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In questa domenica in cui ricordiamo la giornata missionaria mondiale in cui viene rinnovata la chiamata ad essere discepoli-missionari, le letture che la Liturgia ci propone ci parlano della salvezza di Dio nei confronti del suo popolo e di ciascuno di noi.
Nella prima lettura, il profeta Geremia racconta la sollecitudine di Dio per il popolo d’Israele esiliato a Babilonia. Il profeta pronuncia un oracolo di consolazione per gli esiliati, e annuncia il cambiamento dalla schiavitù alla libertà, dalle lacrime alla gioia. Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, il sacerdozio di Cristo è il tema su cui riflette l’autore: essendo vero uomo e Figlio di Dio, Gesù possiede in modo eminente tutte le qualità del vero sacerdote. inviato dal padre per dissipare le tenebre e rischiarare la via, egli è il mediatore perfetto tra la fragile umanità e la grandezza di Dio
Nel Vangelo di Marco, ci racconta la guarigione di Bartimeo (è raro che i Vangeli ci riportano i nomi dei miracolati) avvenuta poco prima che Gesù salisse a Gerusalemme per essere arrestato, condannato e messo a morte, ottenuta la vista il cieco vuole seguire Gesù. La sua storia diventa così la narrazione spirituale di una vocazione alla fede e al discepolato. In questo senso la vicenda di Bartimeo è aperta e possibile a tutti noi.
In questa Giornata missionaria Papa Francesco ci ricorda che Dio, nella Pasqua di Gesù, fa proprie le gioie, le sofferenze, i desideri, le angosce dell’umanità “vuole stabilire con ogni persona, lì dove si trova, un dialogo di amicizia”.

Dal libro del profeta Geremia
Così dice il Signore:
«Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni,
fate udire la vostra lode e dite:
“Il Signore ha salvato il suo popolo,
il resto d’Israele”.
Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione
e li raduno dalle estremità della terra;
fra loro sono il cieco e lo zoppo,
la donna incinta e la partoriente:
ritorneranno qui in gran folla.
Erano partiti nel pianto,
io li riporterò tra le consolazioni;
li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua
per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele,
Èfraim è il mio primogenito».
Ger 31,7-9

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico.
Geremia, profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù, rimane per il suo popolo, e per tutti i cristiani, un testimone della speranza. Egli è pure l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà.
In questo brano tratto dal libro della consolazione, si sente tutta l’esplosione di felicità di Geremia che finalmente può abbandonare il tono doloroso e mesto dei suoi messaggi di sciagure per annunciare la gioia. E’ a nome del Signore che si rivolge al popolo in esilio per dire: “Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: “Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”. Il resto non sono più gli scampati alla deportazione, ma quel piccolo nucleo di esiliati che Dio raccoglie per continuare la storia della salvezza. Il loro ritorno in patria è opera di Dio, salvezza di Dio, per coloro che sono rimasti a Lui fedeli. E’ il Signore che ora parla tramite lui per dire: “Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla”.
Questo popolo passato attraverso le angosce dell’esilio e della persecuzione è composto di ciechi, zoppi, donne incinte e partorienti, che hanno in comune la difficoltà a camminare e non sono nelle condizioni ideali per compiere un viaggio.
“Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele, Èfraim è il mio primogenito”.
Israele è il nome dato a Giacobbe durante il suo ritorno dalla Mesopotamia e qui la parola Israele sta a significare tutti i discendenti di Giacobbe-Israele. Èfraim è il secondo figlio di Giuseppe e quindi è nipote; in più la tribù di Èfraim è la più piccola di tutte le tribù. Ma l'amore di Dio abbraccia anche lui: anzi, lo abbraccia con predilezione: quando dice: Èfraim è il mio primogenito!
Le parole consolanti di Geremia ci debbono far pensare che la storia di questi esiliati, dei più piccoli, spesso dimenticati, è la nostra storia. Chi si allontana dal Signore fa l'esperienza del pianto, ma il cammino del ritorno, pur impegnativo e disseminato di difficoltà, è ricco di soddisfazioni che Dio promette di farci incontrare, come tante sorgenti di acqua nel deserto, e la strada sarà dritta e senza inciampi. Possiamo sentirci tutti “Efraim e suoi primogeniti!”

Salmo 125 - Grandi cose ha fatto il Signore per noi.

Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.

Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.

Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.

Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni.

Questo salmo era usato per i pellegrinaggi annuali a Gerusalemme. Probabilmente venne scritto dopo la ricostruzione del tempio e delle mura di Gerusalemme al tempo del ritorno dall'esilio; infatti la grande gioia alla notizia che “Andremo alla casa del Signore”, presuppone un fatto straordinario, lungamente atteso, e non uno dei tre pellegrinaggi annuali prescritti dalla legge (Es 23,17; 34,23).
Lo stupore di fronte alla compattezza che presenta la città si apre alla lode di Dio: “Gerusalemme è costruita come città unita e compatta”.
La città viene celebrata come il centro dell'unità religiosa per la presenza del tempio e come centro del governo civile: “E' là che salgono le tribù, le tribù del Signore (...) per lodare il nome del Signore. Là sono posti i troni del giudizio, i troni della casa di Davide”: benché politicamente non autonoma Gerusalemme è retta dalle leggi di Israele; la menzione di Davide dice che per l'Israelita Gerusalemme rimane legata a Davide, e quindi al futuro Messia.
Il salmista non manca di rivolgersi ai pellegrini invitandoli a pregare: “Chiedete pace per Gerusalemme”; e invoca pace su quanti la amano, cioè su quanti credono nel disegno di Dio su Gerusalemme. La pace invocata è quella che verrà portata dal Principe della pace.
A Gerusalemme si è formata la prima Chiesa particolare, che è stata la madre delle altre Chiese particolari, poiché il Vangelo è partito dalla comunità di Gerusalemme. Ma tutte le Chiese particolari, compresa quella di Gerusalemme, formano e sussistono nell'unica Chiesa di Cristo, che ha come vincolo di unità il successore di Pietro.
Il pellegrinaggio dei popoli, delle dodici tribù della terra, trova il suo gioioso approdo alle “porte” della Gerusalemme messianica, pronta ad accogliere tutte le genti. La Gerusalemme messianica è la “civitas cristiana”, che ha come costitutivo fondante la Chiesa (Cf. Ap 21,9s).
Per la “civitas cristiana”, o società dell'amore, bisogna sempre pregare perché tragga costantemente dal Cristo la sua pace e la diffonda estendendosi a tutta la terra.
Il pellegrinaggio, tuttavia, non è cessato perché terminerà solo con l'ingresso nella Gerusalemme celeste.
Lo stupore di potere andare nella “casa del Signore” i cristiani lo hanno avuto nell'erezione delle prime basiliche a Roma, dopo le ondate di persecuzione per annullare la Chiesa.
Il primo stupore di fronte alla Gerusalemme messianica, o civiltà dell'amore, i cristiani lo hanno avuto quanto hanno visto il potere politico di Roma aprirsi a Cristo e alla Chiesa.
Ora il potere politico delle nazioni si sta sempre più chiudendo alla Chiesa, ma non si annullerà il germe della “civitas cristiana”; verrà infatti il giorno in cui su tutta la terra fiorirà la civiltà della verità e dell'amore.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera agli Ebrei
Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati.
Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo.
Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse:
«Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo:
«Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek».
Eb 5,1-6

Questo brano della lettera agli Ebrei segue immediatamente quello trattato nella XXIX domenica per continuare il tema su Cristo sommo sacerdote. L’argomento era decisamente molto importante per quegli ebrei che erano passati al cristianesimo perché fa comprendere loro la superiorità della fede in Cristo rispetto alla religione ebraica. Al tempo stesso la fede e il culto dell'antico Israele hanno molta importanza poiché sono l'ambiente in cui il popolo di Dio si è preparato all'avvento di Gesù, il Figlio di Dio.
L’autore inizia facendo un paragone tra Gesù e i sommi sacerdoti di Israele: “Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati.”
Il sommo sacerdote è scelto tra gli uomini per le cose che riguardano Dio. Offre sacrifici per i peccati, cioè immola gli animali offerti per ottenere il perdono dei peccati.
“Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza.” Il sommo sacerdote è veramente tale perchè sente compassione nei confronti degli altri uomini per i quali offre i sacrifici. Sa che tanti peccati si compiono per ignoranza, non per malvagità. Anch'egli rimane un uomo ed è partecipe della debolezza dei suoi simili. Questo particolare della compassione del sommo sacerdote non è tratta dai testi biblici, sembra piuttosto una qualità inserita dall'autore per preparare la figura di Cristo, di cui il tratto più importante è appunto la compassione.
“A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo”.
Proprio perché rimane un uomo egli deve offrire i sacrifici anche per i propri peccati, purificare le proprie mani affinché la sua offerta sia sempre gradita a Dio.
“Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne.”
La funzione di sommo sacerdote è comunque un dono, il frutto di una scelta divina. Anche questo anticipa la totale gratuità dell'elezione di Gesù, il quale non faceva nemmeno parte della tribù di Levi, l'unica stirpe di Israele da cui potevano provenire i sacerdoti.
“Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì “. Da qui comincia la presentazione di Cristo come sommo sacerdote. Anch'egli non si arrogò il diritto di essere sommo sacerdote poiché Dio stesso gli ha conferito questa gloria. L'autore cita il salmo 110 per ricordare che Cristo è il figlio di Dio: “come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek».”
La citazione del salmo 110 continua con l'investitura di Cristo. Egli è sacerdote non secondo l'ordine di Aronne, poiché non fa parte della discendenza di Levi. Il suo sacerdozio è ben più antico, poiché risale a Melchìsedek, il misterioso re-sacerdote che si incontra al cap. 14 della Genesi, e di lui si dice che era re di Salem (il nome più antico di Gerusalemme) sacerdote del Dio altissimo e che offrì ad Abramo pane e vino, doni votivi in segno di devozione.
Non si conosce la genealogia di Melchìsedek e proprio per questo rappresenta bene la condizione del Figlio di Dio fatto uomo e anche dei sacerdoti della Nuova Alleanza, che diventano tali perché chiamati da Dio e non per eredità di nascita.
Il sacerdozio nella Chiesa non si configura come una posizione sociale a cui aspirare, ma come una chiamata a cui rispondere quando la si accetta e di cui rispondere dopo che la si è esercitata. Teniamo presente che il sacerdote cristiano non si sostituisce a Cristo, ma bensì lo rappresenta.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!».
Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose:
«Rabbunì, che io veda di nuovo!».
E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
Mc 10, 46-52


Questo brano del Vangelo di Marco riporta l'ultimo miracolo che Gesù compie durante il suo viaggio verso Gerusalemme. Il racconto inizia riportando che “mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare.”
Alla fine del suo viaggio verso Gerusalemme Gesù giunge finalmente a Gerico, la città più antica del mondo, collocata in un’oasi di tre chilometri di diametro posta nella valle del Giordano, a quasi 300 metri sotto il livello del mare. Non si conosce nulla circa l’itinerario da Lui percorso, ma da quanto accennato precedentemente (v. 10,1.32) sembra che vi sia arrivato dopo aver percorso la Perea, cioè movendosi al di fuori del territorio palestinese. Gesù è circondato dai discepoli e dalla folla. Non si sa neppure che cosa abbia fatto a Gerico, se non che, mentre ormai sta per lasciare la città, si imbatte in Bartimeo, un mendicante cieco (non si sa se dalla nascita) che siede lungo la via.
La reazione del cieco è così descritta: “Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!»”. Il suo grido di aiuto rappresenta un estremo tentativo di liberarsi dalla situazione disperata in cui si trova. Egli dà a Gesù il titolo di “Figlio di Davide”ed è la prima volta che Marco cita il nome di Davide, lo citerà ancora in 11,10 2 in 12,35-37.
E’ chiaro comunque che il figlio di Davide, a cui qui ci si riferisce è il messia atteso dai giudei (2Sam 7,12). Bartimeo fa dunque una professione di fede messianica, simile alla professione di fede di Pietro (8,29).In questa invocazione di aiuto il cieco non chiede nulla di particolare, ma solo una manifestazione della misericordia di Dio attraverso il suo inviato.
L’intervento del cieco è visto dai vicini con un certo fastidio, infatti l’evangelista annota che “Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me”.
E alla fine è Gesù stesso che prende l’iniziativa, infatti: “Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù”. La folla, che prima come un muro separava il cieco da Gesù, gli trasmette ora il suo ordine di andare da Lui, anzi addirittura lo incoraggia.
Il fatto che il cieco risponda con prontezza all’invito è un altro particolare per indicare la sua fede e la sua disponibilità.
Il gesto di sbarazzarsi del mantello ha un valore simbolica: per il povero questo rappresentava un bene irrinunciabile che, quand’anche fosse stato dato in pegno, doveva essergli restituito alla sera perché gli fosse possibile difendersi dal freddo (V. Es 22,25). Buttarlo via significa quindi abbandonare le proprie sicurezze e riporre solo in Gesù la propria fiducia.
Il dialogo tra Gesù e il cieco viene così riportato: “Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato»”
Era chiaro che il cieco chiedesse il dono della vista, ma Gesù gli chiede di formulare chiaramente la sua richiesta per mettere in luce ancora una volta la sua fede. Il cieco nel rispondere a Gesù lo chiama rabbunì, “maestro mio”, usa certamente un modo affettuoso di rivolgersi al Maestro, altrimenti avrebbe usato il termine più formale e rispettoso di Rabbì. La richiesta espressa dal cieco di riavere la vista mette nuovamente in luce la sua fede nelle capacità soprannaturali di Gesù. La risposta di Gesù è però molto più ampia e, facendo riferimento espressamente alla sua fede, afferma che questa lo ha “salvato”.
Non si tratta dunque della semplice guarigione fisica, ma di una liberazione interiore dal peccato: in altre parole la guarigione fisica, che ora Gesù gli dà, simboleggia il nuovo rapporto che Dio, per mezzo Suo, stabilisce con lui. Il racconto termina con l’immagine del cieco che, ormai guarito, segue Gesù lungo la strada .
Bartimeo diventa così il simbolo dei discepoli che, ormai guariti dalla loro cecità, si mettono al seguito del Maestro nella strada che porta a Gerusalemme, verso il Suo destino di morte e di gloria.
La storia di un miracolo fisico diventa così la narrazione spirituale di una vocazione alla fede e al discepolato. In questo senso la vicenda di Bartimeo è aperta e possibile a tutti noi, anche se i nostri occhi fisici sono limpidi e la nostra vista nitida. Si tratta, infatti, della rappresentazione di un’illuminazione totale che penetra negli angoli remoti dell’esistenza.
Una volta guarito il credente non deve più restare ai margini della strada, immerso nella sua tristezza quotidiana e nella sua oscurità, si alza e segue il suo Signore e Salvatore.

