri, ingiusti e adulteri”; la sua arroganza arriva al punto di citare espressamente tra costoro il pubblicano che era salito con lui al tempio..
A distanza dal fariseo e dalle prime file degli uomini ‘buoni e pii’, in fondo al tempio, il pubblicano mormora la sua preghiera. La sua condizione di peccatore lo rende come colui che non può guardare il cielo, secondo l’uso comune della preghiera israelita, perché il peso dei peccati sembra schiacciarlo.
La sua preghiera è silenziosa e molto breve: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Si può notare che Egli non promette, come Zaccheo (Lc 19,8) di cambiar vita, non promette proprio nulla al Signore, però a differenza del Fariseo, che può elencare i suoi meriti, egli non elenca le sue colpe, non passa in rassegna le sue azioni. A differenza del fariseo il suo pensiero è rivolto solo a Dio, non agli altri, tanto è vero che non si accorge neanche della presenza del fariseo che è ben in vista, in piedi nelle prime file del tempio.
Il racconto termina con un commento di Gesù:
“Io vi dico: questi a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato e chi invece si umilia sarà esaltato”.
E’ evidente la provocazione che Gesù fa al perbenismo dei suoi ascoltatori perché, come modello degno di esempio, egli presenta un individuo considerato spregevole nell’opinione pubblica.
Gesù comunque non vuole certo dire che tutti i farisei e tutti i pubblicani siano come i due protagonisti della parabola, ma presenta costoro come rappresentanti tipici della categoria a cui appartengono.
Nella parabola il fariseo rispecchia una religiosità distorta, perché crede di potersi vantare dinanzi a Dio per la sua osservanza scrupolosa della legge, e il suo ringraziamento è solo apparente.
Il pubblicano rappresenta invece l’uomo che si mette di fronte a Dio nella sua situazione reale di creatura limitata e peccatrice, si abbandona a Lui e attende unicamente da Lui la salvezza.
Questa parabola ci riguarda molto da vicino perché dobbiamo riconoscere che abbiamo in noi un po’ dell’atteggiamento del fariseo e a volte del pubblicano, ma se proprio dobbiamo rassegnarci ad essere un po’ l’uno e un po’ l’altro, come commentava bene P.Cantalamessa, cerchiamo però di essere farisei nella vita e pubblicani al tempio! Come il fariseo cerchiamo nella vita di ogni giorno, di non essere ladri, ingiusti, ed adulteri, come il pubblicano, quando siamo al cospetto di Dio, riconosciamoci peccatori e che quel poco che abbiamo fatto è tutto dono suo.

 

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“… Entrambi i protagonisti di questa parabola salgono al tempio per pregare, ma agiscono in modi molto differenti, ottenendo risultati opposti. Il fariseo prega «stando in piedi» e usa molte parole. La sua è, sì, una preghiera di ringraziamento rivolta a Dio, ma in realtà è uno sfoggio dei propri meriti, con senso di superiorità verso gli «altri uomini», qualificati come «ladri, ingiusti, adulteri», come, ad esempio – e segnala l’altro che era lì – «questo pubblicano». Ma proprio qui è il problema: quel fariseo prega Dio, ma in verità guarda a sé stesso, prega se stesso invece di avere davanti gli occhi il Signore, ha uno specchio…. Insomma, più che pregare, il fariseo si compiace della propria osservanza dei precetti. … Insomma, quel fariseo, che si ritiene giusto, trascura il comandamento più importante: l’amore per Dio e per il prossimo. Non basta dunque domandarci quanto preghiamo, dobbiamo anche chiederci come preghiamo, o meglio, com’è il nostro cuore: è importante esaminarlo per valutare i pensieri, i sentimenti, ed estirpare arroganza e ipocrisia. Ma, io domando: si può pregare con arroganza? No. Si può pregare con ipocrisia? No, Dobbiamo pregare davanti a Dio come siamo, ma questo pregava con arroganza e ipocrisia …
Il pubblicano invece si presenta nel tempio con animo umile, con animo pentito: «fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto». La sua preghiera è brevissima, non è così lunga come quella del fariseo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». … Infatti, gli esattori delle tasse – detti appunto, “pubblicani” – erano considerati persone impure, sottomesse ai dominatori stranieri, erano malvisti dalla gente e in genere associati ai “peccatori”…. I gesti di penitenza e le poche e semplici parole del pubblicano testimoniano la sua consapevolezza circa la sua misera condizione. La sua preghiera è essenziale. Agisce da umile, sicuro solo di essere un peccatore bisognoso di pietà. Se il fariseo non chiedeva nulla perché aveva già tutto, il pubblicano può solo mendicare la misericordia di Dio. …
Gesù conclude la parabola con una sentenza: «Io vi dico: questi – cioè il pubblicano –, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato». …La superbia compromette ogni azione buona, svuota la preghiera, allontana da Dio e dagli altri. Se Dio predilige l’umiltà non è per avvilirci: l’umiltà è piuttosto la condizione necessaria per essere rialzati da Lui, così da sperimentare la misericordia che viene a colmare i nostri vuoti. Se la preghiera del superbo non raggiunge il cuore di Dio, l’umiltà del misero lo spalanca. Dio ha una debolezza: la debolezza per gli umili, davanti a un cuore umile Dio apre il suo cuore totalmente."
Papa Francesco Stralcio della Catechesi del 1 giugno 2016

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