*****

“L’episodio che abbiamo ascoltato è l’ultimo che l’evangelista Marco narra del ministero itinerante di Gesù, il quale poco dopo entrerà a Gerusalemme per morire e risorgere. Bartimeo è così l’ultimo a seguire Gesù lungo la via: da mendicante ai bordi della strada a Gerico, diventa discepolo che va insieme agli altri verso Gerusalemme. Anche noi abbiamo camminato insieme, abbiamo “fatto sinodo” e ora questo Vangelo suggella tre passi fondamentali per il cammino della fede.
Anzitutto guardiamo a Bartimeo: il suo nome significa “figlio di Timeo”. E il testo lo specifica: «il figlio di Timeo, Bartimeo» . Ma, mentre il Vangelo lo ribadisce, emerge un paradosso: il padre è assente. Bartimeo giace solo lungo la strada, fuori casa e senza padre: non è amato, ma abbandonato. È cieco e non ha chi lo ascolti; e quando voleva parlare lo facevano tacere. Gesù ascolta il suo grido. E quando lo incontra lo lascia parlare. Non era difficile intuire che cosa avrebbe chiesto Bartimeo: è evidente che un cieco voglia avere o riavere la vista. Ma Gesù non è sbrigativo, dà tempo all’ascolto.
Ecco il primo passo per aiutare il cammino della fede: ascoltare. È l’apostolato dell’orecchio: ascoltare, prima di parlare.
Al contrario, molti di quelli che stavano con Gesù rimproveravano Bartimeo perché tacesse . Per questi discepoli il bisognoso era un disturbo sul cammino, un imprevisto nel programma prestabilito. Preferivano i loro tempi a quelli del Maestro, le loro parole all’ascolto degli altri: seguivano Gesù, ma avevano in mente i loro progetti. È un rischio da cui guardarsi sempre. Per Gesù, invece, il grido di chi chiede aiuto non è un disturbo che intralcia il cammino, ma una domanda vitale. Quant’è importante per noi ascoltare la vita! I figli del Padre celeste prestano ascolto ai fratelli: non alle chiacchiere inutili, ma ai bisogni del prossimo. Ascoltare con amore, con pazienza, come fa Dio con noi, con le nostre preghiere spesso ripetitive. Dio non si stanca mai, gioisce sempre quando lo cerchiamo. Chiediamo anche noi la grazia di un cuore docile all’ascolto. Vorrei dire ai giovani, a nome di tutti noi adulti: scusateci se spesso non vi abbiamo dato ascolto; se, anziché aprirvi il cuore, vi abbiamo riempito le orecchie. Come Chiesa di Gesù desideriamo metterci in vostro ascolto con amore, certi di due cose: che la vostra vita è preziosa per Dio, perché Dio è giovane e ama i giovani; e che la vostra vita è preziosa anche per noi, anzi necessaria per andare avanti.
Dopo l’ascolto, un secondo passo per accompagnare il cammino di fede: farsi prossimi.
Guardiamo Gesù, che non delega qualcuno della «molta folla» che lo seguiva, ma incontra Bartimeo di persona. Gli dice: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» . Che cosa vuoi: Gesù si immedesima in Bartimeo, non prescinde dalle sue attese; che io faccia: fare, non solo parlare; per te: non secondo idee prefissate per chiunque, ma per te, nella tua situazione. Ecco come fa Dio, coinvolgendosi in prima persona con un amore di predilezione per ciascuno. Nel suo modo di fare già passa il suo messaggio: così la fede germoglia nella vita.
La fede passa per la vita. Quando la fede si concentra puramente sulle formulazioni dottrinali, rischia di parlare solo alla testa, senza toccare il cuore. E quando si concentra solo sul fare, rischia di diventare moralismo e di ridursi al sociale. La fede invece è vita: è vivere l’amore di Dio che ci ha cambiato l’esistenza. Non possiamo essere dottrinalisti o attivisti; siamo chiamati a portare avanti l’opera di Dio al modo di Dio, nella prossimità: stretti a Lui, in comunione tra noi, vicini ai fratelli.
Prossimità: ecco il segreto per trasmettere il cuore della fede, non qualche aspetto secondario.
Farsi prossimi è portare la novità di Dio nella vita del fratello, è l’antidoto contro la tentazione delle ricette pronte. Chiediamoci se siamo cristiani capaci di diventare prossimi, di uscire dai nostri circoli per abbracciare quelli che “non sono dei nostri” e che Dio ardentemente cerca. C’è sempre quella tentazione che ricorre tante volte nella Scrittura: lavarsi le mani. È quello che fa la folla nel Vangelo di oggi, è quello che fece Caino con Abele, è quello che farà Pilato con Gesù: lavarsi le mani. Noi invece vogliamo imitare Gesù, e come lui sporcarci le mani. Egli, la via (cfr Gv 14,6), per Bartimeo si è fermato lungo la strada; Egli, la luce del mondo (cfr Gv 9,5), si è chinato su un cieco.
Riconosciamo che il Signore si è sporcato le mani per ciascuno di noi, e guardando la croce ripartiamo da lì, dal ricordarci che Dio si è fatto mio prossimo nel peccato e nella morte. Si è fatto mio prossimo: tutto comincia da lì.
E quando per amore suo anche noi ci facciamo prossimi diventiamo portatori di vita nuova: non maestri di tutti, non esperti del sacro, ma testimoni dell’amore che salva.
Testimoniare è il terzo passo. Guardiamo i discepoli che chiamano Bartimeo: non vanno da lui, che mendicava, con un’acquietante monetina o a dispensare consigli; vanno nel nome di Gesù. Infatti gli rivolgono solo tre parole, tutte di Gesù: «Coraggio! Alzati. Ti chiama». Solo Gesù nel resto del Vangelo dice coraggio!, perché solo Lui risuscita il cuore. Solo Gesù nel Vangelo dice alzati, per risanare lo spirito e il corpo. Solo Gesù chiama, cambiando la vita di chi lo segue, rimettendo in piedi chi è a terra, portando la luce di Dio nelle tenebre della vita. Tanti figli, tanti giovani, come Bartimeo cercano una luce nella vita. Cercano amore vero. E come Bartimeo, nonostante la molta gente, invoca solo Gesù, così anch’essi invocano vita, ma spesso trovano solo promesse fasulle e pochi che si interessano davvero a loro.Non è cristiano aspettare che i fratelli in ricerca bussino alle nostre porte; dovremo andare da loro, non portando noi stessi, ma Gesù. Egli ci manda, come quei discepoli, a incoraggiare e rialzare nel suo nome. Ci manda a dire ad ognuno: “Dio ti chiede di lasciarti amare da Lui”. Quante volte, invece di questo liberante messaggio di salvezza, abbiamo portato noi stessi, le nostre “ricette”, le nostre “etichette” nella Chiesa! Quante volte, anziché fare nostre le parole del Signore, abbiamo spacciato per parola sua le nostre idee! Quante volte la gente sente più il peso delle nostre istituzioni che la presenza amica di Gesù! Allora passiamo per una ONG, per una organizzazione parastatale, non per la comunità dei salvati che vivono la gioia del Signore.
Ascoltare, farsi prossimi, testimoniare. Il cammino di fede nel Vangelo termina in modo bello e sorprendente, con Gesù che dice: «Va’, la tua fede ti ha salvato» . Eppure Bartimeo non ha fatto professioni di fede, non ha compiuto alcuna opera; ha solo chiesto pietà. Sentirsi bisognosi di salvezza è l’inizio della fede. È la via diretta per incontrare Gesù. La fede che ha salvato Bartimeo non stava nelle sue idee chiare su Dio, ma nel cercarlo, nel volerlo incontrare. La fede è questione di incontro, non di teoria. Nell’incontro Gesù passa, nell’incontro palpita il cuore della Chiesa. Allora non le nostre prediche, ma la testimonianza della nostra vita sarà efficace.”

Parte dell’OMELIA tenuta da Papa Francesco per la conclusione
della XV assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi
nella Basilica Vaticana - Domenica, 28 ottobre 2018

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica sono unite dal filo rosso del sangue della sofferenza e possono guidarci per una più profonda riflessione.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del Profeta Isaia, troviamo un frammento tratto dal quarto carme del Servo del Signore, un testo celebre soprattutto nella rilettura messianica cristiana. In quei pochi versetti viene spiegato il senso profondo delle sofferenze del Servo del Signore, che da innocente prende su di sé i peccati degli altri e diventa “salvezza” per molti.
Nella seconda lettura, l’autore della lettera agli Ebrei, afferma che l’ offerta che Cristo ha fatto di sé per la nostra salvezza ce lo ha reso solidale. A Lui l’umanità peccatrice si rivolge con fiducia, sicura di incontrare il Signore che salva.
Nel Vangelo di Marco, Gesù ha appena annunciato per la terza volta la Sua passione e morte, ma i discepoli sono ben lontani dal capire, anzi discutono tra loro, preoccupati di assicurarsi i primi posti nel futuro regno messianico. Alla proposta di ricerca dei primi posti, Gesù oppone la proposta di un messianismo d’immolazione e di servizio. Il servizio è uno dei comandi di Gesù più sentiti e più fortemente raccomandati, (papa Francesco ce lo ricorda continuamente e ne dà l’esempio) e rimane uno dei criteri sui quali i cristiani misurano maggiormente la qualità della loro vocazione.

Dal libro del profeta Isaia
Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento
vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà le loro iniquità.
Is 53,10-11

Questo brano fa parte del Libro della Consolazione di Israele (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “Deutero Isaia”. Probabilmente era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che, dalla sue profezie prendono speranza. Il corpo del libro contiene una serie di oracoli che possono dividersi in due parti, quelle composte prima della conquista di Babilonia da parte di Ciro (Is 41,12-48,22) e quelle che invece sono state composte dopo questo evento (Is 49,1-54,17) .
Nel libro del Deuteroisaia emerge con insistenza la figura e l’opera di un personaggio misterioso, chiamato “Servo di JHWH”, di cui trattano quattro composizioni poetiche a cui è stato dato l’appellativo di ”Carmi del Servo di JHWH” (42,1-7; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12). Mentre il primo carme si trova all’inizio della prima parte, gli altri li troviamo nella seconda parte della raccolta. Mentre nei primi due carmi si tratta rispettivamente della chiamata del Servo e dell’insuccesso che lo attende, nel terzo (Is 50,4-9) si descrive la persecuzione che ha subito. I versetti sono alquanto simili ai salmi di lamentazione individuale, in cui un giusto perseguitato si lamenta delle sue sofferenze e si abbandona alla protezione divina.
Questo breve brano che è un frammento del quarto carme che descrive la vicenda del Servo del Signore, è un testo celebre soprattutto nella rilettura messianica cristiana. E’ stato descritto all’inizio l’immagine di un virgulto cresciuto (Is. 53,2), come una radice in terra arida, come un uomo isolato. Il suo stesso esistere è apparso un miracolo, un dono divino, unica presenza viva all’interno del mondo morto e desolato del peccato umano. E’ impressionante la descrizione del suo volto sfigurato, che suscita imbarazzo e disprezzo perchè si interpreta il suo tormento come castigo divino! Ma la morte non è il termine definitivo verso cui scorre questa vita di dolore innocente, con la sua morte non è stata detta l’ultima parola, perchè:
”Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo,si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.” (*) Il Signore ha voluto che il Servo passasse attraverso la sofferenza, ma ha stabilito che,”avendo offerto se stesso in espiazione”, viva a lungo e abbia una grande discendenza.
Negli ultimi due versetti è il Signore che parla per confermare il successo del Servo: “Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.”
Questa morte, questo intimo tormento, fa fiorire il mistero di fecondità che quel virgulto conteneva, Questo servo giustificherà molti, salvandoli con il suo dolore espiatorio, fino a contemplare Dio stesso nella gloria con tutti coloro che ha portato alla salvezza. La sua vita e la sua morte dunque sono state un sacrificio liberatore per noi tutti, il suo essere “servo” ha generato la nostra giustificazione e riconciliazione con Dio.

(*) Nota: Il termine “sacrificio di riparazione” nell’originale ebraico indica sacrificio offerto per togliere un peccato con cui erano stati lesi i diritti di una persona (V. Lv 5,14-19): la morte del Servo viene dunque compresa come un gesto sacrificale, il cui scopo è quello di eliminare i peccati del popolo. Si deve tener presente che nei sacrifici la vittima non era punita al posto del peccatore, ma veniva immolata perché il suo sangue servisse come strumento di riconciliazione con Dio (V. Lv 17,11). La lunga vita promessa al Servo dopo la sua morte indica il successo del suo sacrificio e la rinascita del popolo. Per mezzo suo infatti si compie la volontà di Dio, cioè la conversione del popolo e il suo ritorno nella terra promessa.

SALMO 32 - Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo.

Retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra.

Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.

L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,
come da te noi speriamo.

Il salmo comincia con un’esortazione alla gioia. Infatti la tentazione della tristezza è sottile, porta l’anima a stancarsi nel perseverare nel bene e, alla fine, a rivolgersi al male come fonte sicura di consolazioni. La tristezza non s’accompagna con la lode, ma con la lamentosità, e dunque bisogna mantenersi nella gioia per lodare il Signore, e del resto lodare il Signore mantiene nella gioia, quella vera, che non è euforia, ma realtà dell’amore.
Il salmista esorta ad allontanarsi dalla tristezza accompagnando la lode con la cetra, con l’arpa a dieci corde. La lode sia canto. Canto che nasce dall’amore, dal cuore, da un cuore puro. Non canto di bella voce, ma canto di bel cuore. “Cantate un canto nuovo”, esorta il salmista; il che vuol dire che il canto sia nuovo nell’amore. Si potranno usare le stesse parole, ma il canto sarà sempre nuovo se avrà la novità dell’amore. Non c’è atto d’amore che non possa dirsi nuovo se fatto con tutto il cuore.
“Con arte”, bisogna suonare, nell’esultanza e non nell’esaltazione.
Il salmista dice il perché della lode a Dio; perché “retta è la parola del Signore”, cioè non mente, costruisce, guida, dà luce, dà pace e gioia. E ogni opera sua è segnata dalla fedeltà all’alleanza che egli ha stabilito col suo popolo.
Egli ama il diritto e la giustizia, cioè la pace tra gli uomini, la comunione della carità, il rispetto dei diritti dell’uomo.
Egli ha creato le cose come dono all’uomo, per cui ogni cosa ha una ragione d’amore: “dell'amore del Signore è piena la terra”. La creazione procede dal suo volere, dalla sua Parola. Tutte le cose sono state create con un semplice palpito del suo volere. Le stelle, che nella volta celeste si muovono (moto relativo al nostro punto di vista) come schiere. Le acque del mare sono ferme come dentro un otre: esse non possono dilagare sulla terra. Nelle cavità profonde della terra ha confinato parimenti le acque abissali, che sfociano in superficie nelle sorgenti. Esse sono chiuse (“chiude in riserve gli abissi ”), e non diromperanno sulla terra unendosi a quelle dei mari e del cielo per sommergere la terra (Cf. Gn 1,6-10; 7,11).
Il salmista proclama il suo amore a Dio a tutta la terra, invitando tutti gli uomini a temere Dio, cioè a temere di offenderlo perché egli è infinitamente amabile. Gli abitanti del mondo tremino davanti a lui, perché misericordioso, ma è anche giusto giudice e non lascia impunito chi si ribella a lui. Egli è l’Onnipotente perché: “parlò e tutto fu creato, comandò e tutto fu compiuto”.
I popoli, le nazioni, che vogliono costruirsi senza di lui non avranno che sconfitta. I loro progetti sono vani, non avranno successo. Al contrario il disegno salvifico ed elevante del Signore rimane per sempre. Nessuno lo può arrestare. Esso procede dal suo cuore, cioè dal suo amore - “i progetti del suo cuore” - e rimane per sempre, per tutte le generazioni.
Il salmista poi celebra Israele; il nuovo Israele, quello che ha come capo Cristo, e del quale Israele un giorno farà parte (Rm 11,15). Nessuno sfugge allo sguardo del Signore: “guarda dal cielo: egli vede tutti gli uomini”. E lui sa ben vedere il cuore dell’uomo poiché lui l’ha creato, e sa “comprendere tutte le sue opere”, perché sa vedere il merito o il demerito sulla base dell’adesione all’orientamento al bene del cuore, e alla grazia che egli dona.
La sua grazia è la forza dell’uomo nelle situazioni di difficoltà. L’uomo non deve credere di salvarsi dalle catastrofi sociali perché possiede cavalli, ma deve rivolgersi a Dio, che può “liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame”.
Il salmista, unito ai giusti, esprime una dolce professione di fede in Dio, una dolce speranza in lui: “L’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo”; conclude poi con un’ardente invocazione: “Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo”.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
Eb 4,14-16

Questo breve brano,tratto dalla Lettera agli Ebrei, sviluppa un tema già iniziato al cap.2 “Gesù sacerdote misericordioso”. Nell’Antico Testamento, la condizione necessaria per essere sacerdoti era l’appartenenza alla tribù di Levi, una delle dodici tribù d’Israele, dalla quale provenivano Mosè ed Aronne. I sacerdoti erano coloro che interpretavano la volontà di Dio lanciando urim e tummin, che erano due pietre, che custodivano nel pettorale, e rappresentavano uno l’innocenza e l’altro la colpa; oltre al resto, insegnavano la Legge e si dedicavano al servizio del tempio. Quella dei sacerdoti era un’organizzazione gerarchica ed ereditaria, all’interno della quale solo il sommo sacerdote, rappresentante della linea primogenita, poteva entrare una volta l’anno, durante il giorno dell’espiazione (Yom kippur), nel luogo più santo del tempio, sancta sanctorum, dove si credeva che vi fosse la presenza di Dio. Nel Nuovo Testamento, invece, ogni sacerdozio particolare viene abolito con l’avvento di Gesù Cristo, che è il grande sommo sacerdote. Con Gesù ci troviamo di fronte ad un nuovo modello di sommo sacerdote, un modello, sin dall’inizio inusuale, dato che Gesù apparteneva alla tribù di Giuda e non a quella di Levi, dalla quale provenivano gli altri sacerdoti.
Il brano inizia con una forte esortazione: “poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede“
Sebbene il sacerdozio di Cristo sia stato consumato sulla croce esso continua a esercitarsi ancora oggi nei “cieli”, dove Egli è penetrato con la sua morte cruenta e ormai siede alla destra di Dio.
All’esortazione iniziale fa seguito una frase esemplificativa sul sacerdozio di Cristo: “Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato”. La grandezza del sacerdozio di Cristo non esclude, anzi esige che Egli sia solidale con la famiglia umana, che rappresenta davanti a Dio: Egli infatti è “uomo” in mezzo agli uomini e perciò è capace di comprendere fino in fondo i loro limiti e i loro peccati. Precedentemente l’autore aveva detto che Gesù, “ proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova.” (2,18).
La solidarietà di Gesù con l’umanità ha però un limite: Egli è simile in tutto alla condizione umana “escluso il peccato”.
Si afferma così la perfetta santità di Cristo, che esclude ogni Sua partecipazione alla comune situazione di peccato. In realtà questa prerogativa non diminuisce la Sua solidarietà con gli uomini, anzi rappresenta la condizione indispensabile perché Egli possa effettivamente andare loro incontro e salvarli. Un peccatore infatti ha bisogno prima di tutto di essere lui stesso salvato: solo chi è santo può salvare gli altri!
L’autore conclude con una nuova esortazione:”Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno”.
L’invito iniziale a mantenere salda la professione di fede viene qui ripreso, dopo lo sviluppo riguardante la compassione di Gesù, sotto forma di richiamo ad accostarsi con piena fiducia al “trono della grazia”, cioè alla presenza del Dio misericordioso.
Dopo che Cristo “è passato attraverso i cieli”, Dio non deve essere più ricercato in un santuario terreno, ma proprio là dove Egli si trova, cioè nel Suo santuario celeste. In forza della mediazione di Cristo i credenti devono ormai sentirsi sicuri che Dio non negherà loro la salvezza e l’aiuto necessario tutte le volte che ne avranno bisogno.
Gesù dunque è il grande sommo sacerdote che soffre insieme a noi per le nostre debolezze, i nostri peccati, Egli è il nuovo grande sommo sacerdote che non se ne sta rinchiuso nel luogo santissimo “sancta sanctorum”, ma che è in mezzo a noi, che patisce con noi la fame, la sete, l’emarginazione; un Gesù che possiamo scorgere nel volto sofferente di ogni creatura.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria,
uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Mc 10,35-45

Questo brano del vangelo di Marco, che è l’unico che fa seguito al terzo annunzio della passione, morte e risurrezione di Gesù, affronta il tema dei primi posti nel regno di Dio. Il racconto inizia riporta ndo che i fratelli Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, due discepoli della prima ora, si fanno avanti e chiedono a Gesù: “Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra»”.
Ciò che essi chiedono a Gesù è una posizione alquanto di privilegio rispetto agli altri discepoli. Si può notare che lo chiedono non subito, ma al momento della gloria di Gesù, cioè quando Egli, in quanto Messia, avrà sconfitto i suoi nemici e instaurato il regno di Dio. La pretesa dei due discepoli si comprende nel contesto storico di Gesù: essi condividevano ancora l’attesa di un Messia glorioso e potente, che avrebbe instaurato il regno di Dio vincendo i suoi nemici e distribuendo i posti di comando ai suoi seguaci più fedeli. Probabilmente la richiesta dei due discepoli è sembrata sconveniente a Matteo, che l’ha attribuita non ai due interessati, ma alla loro madre (V: Mt 20,20), mentre Luca evita persino di citare questo episodio.
Gesù risponde loro: “Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato”. Il calice simboleggia il destino di sofferenza che lo attende, mentre il battesimo significa l’immersione in una prova molto dolorosa. In altre parole Gesù chiede ai due discepoli se sono disposti a condividere la sua passione e la sua morte da lui appena preannunziate. Essi rispondono affermativamente, dimostrando così che, nonostante le loro ambizioni, sono legati al Maestro da una profonda amicizia, da renderli disponibili a condividere le sofferenze che, essi pensano, siano connesse con la lotta, forse anche militare, per attuare il regno di Dio.
Gesù non rifiuta la disponibilità dei due discepoli, ma è chiaro e tassativo sulle loro pretese: “Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato”.
Certo, essi parteciperanno fino in fondo alla sua esperienza di dolore e di morte, ma quanto ai primi posti, essi dipendono da Dio, che li darà a chi vuole. In altre parole i suoi discepoli non devono avere preoccupazioni per i primi posti o di onori speciali, ma limitarsi ad essere solidali con Lui fino alla fine. Se dunque il discepolo partecipa veramente all’esperienza del suo Maestro, lo aspettano non certo trionfi e primi posti, ma sofferenza e morte. Alla fine però potrà partecipare alla sua gloria, non per merito suo, bensì per un dono gratuito da parte di Dio.
Gli altri discepoli, avendo sentito la richiesta di Giacomo e Giovanni protestano contro di loro. Rendendosi conto di queste proteste, Gesù chiama a sé i suoi discepoli e dice loro: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti”.

Con queste parole Gesù non si riferisce più al momento della gloria, cioè della venuta finale del regno di Dio, ma descrive l’esercizio dell’autorità nel gruppo dei discepoli e di riflesso nella comunità cristiana, mettendolo in contrasto con quanto avviene in questo mondo. I governanti delle nazioni, o almeno coloro che sono considerati come tali, “le dominano”, e i loro capi “le opprimono”, infatti anche nella società attuale coloro che detengono il potere lo usano per lo più a proprio vantaggio, sfruttando e utilizzando gli altri per i propri scopi egoistici, e questo in tutti i settori. Tra i discepoli (o chi si professa cristiano) invece ciò non deve accadere, ma al contrario chi vuol diventare grande o essere il primo, deve farsi “servitore” o perfino “schiavo di tutti”.
I discepoli devono prendere perciò come modello lo stesso Gesù perchè: “Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto (*) per molti”.
Gesù attribuendosi l’appellativo di Figlio dell’uomo non pensa certamente alla figura gloriosa preannunziata dal profeta Daniele (Dn 7), ma si riferisce a se stesso in quanto partecipe dei limiti propri di ogni uomo, con il quale Egli stabilisce un legame di profonda solidarietà. Questa si manifesta nel fatto che Egli è venuto non “per farsi servire “, ma per “servire” e per dare la sua vita, cioè tutto se stesso, “in riscatto per molti”.(*)
Per concludere si può dire che tutte le volte che il “discepolo”, sul quale incombe un incarico o una responsabilità, si trasforma in un capo orgoglioso ed egoista, egli distrugge la Chiesa di Dio, riducendola ad un’organizzazione sociopolitica. (Su questo argomento Papa Francesco è tornato varie volte) Cristo, invece, è in mezzo agli uomini come un servo, pronto a compiere quel gesto che nell’antico Israele non poteva essere imposto neppure ad uno schiavo, il lavare i piedi ad un’altra persona: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. (Gv 13,14-15
Per concludere si può affermare che Gesù, si è fatto servo e ha dato la sua vita in riscatto per le moltitudini, cioè per tutti. Gesù non ha dominato, ma ha sempre servito fino a farsi schiavo, fino a lavare i piedi, fino ad accettare una morte ignominiosa, assimilato ai malfattori.

(*)Il termine “riscatto” indica il prezzo con cui veniva liberato uno schiavo: nel linguaggio biblico indica invece l’azione con cui Dio acquista per sé il suo popolo liberandolo dall’Egitto, dove era tenuto come schiavo, senza però dover pagare alcun prezzo. Il termine “molti”, usato più volte in Is 53, indica non alcuni a preferenza di altri, ma la moltitudine in senso inclusivo, quindi “tutti”.
Il servizio di Gesù consiste dunque nel riaggregare

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“L’odierna pagina evangelica descrive Gesù che, ancora una volta e con grande pazienza, cerca di correggere i suoi discepoli convertendoli dalla mentalità del mondo a quella di Dio. L’occasione gli viene data dai fratelli Giacomo e Giovanni, due dei primissimi che Gesù ha incontrato e chiamato a seguirlo.
Ormai hanno fatto parecchia strada con Lui e appartengono proprio al gruppo dei dodici Apostoli. Perciò, mentre sono in cammino verso Gerusalemme, dove i discepoli sperano con ansia che Gesù, in occasione della festa di Pasqua, instaurerà finalmente il Regno di Dio, i due fratelli si fanno coraggio, si avvicinano e rivolgono al Maestro la loro richiesta: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» .
Gesù sa che Giacomo e Giovanni sono animati da grande entusiasmo per Lui e per la causa del Regno, ma sa anche che le loro aspettative e il loro zelo sono inquinati, dallo spirito del mondo. Perciò risponde: «Voi non sapete quello che chiedete» . E mentre loro parlavano di “troni di gloria” su cui sedere accanto al Cristo Re, Lui parla di un «calice» da bere, di un «battesimo» da ricevere, cioè della sua passione e morte. Giacomo e Giovanni, sempre mirando al privilegio sperato, dicono di slancio: sì, «possiamo»! Ma, anche qui, non si rendono veramente conto di quello che dicono.
Gesù preannuncia che il suo calice lo berranno e il suo battesimo lo riceveranno, cioè che anch’essi, come gli altri Apostoli, parteciperanno alla sua croce, quando verrà la loro ora. Però – conclude Gesù – «sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato» . Come dire: adesso seguitemi e imparate la via dell’amore “in perdita”, e al premio ci penserà il Padre celeste. La via dell’amore è sempre “in perdita”, perché amare significa lasciare da parte l’egoismo, l’autoreferenzialità, per servire gli altri.
Gesù poi si accorge che gli altri dieci Apostoli si arrabbiano con Giacomo e Giovanni, dimostrando così di avere la stessa mentalità mondana. E questo gli offre lo spunto per una lezione che vale per i cristiani di tutti i tempi, anche per noi. Dice così: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti». È la regola del cristiano. Il messaggio del Maestro è chiaro: mentre i grandi della Terra si costruiscono “troni” per il proprio potere, Dio sceglie un trono scomodo, la croce, dal quale regnare dando la vita: «Il Figlio dell’uomo – dice Gesù – non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» .
La via del servizio è l’antidoto più efficace contro il morbo della ricerca dei primi posti; è la medicina per gli arrampicatori, questa ricerca dei primi posti, che contagia tanti contesti umani e non risparmia neanche i cristiani, il popolo di Dio, neanche la gerarchia ecclesiastica. Perciò, come discepoli di Cristo, accogliamo questo Vangelo come richiamo alla conversione, per testimoniare con coraggio e generosità una Chiesa che si china ai piedi degli ultimi, per servirli con amore e semplicità. La Vergine Maria, che aderì pienamente e umilmente alla volontà di Dio, ci aiuti a seguire con gioia Gesù sulla via del servizio, la via maestra che porta al Cielo.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus 21 ottobre 2018

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica si possono definire un vademecum per realizzare la propria esistenza e per rendere sicuro ciò che abbiamo costruito con il nostro operato.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Sapienza, l’antico saggio chiede a Dio la docilità del cuore, la capacità cioè di rendere giustizia e di distinguere il bene dal male, che equivale a chiedere la sapienza. Solo Dio è in grado di donarla ad ogni uomo, perché con essa possiamo vivere nel rispetto dei veri valori morali e religiosi.
Nella seconda lettura, l’autore della lettera agli Ebrei, afferma che per imparare la vera sapienza non c’è nessun mezzo efficace quanto l’ascolto attento della Parola di Dio. Essa infatti è luce che rischiara e forza che ravviva le più nascoste energie dello Spirito.
Nel Vangelo di Marco, troviamo un brano celebre, costruito sulla tensione che intercorre tra ricchezza e cristianesimo, un passo che ha fatto scrivere ai padri della Chiesa pagine incandescenti. Gesù, al giovane che gli chiedeva cosa dovesse fare per avere in eredità la vita eterna, risponde invitandolo a capire con il cuore. La sfida che ci lancia Gesù è di provare a vivere, lasciando le nostre mentalità per abbracciare lo stile del Vangelo. C’è una ricchezza che noi possediamo: è la ricchezza della nostra vita personale. Davvero siamo tutti ricchi in questo senso. Tuttavia questo dono diventa ancora più prezioso nella misura in cui diventa dono per gli altri.

Dal libro della Sapienza
Pregai e mi fu elargita la prudenza,
implorai e venne in me lo spirito di sapienza.
La preferii a scettri e a troni,
stimai un nulla la ricchezza al suo confronto,
non la paragonai neppure a una gemma inestimabile,
perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia
e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento.
L’ho amata più della salute e della bellezza,
ho preferito avere lei piuttosto che la luce,
perché lo splendore che viene da lei non tramonta.
Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni;
nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile.
Sap 7,7-11

Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico. E’ stato scritto in greco, caso unico in tutto l’Antico Testamento, ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. probabilmente da Filone o da un suo discepolo. Si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”) ed è composto da 19 capitoli.
L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, per mettere questo scritto, come del resto il Qoèlet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele.
L’autore in questa opera si preoccupa di insegnare la vera sapienza, quella necessaria per condurre una vita retta, non quella scienza che si può acquistare vivendo e pensando, ma una sapienza che viene da Dio. Ogni sapienza divina, di fatto, ha rivelato, guidando magistralmente la storia del popolo eletto, che la vera felicità appartiene agli amici di Dio. In altre parole, non scoprono il senso della vita se non coloro cui il Signore lo rivela.
L’Autore stimolato dall’ambiente circostante, ci dona un primo abbozzo di filosofia religiosa che si unisce a una bella meditazione di fede cui la liturgia si è spesso ispirata. All’incrocio dell’Antica Alleanza e dell’ellenismo si può affermare che il libro della Sapienza prepara Giudei e Greci alla venuta di Gesù Cristo.
In questo brano, Salomone parla in prima persona per proporsi come modello di vita. Egli afferma di aver pregato e gli “fu elargita la prudenza,” implorò e venne in lui “lo spirito di sapienza”. La preferì a “scettri e a troni”, fino a stimare “un nulla la ricchezza al suo confronto.”
Poi continua nel suo elogio dicendo: “ L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta” e come conseguenza afferma ancora: “Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile”
Questo brano è una rilettura sapienziale della preghiera di Salomone e del suo esaudimento da parte di Dio (1Re 3,6-13) . Il chiedere, infatti, a Dio la docilità del cuore, la capacità di rendere giustizia e di distinguere il bene dal male, equivale, come riconosce Dio stesso, a chiedere la sapienza. Solo Dio è in grado di donarla all'uomo, perché con essa possiamo vivere nel rispetto dei veri valori morali e religiosi.

Salmo 89 Saziaci, Signore, con il tuo amore: gioiremo per sempre.

Insegnaci a contare i nostri giorni
e acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna, Signore: fino a quando?
Abbi pietà dei tuoi servi!

Saziaci al mattino con il tuo amore:
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Rendici la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti,
per gli anni in cui abbiamo visto il male.

Si manifesti ai tuoi servi la tua opera
e il tuo splendore ai loro figli.
Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:
rendi salda per noi l’opera delle nostre mani,
l’opera delle nostre mani rendi salda.

Il salmo illustra la condizione precaria della vita dell'uomo esposta alle sofferenze del quotidiano unitamente a quelle dei rivolgimenti storici causati per le lotte di potere. Il salmista procede con un tono sapienziale, rischiarato dalla consapevolezza della brevità dei giorni dell'uomo. Questa consapevolezza è tanto importante che egli la invoca per tutti gli uomini: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio”.
La composizione del salmo molto probabilmente è avvenuta nel tempo di pace relativa quando Antioco V ridiede la libertà religiosa ad Israele (163 a.C.).
Il salmista si rivolge a Dio come rifugio di Israele. Rifugio certo, perché Dio non è una creazione dell'uomo, egli, infatti, da sempre esiste: “Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, o Dio”; "Mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato".
Il salmista ha il vivo ricordo di tracotanti superbi entrati nel tempio di Gerusalemme credendo di affermarsi su Dio: Tolomeo III e Tolomeo IV erano entrati nel tempio offrendo sacrifici ai loro dei (ca. 220-221 a.C.); Antioco IV Epifane lo saccheggiò e vi fece sacrifici a Giove (ca. 169-167 a.C).
Ma l'uomo è un nulla di fronte a Dio, che per l'antico peccato lo fa ritornare polvere (Gn 3,19): “Tu fai ritornare l'uomo in polvere”. L'ira di Dio travolge i superbi: “Tu li sommergi: sono come un sogno al mattino, come l'erba che germoglia; al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca”; “Sì, siamo distrutti dalla tua ira”; “Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua collera”.
L'ira di Dio è rivolta a portare l'uomo al ravvedimento. E' saggezza sapere che la collera di Dio non è una finta, ma una realtà dura che incombe sui ribelli. E' saggezza temere la collera di Dio e non sfidarla, come già fece il faraone (Es 9,30): “Chi conosce l'impeto della tua ira e, nel timore di te, la tua collera?”.
Il salmista si colloca tra tutti gli uomini, ma anche presenta fin dall'inizio la sua appartenenza ad Israele: “Signore, tu sei stato per noi un rifugio...”; e per Israele invoca pace e gioia dopo giorni e anni di afflizione: “Ritorna, Signore: fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi!...Rendici la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti".
Commento tratta da Perfetta Letizia

Dalla lettera agli Ebrei
La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore.
Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto.
Eb 4,12-13

L’autore della Lettera agli Ebrei nei capitoli precedenti questo brano che la liturgia ci propone, aveva parlato di un riposo promesso a quanti sono stati chiamati da Dio.. Il riposo è dunque la ricompensa a quanti sono stati fedeli e che potranno riposare dalle fatiche delle loro opere compiute nella volontà di Dio. C'è però il pericolo che qualcuno pur avendo ricevuto il Vangelo non entri in questo riposo a causa della propria disobbedienza. L'esortazione dunque è quella di affrettarsi a entrare in questo riposo, perché nessuno ne venga escluso.
Il brano che abbiamo, per confermare l'assoluta efficacia della Parola, ricorre ad una immagine molto forte quando afferma: “La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore”.
Questi due versetti sono un capolavoro, un vero dipinto letterario..La Parola di Dio viene esaltata sottolineandone cinque caratteristiche. Le prime quattro sono ricordate a due a due: viva ed efficace, tagliente e penetrante. L’ultima caratteristica completa la qualità delle altre: è capace di discernere i sentimenti e i pensieri del cuore. L'immagine della spada, riferita alla Parola di Dio è citata altre volte nella Bibbia (Sap 18,15; Ef 6,17). La spada a doppio taglio ci dà l'idea di una inesorabile forza di penetrazione, ma il significato fondamentale della spada è quello del giudizio che con la spada si esegue la sentenza. (V. Dt 13,13-16). La sentenza di Dio è inappellabile perché nulla può rimanere nascosto ai Suoi occhi. La spada entra in profondità e arriva al punto di divisione tra l'anima e lo spirito, la spada penetra fino alla divisione degli elementi interiori e superiori che costituiscono il composto umano e la sua realtà spirituale e morale.
Poi l’autore conclude affermando : “Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto”
Nessuno dunque può mentire davanti al Signore! Queste parole così forti naturalmente non devono spaventarci e bloccare le nostre azioni, perché non saranno le nostre debolezze che verranno giudicate e condannate, bensì la nostra scelta fondamentale: la fede, l’amore, l'accoglienza del Vangelo, l'ascolto della Parola e l'obbedienza alla volontà di Dio.
Come conclusione si può ancora dire che La Parola di Dio è efficace perché mette l'uomo allo scoperto, denuncia le sue ipocrisie e se l'uomo la rifiuta, si troverà a rifiutare non solo Dio, ma la verità su se stesso.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».
Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».
Mc 10, 17-30

Dopo il secondo annunzio della passione, l’evangelista Marco inserisce questo episodio, conosciuto anche come la difficoltà delle ricchezze, a cui fanno seguito alcuni detti riguardanti appunto i pericoli delle ricchezze, e poi la ricompensa riservata a coloro che riescono a distaccarsene.
Il brano inizia in modo analogo al racconto della chiamata dei primi discepoli riportando che un tale corre da Gesù e, “gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?»”.
Questo personaggio manifesta con il suo comportamento di essere consapevole di trovarsi di fronte a una persona carismatica. Egli dà a Gesù subito l’appellativo di “Maestro buono” e chiede che cosa deve fare per “avere in eredità la vita eterna”. Gesù risponde mettendo in discussione proprio l’appellativo che egli gli aveva attribuito: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo”. Rifiutando l’appellativo di “buono”, Gesù intende mettere in secondo piano la sua persona per portare l’attenzione su Dio stesso. A tal scopo richiama un testo della Scrittura: “Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”. Gesù cita il decalogo per sommi capi, con alcuni cambiamenti significativi. Anzitutto egli, avendo già suggerito che la vita eterna si raggiunge mediante un intimo rapporto con Dio, tralascia il primo comandamento. Omette poi il secondo (non pronunziare il nome di Dio invano), in quanto potrebbe essere visto come una ripetizione dell’ottavo, e il terzo, che si riferisce a una pratica, quella del sabato, tipica del mondo ebraico. Infine posticipa il comandamento riguardante l’onore dovuto al padre e alla madre, e aggiunge “non frodare” .
Il “tale” risponde allora: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. Con questa risposta egli si mette chiaramente nella categoria dei fedeli osservanti della legge. La reazione di Gesù a queste parole non è di dubbio o di critica, ma di grande apprezzamento, l’evangelista infatti osserva: “Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi”.
Lo sguardo di Gesù manifesta tutto il suo amore per lui, e in forza di questo amore Gesù dice all’uomo che gli “manca” qualcosa. La cosa che gli manca è vendere i propri beni e seguirlo, dopo averne distribuito il ricavato ai poveri. Con queste parole Gesù propone la sequela come la strada maestra per ottenere la vita eterna; la rinunzia ai propri beni in favore dei poveri è solo una premessa, nella quale però si manifesta già la dinamica del regno di Dio, nel quale i poveri sono “beati” .
Naturalmente Gesù non chiede all’uomo di diventare povero lui per arricchire i poveri, ma di ridistribuire i suoi beni a coloro che ne sono stati defraudati, dimostrando così il suo amore per loro. Con questa proposta Gesù non intende dare meno valore alla via dei comandamenti e neppure propone una via che porta a una maggiore perfezione.
Di fronte alla richiesta di Gesù la disponibilità dell’uomo viene meno: “Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni”
Quest’uomo evidentemente non se l'è sentita di accettare per questo se ne andò rattristato e deluso. L'attaccamento alla ricchezza, il timore di perdere le possibilità e la sicurezza che materialmente essa offre, smorza anche gli slanci più generosi. Un giovane di buoni principi, disposto al bene, che però non ha il coraggio di fare il passo decisivo perde la grande occasione della sua vita, l'appuntamento con la felicità vera, che viene dal cuore. Non ha saputo raccogliere il messaggio di quello sguardo d'amore.
Appena l’uomo si allontana Gesù non può nascondere la sua la delusione e commenta: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». Di fronte alla meraviglia dei discepoli, Gesù non attenua quanto ha detto ma lo ripete una seconda volta, poi aggiunge: “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio” ( ) .
Questa risposta crea un senso di sbigottimento tra i discepoli, i quali si chiedono: “E chi può essere salvato?”
In queste parole traspare la preoccupazione di coloro che, pur avendo aderito a Cristo, non hanno potuto seguirlo nel cammino di una rinuncia totale ai beni materiali. Gesù non risponde direttamente, ma osserva: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio.”
Queste parole significano che, sebbene il possesso di beni materiali comporti rischi tali da rendere quasi impossibile l’ingresso nel regno di Dio, anche coloro che per motivi indipendenti dalla loro volontà non sono in grado di rinunziarvi totalmente, possono raggiungere la salvezza perché Dio può cambiare il cuore dell'uomo donandogli la libertà interiore ed esteriore dai beni materiali, purché si appoggi a Lui solo.
È questo un segnale di speranza che doveva essere particolarmente apprezzato da quei cristiani che restavano legati alla loro famiglia e al loro lavoro: anche per loro è possibile salvarsi, ma solo per un dono speciale di Dio, che consente loro di usufruire dei loro beni con cuore distaccato (S.Paolo approfondirà questo tema in 1Cor 7,29-31).
Nell’ultima parte del brano si fa avanti Pietro, per chiedere chiarimenti e osserva: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”..Egli parla a nome di quelle persone che si sentono a posto con le richieste di Gesù e pongono la domanda circa la ricompensa che ne otterranno. Gesù risponde con un principio generale: “non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà”.
Le parole di Gesù sono una risposta a quelle che potevano essere le aspettative dei suoi primi discepoli.
Si può notare che Pietro usa l’espressione “lasciare-seguire” alludendo alla loro vocazione sulle sponde del lago di Tiberiade. Gesù nella Sua risposta corregge la frase di Pietro con un accostamento positivo “lasciare-ricevere”. La donazione dei pochi possedimenti terreni a Cristo non significa la loro perdita, ma la loro moltiplicazione all’infinito. Ciò che si dona, lo si trova ancora aumentato, ampliato, e trasformato. Una gioia profonda, un benessere interiore, una sicurezza e una pace inaspettata diventano “già al presente” l’eredità gioiosa di chi si è svuotato da ogni attaccamento per far irrompere in sé Gesù Cristo e il Suo Vangelo.

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“La seconda Lettura ci ha detto che «la parola di Dio è viva, efficace e tagliente» (Eb 4,12). È proprio così: la Parola di Dio non è solo un insieme di verità o un edificante racconto spirituale, no, è Parola viva, che tocca la vita, che la trasforma. Lì Gesù in persona, Lui che è la Parola vivente di Dio, parla ai nostri cuori.
Il Vangelo, in particolare, ci invita all’incontro con il Signore, sull’esempio di quel «tale» che «gli corse incontro» (cfr Mc 10,17). Possiamo immedesimarci in quell’uomo, di cui il testo non dice il nome, quasi a suggerire che possa rappresentare ciascuno di noi. Egli domanda a Gesù come «avere in eredità la vita eterna» . Chiede la vita per sempre, la vita in pienezza: chi di noi non la vorrebbe? Ma, notiamo, la chiede come un’eredità da avere, come un bene da ottenere, da conquistare con le sue forze. Infatti, per possedere questo bene ha osservato i comandamenti fin dall’infanzia e per raggiungere lo scopo è disposto a osservarne altri; per questo chiede: «Che cosa devo fare per avere?».
La risposta di Gesù lo spiazza. Il Signore fissa lo sguardo su di lui e lo ama. Gesù cambia prospettiva: dai precetti osservati per ottenere ricompense all’amore gratuito e totale. Quel tale parlava nei termini di domanda e offerta, Gesù gli propone una storia di amore. Gli chiede di passare dall’osservanza delle leggi al dono di sé, dal fare per sé all’essere con Lui. E gli fa una proposta di vita “tagliente”: «Vendi quello che hai e dallo ai poveri […] e vieni! Seguimi!». Anche a te Gesù dice: “vieni, seguimi!”. Vieni: non stare fermo, perché non basta non fare nulla di male per essere di Gesù. Seguimi: non andare dietro a Gesù solo quando ti va, ma cercalo ogni giorno; non accontentarti di osservare dei precetti, di fare un po’ di elemosina e dire qualche preghiera: trova in Lui il Dio che ti ama sempre, il senso della tua vita, la forza di donarti.
Ancora Gesù dice: «Vendi quello che hai e dallo ai poveri». Il Signore non fa teorie su povertà e ricchezza, ma va diretto alla vita. Ti chiede di lasciare quello che appesantisce il cuore, di svuotarti di beni per fare posto a Lui, unico bene. Non si può seguire veramente Gesù quando si è zavorrati dalle cose. Perché, se il cuore è affollato di beni, non ci sarà spazio per il Signore, che diventerà una cosa tra le altre. Per questo la ricchezza è pericolosa e – dice Gesù – rende difficile persino salvarsi. Non perché Dio sia severo, no! Il problema è dalla nostra parte: il nostro troppo avere, il nostro troppo volere ci soffocano, ci soffocano il cuore e ci rendono incapaci di amare. Perciò San Paolo ricorda che «l’avidità del denaro è la radice di tutti i mali» (1 Tm 6,10). Lo vediamo: dove si mettono al centro i soldi non c’è posto per Dio e non c’è posto neanche per l’uomo.
Gesù è radicale. Egli dà tutto e chiede tutto: dà un amore totale e chiede un cuore indiviso.
Anche oggi si dà a noi come Pane vivo; possiamo dargli in cambio le briciole? A Lui, fattosi nostro servo fino ad andare in croce per noi, non possiamo rispondere solo con l’osservanza di qualche precetto. A Lui, che ci offre la vita eterna, non possiamo dare qualche ritaglio di tempo. Gesù non si accontenta di una “percentuale di amore”: non possiamo amarlo al venti, al cinquanta o al sessanta per cento. O tutto o niente.”
Papa Francesco Omelia del 14 ottobre 2018

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica affrontano il tema del matrimonio, l’unione dell’uomo con la donna, che affonda le radici nel mistero dell’amore di Dio Creatore e Redentore.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Genesi, l’autore sacro insegna con un linguaggio simbolico che Dio ha creato l’uomo e la donna parchè costituiscano nel matrimonio un’unione indissolubile, con uguali diritti e doveri.
Nella seconda lettura, l’autore della lettera agli Ebrei, afferma che Cristo Gesù “coronato di gloria e di onore” è insieme Figlio di Dio e vero uomo, nostro fratello. Egli ci ha salvato con la sua morte in croce per renderci tutti partecipi della Sua gloria.
Nel Vangelo di Marco, le frasi forti di Gesù risuonano più come appelli che come comando. Non annunciano solo un codice morale di comportamento in cui non è ammesso il divorzio, ma vogliono evidenziare i segni del tempo ultimo, del Regno di Dio che è proclamato da uno stile di fedeltà, di purezza, di accoglienza. E’ come se Gesù proponesse un superamento delle norme del tempo, per vivere già con lo spirito dell’eternità. Infatti, la elegge di Mosè ammetteva il ripudio, ma Gesù oppone a questa norma umana il piano eterno di Dio, citando il racconto della Genesi in cui l’unione di Cristo con la Chiesa, e in esso emerge la somiglianza dell’umanità con Dio che l’ha creata a Sua immagine: l’immagine dell’amore e dell’unità.

Dal libro della Genesi
Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda». Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta». Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne.
Gn 2,18-24

Il libro della Genesi è il primo libro della Bibbia e il primo del Pentateuco (i cinque libri raccolti in un unico rotolo: La Torà). E’ stato scritto in ebraico e si pensa composto nell'arco di tempo che intercorre tra Salomone ed Ezechia (950-680 a.C) sebbene la tradizione ebraica e varie confessioni religiose cristiane, ritengono persino che sarebbe stato scritto da Mosè in persona nel deserto, ma è solo pura immaginazione. Nei primi 11, dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica"(creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele e di Giuseppe), le cui vite si collocano nel vicino oriente (soprattutto in Palestina) del II millennio a.C. (la datazione dei patriarchi, tradizionale ma ipotetica, è attorno al 1800-1700 a.C.). Il libro della Genesi è suddiviso in due grandi sezioni. La prima, corrispondente ai capitoli 1-11, comprende il racconto della creazione e la storia del genere umano. La seconda sezione, dal capitolo 12 al capitolo 50, narra la storia del popolo eletto, mediante i racconti sui patriarchi.
Questo brano, l’autore di tradizione jahvista, lo apre con il bellissimo brano della creazione della donna: il creato, meraviglioso e perfetto nella sua creazione è stato donato da Dio all'uomo per la sua felicità, ma l'uomo non riusciva ad essere felice. Dio allora rivede quello che aveva fatto e disse: “«Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda». Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo”. E quando l'uomo la vide finalmente poté esclamare: “«Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta».”
Il racconto termina con la frase: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne.” Infatti l'uomo e la donna lasciano i propri genitori per aderire l'uno all'altra perché Dio ha voluto partner uguali e complementari, chiamati a formare una cosa sola.
Il simbolismo della costola, la figura insostituibile della donna, la complementarietà dei due sessi, qui celebrate con lo stupore dell’uomo innamorato che eleva al cielo il primo ed eterno canto d’amore: “Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne” hanno come scopo di sottolineare l’uguaglianza tra i due esseri e il fine per cui Dio li ha creati: l’amore. E’ per amore che essi abbandoneranno la loro casa per formare una sola carne, cioè un solo essere, e per donare, con Dio, la vita.

Nota: Nel Pentateuco si rilevano tre tradizioni compositive: quella jahvista, quella elohista e quella sacerdotale. La tradizione jahvista ebbe origine nella Giudea, mentre quella elohista nel nord della Palestina. Le due tradizioni convergono sostanzialmente sulla stessa storia, della tradizione jahvista ed elohista fanno parte del disegno divino di giungere al testo biblico e vanno considerate come ispirate. Le due tradizioni cominciarono a confluire in un unico patrimonio al tempo della costruzione del tempio di Salomone, centro religioso fondamentale sia del regno di Giuda che del regno di Israele (il regno del Nord). L’unificazione delle tradizioni jahvista ed elohista fu opera della tradizione sacerdotale.

Salmo 127 Ci benedica il Signore tutti i giorni della nostra vita.
Beato chi teme il Signore
e cammina nelle sue vie.
della fatica delle tue mani ti nutrirai,
sarai felice e avrai ogni bene.

La tua sposa come vite feconda
nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo
intorno alla tua mensa.

Ecco com’è benedetto
l’uomo che teme il Signore.
Ti benedica il Signore da Sion.

Il salmo ammonisce che senza il Signore non è possibile la sicurezza e il benessere: “Se il Signore non costruisce...”.
Si costruiscono case, le mura delle città sono custodite da armati, ferve il lavoro nei campi, ma manca un vivo orientamento a Dio.
Si lavora intensamente, con affanno, per avere ricchezza, ma Dio ne darebbe senza tutto quell'affannarsi, se si fosse uniti a lui: “Al suo prediletto egli lo darà nel sonno”.
L'affanno per la ricchezza porta a diminuire il tempo dato ai figli per formarli. Essi sono dono di Dio, e perciò dono che va amato, rispettato, accudito, fatto fiorire. “I figli avuti in giovinezza” il padre li può formare, unitamente alla madre, con tutto se stesso, con la piena vivacità delle sue forze, e si troverà ad essere giovane coi figli giovani, senza pesante salto d'età.
L'avara soluzione di diminuirne il numero dei figli non solo va contro l'interesse di una comunità (Il salmo guarda alla ripopolazione della Palestina dopo il ritorno dall'esilio a Babilonia), ma anche contro quello individuale; infatti i numerosi figli avuti nella giovinezza sono poi la sicurezza del padre: “Non dovrà vergognarsi quando verrà alla porta a trattare con i propri nemici”. I “propri nemici” non potranno sgretolarne il morale facendolo sentire solo, senza appoggio, e chi lo attacca non potrà rimproveralo di non avere saputo dare vigore, forza, ideale, ai propri figli.
Il salmo a noi uomini del terzo millennio ci dice che i figli sono dono di Dio, sono un talento che va fatto fruttificare con ogni cura. I figli non basta vestirli, scaldarli, nutrirli e mandarli a scuola, per poi parcheggiarli davanti al televisore e ai giochi. E non ci si può sentire a posto di fonte ai figli adolescenti per aver dato loro una buona cifretta da spendere con gli amici, secondo disegni liberamente elaborati tra di loro.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti.
Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza. Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli.
Eb 2,9-11

L’ autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso quasi concordemente questa attribuzione.
L’autore è certamente di origine giudaica, perchè conosce perfettamente la Sacra Scrittura, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se sono rimaste sconosciute.
Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravvivare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica.
Questo brano, tratto dalla prima parte della lettera, inizia affermando: “quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti”.
Gesù in quanto uomo rispetto agli angeli è di poco inferiore, ma in quanto uomo, realizza la vera vocazione dell'uomo, superandone i limiti e il peccato. Lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti. L'amore di Gesù si afferma in tutta la sua potenza nella sofferenza. Cristo scelse l'obbedienza a Dio attraverso l'amore per gli uomini, conquistandoli
“Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza”.
Conveniva, ossia era proprio necessario, che Dio facesse passare attraverso la sofferenza il proprio Figlio, e questa sofferenza lo ha portato ad essere perfetto. La perfezione che l'uomo non ha potuto raggiungere con le sue forze, la raggiunge Cristo. Non si tratta solo di una perfezione morale, bensì di tutto il Suo essere, e proviene da una forte comunione con il Padre. Gesù è stato capace di compiere fino in fondo la Sua missione ed è diventato il capo che guida l'umanità alla salvezza.
“Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli”.
Dio conduce molti figli alla gloria. Il primo è Gesù, ma poi seguono tutti gli altri sulla via da Lui tracciata. Tutti provengono da Dio e a Dio ritornano. Ecco perché veniamo chiamati fratelli. Nonostante le nostre infedeltà, le nostre imperfezioni abbiamo un futuro, una meta di santità verso cui guardare.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro:«Che cosa vi ha ordinato Mosè?».
Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla».
Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».
A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».
Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono.
Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva,imponendo le mani su di loro.
Mc 10,2-16

In questo brano l'evangelista Marco ci presenta Gesù mentre si reca nel territorio della Giudea oltre il Giordano, fuori perciò dalla Palestina, nella regione ad oriente del Giordano ( La Perea). E’ circondato da una grande folla composta da gente comune, ma anche da quei farisei che, non certo per trarre beneficio dal Suo insegnamento, vogliono solo fargli domande-trabocchetto nel tentativo di coglierlo in fallo.
I farisei si presentano dunque a Gesù con il chiaro intento di metterlo alla prova e gli “domandavamo se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie”.
Secondo la legislazione mosaica era lecito al marito (e a lui soltanto) allontanare la propria moglie nel caso avesse trovato in lei “qualcosa di vergognoso”; egli però doveva darle un documento di divorzio (Dt 24,1-4), in modo che lei poteva unirsi a un altro uomo senza essere considerata adultera.
Per tutta risposta Gesù chiede: “Che cosa vi ha ordinato Mosè?”. Ed essi rispondono: “Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla”.
Chiaramente la loro risposta si basa su quanto prescrive il Deuteronomio sul divorzio (c.24) . Gesù allora soggiunge: “Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma”.
Questa disposizione non è dunque da Dio, ma da Mosè, il quale ha permesso ciò non per sua libera decisione, ma “per la durezza del loro cuore” cioè per adattarsi alla mancanza di amore in cui l’uomo è venuto a trovarsi a causa del peccato (v. Ez 36,26). Poi dà la sua spiegazione: “Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola”.
Dio ha creato l’uomo e la donna come due esseri uguali e complementari e li ha chiamati ad unirsi in modo talmente completo da formare quasi un’unica persona (carne) (Gen 2,24).
Da queste citazioni della Torah Gesù dà questa conclusione: “Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”. In tal modo Egli sottolinea che, in realtà, secondo il piano originario di Dio, l’uomo e la donna sono chiamati a raggiungere nel matrimonio un’unione totale. Perciò conclude che l’uomo non può separare ciò che Dio ha unito in un modo così perfetto. Secondo il piano divino il matrimonio è dunque indissolubile, e nessuno può separare coloro che sono stati uniti in questo modo.
L’evangelista poi nota che “A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento”, e Gesù precisa: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio”.
Vengono così sottolineate due cose: anzitutto l’uomo commette adulterio verso la propria moglie solo se, dopo averla ripudiata, si risposa. Dal quanto scritto possiamo dedurre che non è tanto la separazione che conta, quanto piuttosto un secondo matrimonio della persona divorziata: solo facendo questo passo uno reca offesa al vincolo precedente; quindi se da una parte si riafferma la legalità del vincolo, dall’altra si accetta, in contrasto con quanto era stato detto prima, che due coniugi possono separarsi se la loro unione per un grave motivo non funziona. Si afferma anche che la stessa regola vale sia per l’uomo che per la donna. Uomo e donna sono su un piano di parità: questa precisazione era opportuna in una società, come quella romana, in cui anche le donne avevano la facoltà di divorziare.
Dopo la discussione sul divorzio l’evangelista racconta che a Gesù “presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono”. Ma Gesù interviene affinché i discepoli non impediscano ai bambini di andare da lui e afferma “Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso”
L’episodio dei bambini – a proposito dei quali è solo Marco ad annotare l’affetto umano di Gesù:”Lasciate che i bambini vengano a me…” evidenzia una completa divergenza tra Gesù e i discepoli nell'idea che si erano fatti della Sua missione.
I Suoi discepoli devono ancora imparare che il regno di Dio non è in mano alle persone che contano, che le preferenze di Dio sono rivolte a coloro che sono considerati insignificanti, che non hanno cioè valore giuridico, come i bambini, a coloro che sanno attendere e accogliere tutto da Lui, senza pretese, alla maniera dei piccoli. La reazione severa di Gesù, dà ragione alla spontaneità dei bambini e dei loro genitori e torto alla limitatezza dei discepoli.

 

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“Il Vangelo di questa domenica ci offre la parola di Gesù sul matrimonio.
Il racconto si apre con la provocazione dei farisei che chiedono a Gesù se sia lecito a un marito ripudiare la propria moglie, così come prevedeva la legge di Mosè. Gesù anzitutto, con la sapienza e l’autorità che gli vengono dal Padre, ridimensiona la prescrizione mosaica dicendo: «Per la durezza del vostro cuore egli – cioè l’antico legislatore – scrisse per voi questa norma» . Si tratta cioè di una concessione che serve a tamponare le falle prodotte dal nostro egoismo, ma non corrisponde all’intenzione originaria del Creatore.
E qui Gesù riprende il Libro della Genesi: «Dall’inizio della creazione (Dio) li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola» . E conclude: «Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».
Nel progetto originario del Creatore, non c’è l’uomo che sposa una donna e, se le cose non vanno, la ripudia. No. Ci sono invece l’uomo e la donna chiamati a riconoscersi, a completarsi, ad aiutarsi a vicenda nel matrimonio.
Questo insegnamento di Gesù è molto chiaro e difende la dignità del matrimonio, come unione di amore che implica la fedeltà. Ciò che consente agli sposi di rimanere uniti nel matrimonio è un amore di donazione reciproca sostenuto dalla grazia di Cristo. Se invece prevale nei coniugi l’interesse individuale, la propria soddisfazione, allora la loro unione non potrà resistere.
Ed è la stessa pagina evangelica a ricordarci, con grande realismo, che l’uomo e la donna, chiamati a vivere l’esperienza della relazione e dell’amore, possono dolorosamente porre gesti che la mettono in crisi. Gesù non ammette tutto ciò che può portare al naufragio della relazione. Lo fa per confermare il disegno di Dio, in cui spiccano la forza e la bellezza della relazione umana.
La Chiesa, da una parte non si stanca di confermare la bellezza della famiglia come ci è stata consegnata dalla Scrittura e dalla Tradizione; nello stesso tempo, si sforza di far sentire concretamente la sua vicinanza materna a quanti vivono l’esperienza di relazioni infrante o portate avanti in maniera sofferta e faticosa.
Il modo di agire di Dio stesso con il suo popolo infedele – cioè con noi – ci insegna che l’amore ferito può essere sanato da Dio attraverso la misericordia e il perdono. Perciò alla Chiesa, in queste situazioni, non è chiesta subito e solo la condanna. Al contrario, di fronte a tanti dolorosi fallimenti coniugali, essa si sente chiamata a vivere la sua presenza di amore, di carità e di misericordia, per ricondurre a Dio i cuori feriti e smarriti.
Invochiamo la Vergine Maria, perché aiuti i coniugi a vivere e rinnovare sempre la loro unione a partire dal dono originario di Dio.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 7 ottobre 2018

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica ci aiutano a farci comprendere che Dio è essenzialmente libero nel concedere i Suoi doni, Egli agisce al di fuori dei nostri schemi mentali (altrimenti non sarebbe Dio) e delle strutture consacrate, concedendo i suoi doni a chi vuole e come vuole.
Nella prima lettura, tratta dal libro dei Numeri, Giosuè va da Mosè per informarlo che due uomini, che non appartengono alla classe sacra dei 70 responsabili d’Israele, si sono messi a profetizzare, pervasi dallo spirito di Dio. Ma Mosè, nel commentare “Fossero tutti profeti nel popolo del Signore….” riconosce l’importanza della docilità allo Spirito di Dio, che soffia dove vuole, come vuole e su chi vuole…”
Nella seconda lettura, l’Apostolo Giacomo avverte con fermezza i ricchi che dovranno subire il giudizio di Dio, in modo speciale se i beni sono ottenuti dallo sfruttamento dei lavoratori.
Nel Vangelo di Marco, Gesù replica a Giovanni, che gli riferiva che qualcuno a suo nome scacciava i demoni, di non impedirglielo… perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi. Ciò vuol dire che tutti coloro che non scelgono il male, ma si consacrano al bene e alla promozione umana e spirituale dell’uomo, qualunque sia la loro sigla o la loro bandiera, sono già al fianco di Cristo. Gesù dà poi una serie di istruzioni sulla fedeltà del discepolo, pronto a tagliare via tutto ciò che può impedirgli di essere un vero cristiano. Ci sono espressioni volutamente forti, proprio per indicare la decisione unica per Cristo, davanti al quale tutto perde di importanza.
L’autentico apostolo deve provare sentimenti di gioia per il bene che è seminato in ogni uomo, in ogni cultura e razza, perchè è convinto del valore del pluralismo e del dialogo. La tentazione settaria che vuole monopolizzare Dio, in un gruppo è anche una degenerazione della fede, anche se si illude di conservarne la purezza.

Dal libro dei Numeri
In quei giorni, il Signore scese nella nube e parlò a Mosè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito. Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad. E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento.
Un giovane corse ad annunciarlo a Mosè e disse: «Eldad e Medad profetizzano nell’accampamento». Giosuè, figlio di Nun, servitore di Mosè fin dalla sua adolescenza, prese la parola e disse: «Mosè, mio signore, impediscili!». Ma Mosè gli disse: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!».
Nm 11,25-29

Il libro dei Numeri, il quarto libro della Bibbia, è stato scritto in ebraico e, secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. La tradizione ebraica e varie confessioni religiose cristiane, ritengono persino che sarebbe stato scritto da Mosè in persona, ma la maggioranza degli esegeti moderni ritiene che tutto il Pentateuco sia in realtà una raccolta, formatasi in epoca post-esilica, di vari scritti di epoche diverse. “Numeri” è il titolo che l'antica traduzione greca ha dato a questo libro perchè contiene elenchi e censimenti degli Israeliti in cammino verso la "Terra promessa". È composto da 36 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.). Infatti molti eventi del Libro avvengono nel deserto, principalmente tra il secondo ed il quarantesimo anno del vagabondare degli Israeliti. I primi 25 capitoli riportano le esperienze della prima generazione d’Israele nel deserto, mentre il resto del libro descrive le esperienze della seconda generazione.
Il brano inizia narrando che il Signore scese nella nube e ancora una volta parla a Mosè “tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito.” Lo spirito qui è visto come un’azione più o meno permanente di Dio sul soggetto scelto; un’azione che trasforma l’uomo in profeta, anche se in tempo limitato. Lo spirito che è su Mosè passa sui settanta; essi dunque partecipano del dono di Mosè, ma in grado subordinato perché “non lo fecero più in seguito”. Il testo prosegue precisando: “Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad. E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento.”
I due uomini che non erano andati alla tenda del convegno, ma erano scritti nella lista, si misero dunque anch’essi a profetare. Giosuè viene informato da un giovane che due uomini qualsiasi, senza appartenere alla classe sacra dei 70 responsabili d’Israele e senza avere investiture ufficiali si sono messi a profetizzare, pervasi dallo Spirito di Dio.
Giosuè preoccupato, chiede «Mosè, mio signore, impediscili!». La risposta di Mosè centra subito la “gelosia” e il potere egoistico che è tipico di tutte le sètte e i movimenti integralistici : “Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!». Nessuna istituzione, benché di origine divina, può impedire dunque allo Spirito di soffiare dove vuole e come vuole.
Riferendosi a questo episodio la Chiesa definisce locuzione interiore il rapporto che nasce tra il cuore dell'uomo e l'ascolto della parola di Dio. È di fondamentale importanza il silenzio interiore per arrivare a questa realtà.
Il teologo A.Tanquerey definisce il fenomeno cosi: "la locuzione interiore è una manifestazione divina sotto forma di parola intesa dai sensi esterni ed interni o direttamente dall'intelletto umano. Esse sono parole o di Gesù o della Madonna o dello Spirito Santo chiarissime, avvertite dalla persona che le riceve come se nascessero dal cuore, e che, collegate fra loro, formano un messaggio“.

Salmo 18 - I precetti del Signore fanno gioire il cuore.
La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.

Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.

Anche dall’orgoglio salva il tuo servo
perché su di me non abbia potere;
allora sarò irreprensibile,
sarò puro da grave peccato.

Il salmista si esprime considerando, in stato di riflessione laudante, la grandezza, la potenza, la bellezza dei cieli, della volta stellata……..
Il Creatore dell’universo ha stretto alleanza con il suo popolo dando una legge che è perfetta, perché non può ricevere appunti, e che rinfranca il cuore liberandolo dalle tenebre dell’ingiustizia. Questa legge d’amore è portata al suo vertice dal Cristo che la stampa nel cuore dei suoi dando loro lo Spirito Santo.
La legge, portata a compimento da Cristo, è la testimonianza dell’amore di Dio per gli uomini. Tale testimonianza, che è stata sigillata dal sangue di Cristo, non delude. Essa è verace, luminosa, e rende saggio colui che non si presenta a Dio col vizio di pensieri oscuri.
Il salmista ha sperimentato nella sua vita quanto sia giusta la legge del Signore, tanto che fa gioire il cuore.
La legge, i suoi comandi, sono limpidi, perché non oscurano gli occhi portandoli a veder in modo malvagio le cose, ma li liberano dalle oscurità per dare loro la capacità di un luminoso vedere la bellezza delle cose,che inneggiano al Creatore e servono l’uomo.
“Il timore del Signore è puro”, perché non è come quello di chi teme la punizione perché colpevole, ma è il timore puro di chi teme di giungere a rattristare Dio con la disobbedienza alla legge d’amore verso lui e verso gli altri.
Il salmista comincia a focalizzarsi sull’effetto della legge su di lui; di lui che è piccolo, ma che è istruito dai giudizi di Dio, che sono contenuti nella legge, poiché Dio giudica gli uomini con quella legge.
Il salmista è consapevole di avere tante mancanze di cui non si rende pienamente conto: le “inavvertenze”. Di queste chiede a Dio perdono. Egli, infatti, anche se osserva la legge non reputa per niente di osservarla perfettamente e sa che sta nell’orgoglio la ragione di una scarsa osservanza. Orgoglio che se non dominato conduce l’uomo al grande peccato, cioè al peccato di una grande e palese disobbedienza alla legge.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”i

Dalla lettera di S.Giacomo apostolo
Ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni
Ecco il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore onnipotente. Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza.
Gc 5,1-6

Questo brano tratto dal capitolo 5 della lettera di Giacomo ci stupisce perchè ha espressioni violente, che troviamo sin dal primo versetto: “Ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco….“
Il linguaggio che viene usato ricorda quello degli antichi profeti, quando si scagliavano contro i misfatti della classe dirigente e benestante che angariavano e calpestavano i poveri.
Questa invettiva che Giacomo scaglia contro i ricchi, si riferisce ai loro beni a cui hanno consacrato la loro vita. E’ un linguaggio palesemente metaforico per indicare l’inutilità di questi beni e tutta la loro inconsistenza, poiché tutto ciò che è posto in questa nostra dimensione di spazio-tempo è soggetto ad essere inevitabilmente consumato e distrutto.
Giacomo rimprovera poi il loro comportamento improntato alla più profonda malvagità e superficialità del vivere defraudando i lavoratori del loro giusto salario, condannando e uccidendo così il giusto, che non è nella condizione di opporre loro resistenza.
Possiamo però anche dire che i destinatari non sono solo i cosiddetti ricchi, perché se ci pensiamo bene, tutti noi, quando siamo smaniosi di “avere”, di “possedere”, teniamo in gran conto le nostre ricchezze (tante o poche che siano) come il bene principale, il tesoro della nostra vita: un tesoro che ci costa fatica volerlo condividere con gli altri. La linea di confine tra ricchi e poveri non passa attraverso le differenze sociologiche, perché ci sono (e ci sono sempre stati, anche ai tempi di Gesù) ricchi dal cuore aperto a condividere tutto, veramente poveri nello spirito, ma anche poveri sulla carta, che sono smaniosi di possesso e che, ottenuto qualche bene di fortuna, o qualche eredità, sono del tutto recalcitranti ad aiutare gli altri.
Come deve comportarsi il vero cristiano? La parabola dell’uomo ricco che Gesù aveva raccontato è quanto mai efficace. Questo uomo ricco, aveva fatto un raccolto così grande che la sua preoccupazione era solo di ingrandire i magazzini per poterci raccogliere meglio tutti i suoi beni “Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio” Lc 12,20
Ricordiamoci che siamo solo amministratori dei nostri beni e non possessori, che tutto ci è stato dato in prestito, anche la vita, che dobbiamo restituire al nostro Creatore, con i talenti che ci ha dato, messi a frutto.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi.
Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa.
Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna.
E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».
Mc 9.38-43,45,47-48

Anche questo brano del Vangelo di Marco, fa parte della raccolta che l’Evangelista ha inserito dopo il secondo dei tre annunzi di Gesù della Sua morte e risurrezione.
Ci troviamo a Cafarnao, nella casa in cui Gesù è giunto con i suoi discepoli, e Giovanni riferisce a Gesù un fatto capitato poco prima: “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva”. Giovanni è il figlio di Zebedeo, uno dei primi quattro che Gesù ha scelto (V. Mc 1,19). Con suo fratello Giacomo si distingue dagli altri per la sua ambizione e per la sua passione, che gli ha guadagnato il titolo di “figlio del tuono” (3,17; cfr. Lc 9,54-55). Questa è l’unica volta in cui egli parla a nome di tutto il gruppo dei discepoli.
La pratica di scacciare i demòni nel nome di un personaggio particolarmente autorevole era consueto nel giudaismo. Non sorprende quindi il fatto che certi esorcisti, pur non essendo della cerchia di Gesù, si servissero del suo nome per le loro pratiche: un episodio simile capitò anche a Paolo mentre si trovava a Efeso (V. At 19,13).
Giovanni dunque intende impedire l’attività dell’uomo perché, dice, “non ci seguiva” cioè non era membro del loro gruppo. Questo è l’unico punto nel N.T. in cui si parla di seguire non Gesù, ma il gruppo dei discepoli, per cui è possibile che questa espressione faccia parte del linguaggio della prima comunità cristiana, nella quale era forte la tendenza a sentirsi depositaria esclusiva del nome di Gesù e dei Suoi poteri soprannaturali.
Il racconto è collegato al noto episodio riportato dal Libro dei Numeri, che la Liturgia ce lo propone nella prima lettura, e come Mosè, anche Gesù respinge la richiesta che gli è stata fatta: “Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi”.
Gesù ridimensiona le pretese di Giovanni e dei suoi discepoli. Compiere i miracoli nel nome di Gesù è come aver riconosciuto la Sua autorità, è già essere stati illuminati dallo Spirito Santo (lo dirà anche Paolo:"Nessuno può dire Gesù è il Signore se non sotto l'azione dello Spirito Santo”, 1Cor 12,3). La comunità dei credenti in Cristo è molto più grande del ristretto gruppo dei discepoli e Gesù invita i Suoi a non rinchiudersi in una mentalità chiusa e settaria.
Viene poi riportato un detto che si colloca sulla stessa linea: “Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa” perciò anche senza appartenere al gruppo dei discepoli, è sufficiente un gesto di amicizia e di solidarietà nei loro confronti per ottenere la “ricompensa” a loro riservata. I discepoli non possono quindi pretendere di avere l’esclusiva della salvezza portata dal loro Maestro!.
Poi viene riportata un piccola raccolta di detti incentrata sul tema dello scandalo e delle sue conseguenze.
Nel primo detto Gesù afferma:
“Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare.”.Queste parole sono riferite ad una comunità divisa, in cui i piccoli, cioè i cristiani più deboli e impreparati, possono essere indotti da altri, più liberi, progressisti e intellettuali, a commettere azioni contrarie alla loro coscienza e quindi a peccare . La frase, chiaramente esagerata, mette in luce la gravità di gesti sconsiderati, che possono portare il prossimo a comportarsi in modo contrario alla volontà di Dio.
Nei detti successivi viene ripreso il tema dello scandalo, mediante tre esempi:
”Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile.
E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna.
E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue”.
Si può intendere questo discorso in due modi: o lo scandalo che viene dato da un membro della comunità, oppure le azioni o le situazioni della vita di una singola persona che la possono scandalizzare, ossia farla rinunciare alla fede.
Nel primo caso la persona che dà scandalo alla comunità deve esserne allontanata decisamente. La stessa decisione deve essere utilizzata da ogni singola persona davanti a ciò che può far vacillare la propria fede. Il vero scandalo nasce dalle nostre azioni, dai nostri desideri, ecco perché Gesù parla di mano, piede ed occhio.
Secondo la mentalità ebraica le parti del corpo sono la sede dei diversi istinti umani. La mano in particolare è la sede delle azioni, molto spesso la mano viene descritta nel versare sangue innocente (Sir 6,18). La Geenna era la valle di Hinnon, a sud di Gerusalemme, di cui si parla già in Giosuè (15,8). All'epoca dei re Ahas e Manasse, la zona cadde in discredito poiché vi si sacrificavano figli e figlie agli dei, "facendoli passare per il fuoco" (2Re 23,10). Poiché la contaminazione veniva considerata troppo grande, la zona fu poi adibita a inceneritore per i rifiuti e le carogne degli animali. Era opinione comune che in questa "fossa maledetta" ci sarebbe stato il castigo finale. Quindi era meglio perdere una parte sola del corpo piuttosto che perdere tutto il corpo e tutta l'anima nel fuoco del giudizio finale.
Lo stesso discorso vale per il piede, inteso nel senso delle vie sbagliate che una persona può intraprendere.
Infine viene preso in considerazione l'occhio. Nella Bibbia si parla di occhi superbi e insaziabili (Sir. 6,17; 27,22). L'occhio esprime il desiderio della persona, quando guarda una cosa o una persona insistentemente per farla propria. Anche per l'occhio perciò vale lo stesso discorso,
Infine l’affermazione finale “dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue” trova riscontro nel versetto che chiude il Libro di Isaia (66,24), che contiene una profezia per l'avvenire , in cui Isaia prevede nuovi cieli e nuova terra, in cui tutti i popoli aderiranno al Signore, saliranno al tempio del Signore (a Gerusalemme) e lo adoreranno. Uscendo dal tempio vedranno coloro che si sono ribellati a Dio soffrire il supplizio continuo del verme e del fuoco..
Le due immagini del verme e del fuoco sono molto usate nell'Antico Testamento per indicare il castigo di chi non accetta il Signore e come simbolo di dissoluzione. Il verme è l'agente di decomposizione del corpo umano e il fuoco veniva utilizzato spesso per la distruzione dei cadaveri.
Questi detti, che Matteo riporta con sfumature diverse, nel contesto del discorso della Montagna (V. Mt 5,29-30), sono molto antichi e mettono bene in luce la radicalità delle scelte che Gesù richiedeva ai suoi discepoli.
Chiaramente Gesù non esige dai suoi che siano perfetti, ma piuttosto che sappiano ritornare sempre a ciò che costituisce il fulcro del suo messaggio, senza scendere a compromessi con la mentalità di questo mondo.

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“Il Vangelo di questa domenica ci presenta uno di quei particolari molto istruttivi della vita di Gesù con i suoi discepoli. Questi avevano visto che un uomo, il quale non faceva parte del gruppo dei seguaci di Gesù, scacciava i demoni nel nome di Gesù, e perciò volevano proibirglielo. Giovanni, con l’entusiasmo zelante tipico dei giovani, riferisce la cosa al Maestro cercando il suo appoggio; ma Gesù, al contrario, risponde: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi».
Giovanni e gli altri discepoli manifestano un atteggiamento di chiusura davanti a un avvenimento che non rientra nei loro schemi, in questo caso l’azione, pur buona, di una persona “esterna” alla cerchia dei seguaci. Invece Gesù appare molto libero, pienamente aperto alla libertà dello Spirito di Dio, che nella sua azione non è limitato da alcun confine e da alcun recinto. Gesù vuole educare i suoi discepoli, anche noi oggi, a questa libertà interiore.
Ci fa bene riflettere su questo episodio, e fare un po’ di esame di coscienza. L’atteggiamento dei discepoli di Gesù è molto umano, molto comune, e lo possiamo riscontrare nelle comunità cristiane di tutti i tempi, probabilmente anche in noi stessi. In buona fede, anzi, con zelo, si vorrebbe proteggere l’autenticità di una certa esperienza, tutelando il fondatore o il leader dai falsi imitatori. Ma al tempo stesso c’è come il timore della “concorrenza” – e questo è brutto: il timore della concorrenza –, che qualcuno possa sottrarre nuovi seguaci, e allora non si riesce ad apprezzare il bene che gli altri fanno: non va bene perché “non è dei nostri”, si dice. E’ una forma di autoreferenzialità. Anzi, qui c’è la radice del proselitismo. E la Chiesa – diceva Papa Benedetto - non cresce per proselitismo, cresce per attrazione, cioè cresce per la testimonianza data agli altri con la forza dello Spirito Santo.
La grande libertà di Dio nel donarsi a noi costituisce una sfida e una esortazione a modificare i nostri atteggiamenti e i nostri rapporti. È l’invito che ci rivolge Gesù oggi. Egli ci chiama a non pensare secondo le categorie di “amico/nemico”, “noi/loro”, “chi è dentro/chi è fuori”, “mio/tuo”, ma ad andare oltre, ad aprire il cuore per poter riconoscere la sua presenza e l’azione di Dio anche in ambiti insoliti e imprevedibili e in persone che non fanno parte della nostra cerchia. Si tratta di essere attenti più alla genuinità del bene, del bello e del vero che viene compiuto, che non al nome e alla provenienza di chi lo compie. E – come ci suggerisce la restante parte del Vangelo di oggi – invece di giudicare gli altri, dobbiamo esaminare noi stessi, e “tagliare” senza compromessi tutto ciò che può scandalizzare le persone più deboli nella fede.
La Vergine Maria, modello di docile accoglienza delle sorprese di Dio, ci aiuti a riconoscere i segni della presenza del Signore in mezzo a noi, scoprendolo dovunque Egli si manifesti, anche nelle situazioni più impensabili e inconsuete. Ci insegni ad amare la nostra comunità senza gelosie e chiusure, sempre aperti all’orizzonte vasto dell’azione dello Spirito Santo.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 30 settembre 2018

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica ci invitano ad un discernimento e a una scelta: quale sapienza vogliamo abbracciare? Quella del mondo o quella del Vangelo?
Nella prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, l‘autore, nel ragionamento degli empi, nel quale appare chiaro quanto essi sragionino e sbagliano, ci dà, come in controluce, l'identità luminosa del giusto, prefigurazione dell'identità salvifica del Giusto per eccellenza, Gesù di Nazareth.
Nella seconda lettura, l’Apostolo Giacomo afferma che il vero sapiente è colui che si prodiga per la pace. e che cerca con tutte le proprie forze il Dio che l'ama e a Lui si dona. Lo cerca in semplicità come il Bene supremo da cui derivano tutti gli altri beni.
Nel Vangelo di Marco, troviamo il secondo annuncio della passione. Anche questa volta l’evangelista evidenzia la resistenza da parte dei discepoli nel comprendere la missione di Gesù. Dopo il primo annuncio era stato Pietro ad opporre resistenza, oggi è l’intero gruppo che discute su chi fosse il più grande Mentre Gesù annuncia di farsi servo di tutti fino alla Croce, i discepoli discutevano chi tra loro fosse il più grande!
Gesù ci insegna che non nell’affermazione del potere, ma nell’umile servizio dei fratelli, soprattutto dei piccoli, come i bambini, sta la grandezza del cristiano.

Dal Libro della Sapienza
Dissero gli empi:
«Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo
e si oppone alle nostre azioni;
ci rimprovera le colpe contro la legge
e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta.
Vediamo se le sue parole sono vere,
consideriamo ciò che gli accadrà alla fine.
Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto
e lo libererà dalle mani dei suoi avversari.
Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti,
per conoscere la sua mitezza
e saggiare il suo spirito di sopportazione.
Condanniamolo a una morte infamante,
perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».
Sap 2,12.17-20

Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico. È stato composto ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. probabilmente da Filone o da un suo discepolo, e si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”) L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, (anche allora ci si ricorreva) per mettere questo scritto, come del resto il Qoelet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele. Il libro è stato scritto tutto in greco ed è composto da 19 capitoli con vari detti di genere sapienziale, in particolare con l'esaltazione della Sapienza divina personificata.
L‘autore nel capitolo 2, da dove è tratto il nostro brano, affronta seriamente il problema di che cosa siamo e che cosa rimarrà di noi dopo la morte, ponendo ipotetiche questioni, poi in questo brano, ipotizza il ragionamento degli empi: “Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta”, in cui appare chiaro quanto essi sragionino e sbagliano. Il motivo del loro odio è la persona stessa del giusto, che con la sua debolezza e mitezza, ma soprattutto, la sua vita condotta in modo diverso, costituisce per loro, da sola, un rimprovero e una condanna. “Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine. Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Il libro della Sapienza, scritto almeno 50 prima di Gesù, non poteva riferirsi immediatamente a Lui, ma al giusto che accoglie la parola di Dio che a quel tempo veniva considerato figlio di Dio. Questo valeva per tutti i popoli, e per tutte le religioni. Solo dopo inizierà la fase della "nuova alleanza" con Gesù, che sarà il modello della figliolanza, per cui siamo chiamati a diventare figli in Lui. Prima i giusti erano comunque figli di Dio.
Il testo continua riportando il loro piano di come metterlo alla prova : “Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione” fino alla soluzione sprezzante finale “Condanniamolo a una morte infamante, perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».
E’ evidente come i primi cristiani leggendo questo passo hanno trovato un aiuto in più per capire la morte di Gesù, le sue scelte, la fedeltà all'annuncio del vangelo in una situazione di rifiuto e di rischio di morte.
Per concludere, non dobbiamo però pensare che la sofferenza sia una prova che Dio esige perché Lui ci conosce più di quanto noi conosciamo noi stessi, e non ha bisogno di nessuna prova, per cui non è necessario dover soffrire per essere giusti. Il Signore ci chiede solo di non stancarci mai di camminare nella direzione del bene, per questo è necessario chiederci sempre quali siano le ragioni delle nostre scelte, anche quando operiamo il bene.
C’è uno scritto di Thomas Merton che ci può essere di aiuto anche come preghiera:
« Io, Signore Iddio, non ho nessuna idea di dove sto andando. Non vedo la strada che mi sta davanti.
Non posso sapere con certezza dove andrò a finire. Secondo verità, non conosco neppure me stesso e il fatto che penso di seguire la tua volontà non significa che lo stia davvero facendo.
Ma sono sinceramente convinto che in realtà ti piaccia il mio desiderio di piacerti e spero di averlo in tutte le cose, spero di non fare mai nulla senza tale desiderio. So che, se agirò così, la tua volontà mi condurrà per la giusta via,quantunque io possa non capirne nulla. Avrò sempre fiducia in te, anche quando potrà sembrarmi di essere perduto e avvolto nell'ombra della morte.

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Salmo 53 Il Signore sostiene la mia vita.

Dio, per il tuo nome salvami,
per la tua potenza rendimi giustizia.
Dio, ascolta la mia preghiera,
porgi l’orecchio alle parole della mia bocca.

Poiché stranieri contro di me sono insorti
e prepotenti insidiano la mia vita;
non pongono Dio davanti ai loro occhi.

Ecco, Dio è il mio aiuto,
il Signore sostiene la mia vita.
Ti offrirò un sacrificio spontaneo,
loderò il tuo nome, Signore, perché è buono.

Il salmo, molto breve, presenta un’invocazione a Dio per la salvezza contro nemici forti e arroganti. Il salmista è perseguitato a morte e chiede l’intervento di Dio: “Per la tua potenza rendimi giustizia”.
C’è nel salmo un’invocazione di maledizione sui nemici che la recitazione cristiana omette perché il cristiano rimette, come Cristo (1Pt 2,23), la sua causa a Dio senza maledire.
Il salmista sperimenta l’aiuto del Signore di fronte alla dura aggressione e promette di offrire a Dio un sacrificio, un olocausto. Un sacrificio non semplicemente rituale, ma ricco di lode al nome di Dio, cioè alla sua grandezza, potenza, fedeltà, bontà, misericordia. Dio è tutto questo ed è riconosciuto nella lode e nel ringraziamento per tutto questo. Il sacrificio che noi possiamo offrire a Dio è il nostro impegno di vita, la nostra penitenza, la quale nasce dal nostro essere in Cristo nell’unione al sacrificio Eucaristico.
Dio ha concesso al salmista, al re, la liberazione dai nemici, che può ormai guardare senza sgomento alcuno dalle mura della città. Il cristiano vince continuando ad amare; guarda dall'alto i suoi aggressori, cioè dalla sua condizione di figlio di Dio che lo fa luce posta sul candelabro della croce, guarda senza astio, né maledizione, ma con amore i suoi oppressori: “Il mio occhio ha guardato dall'alto i miei nemici”.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera di S.Giacomo apostolo
Fratelli miei, dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia.
Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni.
Gc 3,16-4,3

In questo brano della lettera di S. Giacomo, si può dedurre che anche ai suoi tempi, il mondo era segnato da una falsa sapienza che, non essendo quella che "viene dall'alto" (cioè da Dio), irretisce l'uomo portandolo a conseguire beni che hanno funzionalità immediate, ma solo per la vita terrena.
Il brano inizia affermando “dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera.”
La sapienza che viene dall’alto dunque “anzitutto è pura”, cioè è esente da inquinamenti terreni. E’ “pacifica”, poiché opera per la pace e non per il disordine. E’ “mite”, cioè rifugge la collera, la polemica fine a se stessa. E’ “arrendevole”, non perché sia portata ai compromessi, ma perché sa accogliere le ragioni giuste degli altri e quindi è accogliente. E’ “piena di misericordia e di buoni frutti”, poiché perdona; va oltre il peccato dell’altro per cercarne il cuore e liberalo dal peccato, e in questo ha tanti “buoni frutti”. E’ “imparziale”, cioè rifiuta i favoritismi. E’ “sincera”, cioè non risiede in un cuore falso.
“Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia”.
A chi fa “opera di pace” Dio semina “nella pace”, cioè non in un cuore instabile, un “frutto di giustizia”. Il “frutto di giustizia” è un frutto che nutre l’anima di luce e di vigore. E’ “di giustizia” poiché vive delle promesse di Dio.
“Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra?”
Giacomo, dal carattere mite qui sa essere anche irruente, ha un tomo forte, incisivo, eppure ancora dolce. “La ragione profonda dei litigi, delle guerre di vicinato o non, sta nelle passioni che travolgono una natura non guidata dallo spirito.
“Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra!”
Giacomo pensa a coloro che, non ottenendo i risultati desiderati, si scagliano contro chi possiede. L’invidia toglie loro la pace e li spinge a lotte che diventano guerre.
Le comunità cristiane della diaspora giudaica alle quali Giacomo si rivolge avevano perso il vigore iniziale, e non mancavano problemi morali gravi.
“Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni“. Costoro, dominati dalle passioni, non riuscendo ad ottenere il soddisfacimento dei loro desideri mondani, non riescono neppure ad ottenere ciò che chiedono a Dio. La loro preghiera risulta infatti viziata nella domanda e nella fede, perché non mossa dall’amore, ma dalla bramosia di cose terrene.
Giacomo in sintesi ci vuole far comprendere che la persona pervasa dalla “sapienza che viene dall’alto” è una persona dal cuore retto, libero da ogni ipocrisia, che cerca con tutte le proprie forze il Dio che l'ama e a Lui si dona. Lo cerca in semplicità come il Bene supremo da cui derivano tutti gli altri beni.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».
Mc 9, 30-37

Questo brano del Vangelo di Marco, che fa parte della sezione in cui si descrive il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, si apre nel punto in cui viene riportato il secondo annunzio della passione.
L’evangelista inizia cosi il suo racconto: “Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà».
Gesù predice per la seconda volta la Sua morte e risurrezione in una breve apparizione in Galilea, durante la quale cerca di mantenere segreta la Sua presenza. Quanto Gesù dice circa i tragici eventi che lo aspettano è presentato da Marco non come un semplice preannuncio di un evento futuro, ma come un vero e proprio “insegnamento” fatto ai discepoli e per mezzo loro a tutti i discepoli di ogni tempo e di ogni luogo.
L’espressione “consegnare nelle mani” è di solito usata per indicare l’atto con cui una persona è data in balìa di un potere nemico. Con essa di solito viene descritta la situazione dei giusti perseguitati descritta da Geremia (26,24), e soprattutto quella del Servo di JHWH (V. Is 53,6.12). Gesù aggiunge che, a seguito di ciò, gli sarà riservata una morte violenta, ma predice nuovamente anche la Sua risurrezione che avverrà dopo tre giorni, Questa predizione, come le altre due, rivela la determinazione con cui Gesù compie le Sue scelte, sapendo a cosa andrà incontro, ma che solo così potrà portare a compimento il Suo progetto.
Al termine l’evangelista sottolinea: “Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo”.
Ancora una volta emerge l’incomprensione da parte dei discepoli, i quali non hanno neanche il coraggio di fargli delle domande dirette.
Subito dopo la predizione della Sua morte e risurrezione Marco riporta che “Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?»”. Il dialogo tra Gesù e i discepoli ha luogo dunque a Cafarnao, in una casa (si ipotizza quella di Pietro) ed è lì che Gesù chiede ai discepoli di che cosa avevano discusso “lungo la strada”.
La domanda di Gesù è accolta da un silenzio imbarazzato perché “Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande” . I discepoli sanno di aver affrontato un tema non certo gradito a Gesù, quello cioè di chi tra loro dovesse essere considerato il primo; i discepoli pensavano ancora di poter ricavare privilegi e gloria dal loro coinvolgimento nel gruppo di Gesù: essi non solo non lo avevano capito ma non erano minimamente in sintonia con Lui. Il loro imbarazzo fa percepire che cominciavano a rendersene conto.
Il racconto continua riportando l’atteggiamento di Gesù: “Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». Sedendosi, Gesù assume l’atteggiamento tipico del maestro, e si rivolge espressamente ai Dodici, che hanno condiviso con Lui la missione.
Anche qui il suo insegnamento è rivolto a tutti i discepoli di ogni tempi e di ogni luogo, e in modo speciale ai capi della Chiesa. In contrasto con quanto essi pensavano, Egli afferma che chi vuole essere primo, deve farsi “ultimo di tutti e il servitore di tutti”
Il secondo detto viene accompagnato da un gesto simbolico:
“E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».”
Il gesto di Gesù è un po‘ sorprendente perché nell’antico Oriente il bambino non era molto considerato, per cui Gesù provocatoriamente capovolge la normale concezione secondo cui il bambino può essere solo oggetto di educazione da parte dell’adulto, per diventare un soggetto che ha un messaggio prezioso da trasmettere proprio a colui che gli è per età, cultura e maturità, superiore.
Questo bambino, diviene così anche l’immagine del vero seguace, cioè l’immagine del discepolo che veramente si mette a servizio degli altri.
Gesù garantisce che dove c’è un individuo che per amore, liberamente e volontariamente, si mette a servizio degli altri, in questa persona si manifesta la Sua presenza e la presenza di Gesù porta quella di Dio stesso.

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“Non si può vivere il Vangelo facendo compromessi, altrimenti si finisce con lo spirito del mondo, che punta al dominio degli altri ed è «nemico di Dio»; ma bisogna scegliere la strada del servizio.
La riflessione del Papa, nell’omelia di martedì 25 febbraio, alla messa a Casa Santa Marta, è partita dal brano del Vangelo (Mc 9, 30-37) nel quale Gesù dice ai Dodici che se uno vuole essere il primo è chiamato a farsi ultimo e servitore di tutti.
Gesù sapeva che lungo la strada i discepoli avevano discusso tra loro su chi fosse il più grande «per ambizione».
Questo litigare dicendo «io devo andare avanti, io devo salire», ha spiegato il Pontefice, è lo spirito del mondo. Ma anche la prima lettura della liturgia del giorno (Gc 4, 1-10) ricalca questo aspetto, quando l’apostolo Giacomo ricorda che l’amore per il mondo è nemico di Dio. «Quest’ansia di mondanità — ha osservato il Papa — quest’ansia di essere più importante degli altri e dire: “No! Io merito questo, non lo merita quell’altro”. Questo è mondanità, questo — ha proseguito — è lo spirito del mondo e chi respira questo spirito, respira l’inimicizia di Dio».
«Gesù, in un altro passo, dice ai discepoli: “O siete con me o siete contro di me”. Non ci sono compromessi nel Vangelo. E quando uno vuole vivere il Vangelo facendo dei compromessi — ha commentato — alla fine si trova con lo spirito mondano, che sempre cerca di fare compromessi per arrampicarsi di più, per dominare, per essere più grande».
Tante guerre e tante liti vengono proprio dai desideri mondani, dalle passioni, ha evidenziato il Papa facendo ancora riferimento alle parole di san Giacomo. È vero «oggi tutto il mondo è seminato da guerre. Ma le guerre che sono fra di noi? Come quella che c’era fra gli apostoli: chi è il più importante?», si è chiesto Francesco. «“Guardate la carriera che ho fatto: adesso non posso andare indietro!”. Questo è lo spirito del mondo e questo non è cristiano. “No! Tocca a me! Io devo guadagnare di più per avere più soldi e più potere”. Questo è lo spirito del mondo», ha sottolineato il Pontefice. «E poi, la malvagità delle chiacchiere: il pettegolezzo. Da dove viene? Dall’invidia. Il grande invidioso — ha ribadito Francesco — è il diavolo, lo sappiamo, lo dice la Bibbia. Dall’invidia. Per l’invidia del diavolo entra il male nel mondo. L’invidia è un tarlo che ti spinge a distruggere, a sparlare, a annientare l’altro».
Nel dialogo dei discepoli c’erano tutte queste passioni e per questo, ha sostenuto Francesco, Gesù li rimprovera e li esorta a farsi servitori di tutti e a prendere l’ultimo posto: «Chi è il più importante nella Chiesa? — si è domandato — Il Papa, i vescovi, i monsignori, i cardinali, i parroci delle parrocchie più belle, i presidenti delle associazioni laicali? No! Il più grande nella Chiesa è quello che si fa servitore di tutti, quello che serve tutti, non che ha più titoli. E per far capire questo prese un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo con tenerezza — perché Gesù parlava con tenerezza, ne aveva tanta — disse loro: “Chi accoglie un bambino, accoglie me”, cioè chi accoglie il più umile, il più servitore. Questa è la strada», ha affermato Francesco sottolineando ancora che «la strada contro lo spirito del mondo è una sola: l’umiltà. Servire gli altri, scegliere l’ultimo posto, non arrampicarsi».
Non bisogna, quindi, «negoziare con lo spirito del mondo», non bisogna dire: «Ho diritto a questo posto, perché guardate la carriera che ho fatto». La mondanità, infatti, ha concluso il Papa, «è nemica di Dio». Bisogna invece ascoltare questa parola «tanto saggia» e incoraggiante che Gesù dice nel Vangelo: «Se uno vuole essere il primo sia l’ultimo di tutti, sia il servitore di tutti».”

Meditazione Mattutina di Papa Francesco nella cappella della Domus Sanctae Marthae
Il più grande è chi serve non chi ha più titoli
Martedì, 25 febbraio 2020

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica ci aiutano a comprende che seguire Cristo significa percorrere in spirito il Suo cammino, che conduce alla gloria ma attraverso la croce.
Nella prima lettura, il Profeta Isaia, annunzia che il “Servo di Dio”, cioè il Messia, sarà inviato a portare a compimento il progetto di salvezza, e compirà la sua missione attraverso la sofferenza, certo della sua innocenza e della protezione di Dio
Nella seconda lettura, l’Apostolo Giacomo ci esorta a riflettere sull'autenticità della nostra fede e ci invita a tenere insieme fede e opere: la fede deve incarnarsi nella vita e la vita lasciarsi plasmare dalla fede.
Nel Vangelo di Marco, troviamo Gesù che sembra provocare i suoi discepoli, quando chiede loro: "Chi dice la gente che io sia?" per arrivare a porre loro la domanda più importante: "E voi chi dite che io sia?". Con Pietro siamo anche noi sollecitati a professare una fede: “Tu sei il Cristo“, che deve diventare sequela, disponibilità a seguire Gesù lungo la stessa strada e con il suo stesso atteggiamento. La fede in Gesù diventa allora fede nella sua promessa: perdere la propria vita per causa sua e del Vangelo (non solo nel martirio di sangue, ma nella nostra vita quotidiana come suoi testimoni) anziché al fallimento, ci consegna alla pienezza della vita eterna.

Dal Libro del Profeta Isaia
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.
È vicino chi mi rende giustizia:
chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci.
Chi mi accusa? Si avvicini a me.
Ecco, il Signore Dio mi assiste:
chi mi dichiarerà colpevole?
Is 50,5-9ª

Questo brano fa parte del Libro della Consolazione di Israele (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “Deutero Isaia”. Probabilmente era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che, dalla sue profezie prendono speranza.
Il corpo del libro contiene una serie di oracoli che possono dividersi in due parti, quelle composte prima della conquista di Babilonia da parte di Ciro (Is 41,12-48,22) e quelle che invece sono state composte dopo questo evento (Is 49,1-54,17) .
Nel libro del Deuteroisaia emerge con insistenza la figura e l’opera di un personaggio misterioso, chiamato “Servo di YHWH”, di cui trattano quattro composizioni poetiche a cui è stato dato l’appellativo di ”Carmi del Servo di YHWH” (42,1-7; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12). Il primo carme si trova all’inizio della prima parte, gli altri li troviamo nella seconda parte della raccolta. Mentre nei primi due carmi si tratta rispettivamente della chiamata del Servo e dell’insuccesso che lo attende, nel terzo (Is 50,4-9) da dove è tratto il nostro brano, si descrive la persecuzione che ha subito.
I versetti sono alquanto simiili ai salmi di lamentazione individuale, in cui un giusto perseguitato si lamenta delle sue sofferenze e si abbandona alla protezione divina.
Il brano si apre con un monologo del Servo sofferente: “Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”. Poi il Servo fa memoria delle sue sofferenze:
“Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”. Qui si parla di flagellazione, di strappare la barba, di insulti e di sputi!.
È difficile dire in che contesto queste torture gli sono state inflitte e se sono reali o metaforiche. Ma certo si tratta di sofferenze, terribili. indescrivibili.
Il Servo passa poi a descrivere la sua reazione personale:
“Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso”.
Nella difficile situazione in cui si trova, il Servo non si difende con la forza, e neppure fa ricorso, come aveva fatto Geremia, alla violenza verbale contro i suoi avversari; al contrario, fortificato dalla sua fiducia in Dio, resta fermo come una roccia senza venir meno alla sua missione.
La sua forza d’animo gli proviene dalla certezza che Dio porterà a termine il suo progetto nonostante tutte le avversità. Il Servo dimostra così di non cercare il proprio successo personale ma la realizzazione di quanto va annunziando, anche se ciò dovesse costargli la vita.
Il Servo riafferma ancora la sua fiducia in Dio e lancia una sfida ai suoi avversari:
“È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?”
Alla fiducia in Dio corrisponde la certezza che i suoi avversari non avranno il sopravvento. La previsione della loro distruzione non deriva da un suo desiderio di vendetta, ma semplicemente dal desiderio che la vittoria di Dio sia completa.
In questo carme il Servo è descritto come una figura di profeta che annunzia il piano di Dio per Israele. Egli si presenta come un uomo totalmente immerso in Dio, dal quale riceve il messaggio da comunicare al popolo.
Per concludere si può dire che questo brano è particolarmente indicato a noi cristiani per farci comprendere in profondità il mistero dell'UOMO-DIO a cui Isaia sembra alludere con voce profetica, più di 500 anni prima della venuta di Cristo. Quello che di lui sappiamo riguarda la vicenda di un uomo che si è dato in balia del dolore al di là di ogni possibile immaginazione: ….”Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.” (Is 50,6)
Non si tratta solo di non-violenza, ma di non-difesa personale: un'assoluta arrendevolezza al dolore che per la mentalità odierna potrebbe sembrare un caso clinico da psicanalisi. Ci troviamo invece di fronte al mistero di un Uomo che accetta con docilità la sua missione, che non indietreggia nelle difficoltà e che sopporta pazientemente gli oltraggi.
E’ sostenuto solo dalla sua ferma fiducia nell’aiuto di DIO, per questo anche se accusato ingiustamente, egli ha la certezza della vittoria finale.

Salmo 114 Camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi.
Amo il Signore, perché ascolta
il grido della mia preghiera.
Verso di me ha teso l’orecchio
nel giorno in cui lo invocavo.

Mi stringevano funi di morte,
ero preso nei lacci degli inferi,
ero preso da tristezza e angoscia.
Allora ho invocato il nome del Signore:

«Ti prego, liberami, Signore».
Pietoso e giusto è il Signore,
il nostro Dio è misericordioso.
Il Signore protegge i piccoli:
ero misero ed egli mi ha salvato.

Sì, hai liberato la mia vita dalla morte,
i miei occhi dalle lacrime,
i miei piedi dalla caduta.
Io camminerò alla presenza del Signore
nella terra dei viventi.

Il salmo presenta un pio Giudeo che, oppresso da “tristezza e angoscia”, ha innalzato a Dio una preghiera ardente: “Ti prego, liberami, Signore”; e non ha mancato di sperimentare il soccorso del Signore, confermandosi così nella fiducia in lui: “Amo il Signore, perché ascolta il grido della mia preghiera...”. La narrazione conduce a delineare un prigioniero di fronte al quale si profila la morte; infatti si parla di: “Funi di morte”; di assenza di vie d'uscita: “Ero preso nei lacci degli inferi”; ed esplicitamente vien detto: “hai liberato la mia vita dalla morte".
La grazia della liberazione gli è giunta tanto improvvisa che deve dire a se stesso: “Ritorna, anima mia, al tuo riposo...”, dove la pace è il dolce incontro con Dio, il dolce lodare Dio.
Il pio Giudeo è pieno di gratitudine e con gioia dice al Signore "hai liberato la mia vita dalla morte, i miei occhi dalle lacrime, i miei piedi dalla caduta" dove per caduta si deve intendere la disperazione, la rottura con Dio.
Dopo quell'esperienza dura, ma feconda, il salmista si propone di camminare alla presenza del Signore, cioè di essere sempre conforme al volere di Dio: “Io camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi”.
Nella “terra dei viventi” è da vedere la Palestina rinnovata per l'eliminazione degli idoli: è il grande desiderio del pio Giudeo.
Le parole “Mi stringevano funi di morte...ero preso da tristezza e angoscia” ci portano a Cristo (Cf. Eb 5,7).

Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera di S.Giacomo aostolo
A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».
Gc 2,14-18

Questo brano della lettera di Giacomo è sicuramente il passo più conosciuto e citato per trattare il tema del rapporto tra la fede e le opere. E’ come se Giacomo si ponesse anche oggi, davanti a ciascuno di noi, per porci domande dirette:
“Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo?”
Egli ci esorta a riflettere sull'autenticità della nostra fede. La fede è un atteggiamento interiore, che deve trovare espressione in qualche gesto, e atteggiamento esterno. altrimenti non ha nessun senso!
Giacomo fa poi un esempio molto efficace: “Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? “
Il caso presentato non deve servire però come esempio della fede priva di opere, bensì come paragone con cui si mostra l’inutilità di una fede senza opere: come i bisognosi non ricavano alcun vantaggio da frasi pietose , così una fede senza opere non serve a nulla, che valore può avere di fronte a Dio?
“Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta” ossia la fede senza opere che l'accompagnano non ha nessun senso. Non si tratta delle opere della legge, bensì delle opere di amore per il prossimo. Il riferimento a queste opere di carità è in linea con il brano che abbiamo visto domenica scorsa che metteva in guardia dai favoritismi.
“Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede»”.
Molti di fronte a questo testo, se conoscono le lettere di Paolo, possono restare perplessi perché sembra che qui venga detto il contrario di quello che San Paolo insegna. In realtà, Paolo e Giacomo non erano affatto in disaccordo. L’unico punto di dissenso, secondo alcuni, riguarda il rapporto tra la fede e le opere.
Paolo afferma dogmaticamente che la giustificazione è per sola fede, mentre Giacomo dice che la giustificazione è mediante la fede più le opere.
Questo apparente problema viene risolto esaminando di cosa sta parlando esattamente Giacomo, il quale sta confutando la dottrina secondo cui una persona può avere fede senza produrre alcuna opera buona e sottolinea che la fede genuina in Cristo produrrà una vita cambiata e come conseguenza frutti di buone opere.
Giacomo non sta dicendo che la giustificazione sia mediante la fede più le opere, ma piuttosto che una persona che è davvero giustificata per fede non potrà fare a meno di produrre frutti di buone opere nella sua vita.
Se una persona afferma di essere credente, ma non copie opere buone, allora è probabile che non abbia la vera fede in Cristo, anzi non ha mai compreso il suo Vangelo.
Il ragionamento di Giacomo e di Paolo portano allo stesso risultato: Giacomo ragiona dal punto di vista di colui che è già figlio di Dio, Paolo da quello di colui che deve diventarlo.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.
E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».
Mc 8,27-35

Questo brano del Vangelo di Marco fa parte della sezione caratterizzata da tre annunzi della passione, morte e risurrezione di Gesù (8,31; 9,31; 10,33). Qui l'evangelista affronta il problema dell'identità di Gesù e indica i riflessi che il suo destino di sofferenza e di morte avrà su coloro che lo seguono.
Il brano si apre con una indicazione del luogo e con una domanda di Gesù ai discepoli:
“Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?”
Si trovavano nei pressi di Cesarea di Filippo, l'antica Panion, una città ellenistica che si trova nel sud dell'attuale Libano, alle pendici del Monte Hermon; essa doveva il suo nome al fatto di essere stata ricostruita in onore di Augusto da Filippo, uno dei figli di Erode il Grande, divenuto tetrarca della Transgiordania settentrionale. Nonostante la sua fugace apparizione a Betsaida, (v. 8,22), Gesù è rimasto dunque in un territorio non abitato da giudei, dove si era recato dopo la prima moltiplicazione dei pani (V.7,24).
Egli è ormai solo con i suoi discepoli e ponendo loro questo tipo di domande sembra voglia fare un sondaggio di opinioni per sapere cosa la gente diceva di Lui.
Alla domanda di Gesù i discepoli rispondono: "Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti”
Siccome la figura profetica più significativa per i giudei del tempo di Gesù era Giovanni Battista, alcuni ritenevano che lui fosse in qualche modo ritornato in vita nella persona di Gesù per portare a compimento la sua missione. Secondo altri Gesù si identificava con Elia, a cui veniva spesso riconosciuto il ruolo di profeta escatologico (Ml 3,23; Sir 48,10). Altri ancora pensavano che egli fosse "uno dei profeti“. Luca nel testo parallelo dice: che alcuni consideravano Gesù come "uno degli antichi profeti che è risorto", senza precisare quale.
In definitiva la gente vedeva in Gesù il profeta degli ultimi tempi, inviato da Dio per preparare la sua venuta.
Gesù non commenta le opinioni della gente, ma si rivolge nuovamente ai discepoli per arrivare a porre la domanda più importante che gli stava a cuore:”Ma voi, chi dite che io sia?”. E Pietro subito rispose: “Tu sei il Cristo».
Pietro rispondendo così raggiunge in parte la verità. La sua è una definizione esatta ma non completa; è solo una luce gettata nel mistero di Gesù, una luce ancora velata da ombre. Infatti il titolo “Cristo”, che significa “il consacrato”, era la versione greca dell’ebraico “messia” che resta sempre una creatura umana. Per questo la risposta di Pietro non è ancora completa: Gesù non è solo “Cristo”, ma è anche “Figlio di Dio”, come precisa Matteo nel suo Vangelo con le parole che mette in bocca a Pietro “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Matteo annota anche l’elogio che Gesù fa a Pietro: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli.”
Marco poi riporta che Gesù “ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno”.
Dopo aver ascoltato,le opinioni della gente e quelle dei discepoli, Gesù dà ora la sua risposta circa il quesito che lui stesso aveva posto e lo fa indicando il destino a cui va incontro: " E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.”
L'espressione "Figlio dell'uomo“, era stata utilizzata, in testi apocalittici, per designare una figura di inviato mediante il quale Dio avrebbe instaurato un giorno il Suo regno (V. Dn 7,13). Gli esegeti in questo punto ritengono che Gesù ne fa uso, non per attribuirsi un compito glorioso, ma per preannunziare un destino di sofferenza e di morte, seguito però dalla risurrezione. Si può perciò supporre che l'abbia usato non per descrivere la Sua gloria ma per indicare la Sua solidarietà senza limiti con ogni essere umano.
Marco poi annota che Gesù “Faceva questo discorso apertamente..” cioè quello della sua morte imminente; si può intuire in questo suo annunzio una certa provocazione. E proprio Pietro, che poco prima lo aveva proclamato Messia, lo prende in disparte e si sente in dovere di rimproverarlo duramente. La sua reazione rivela una concezione trionfalistica del Messia in cui non c'era posto per la sofferenza.
Alle parole di Pietro Gesù reagisce con pari durezza: “voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Usando l'espressione "va' dietro a me" Gesù non intende certamente allontanare Pietro da sé, come aveva fatto con il diavolo in occasione della tentazione (Mt 4,10), ma lo richiama alla sequela, cioè alla necessità di non mettersi al suo posto, ma di adeguarsi alle sue scelte.
Il fatto che Gesù rimproveri Pietro guardando anche gli altri discepoli, significa che essi condividevano le idee di Pietro: si tratta dunque di un'ammonizione rivolta a tutti i discepoli di ogni tempo e di ogni luogo.
Al primo annunzio della passione l'evangelista fa seguire un breve discorso rivolto da Gesù non solo ai suoi discepoli, ma anche alla folla, che ora è citata. Questo discorso contiene una piccola raccolta di detti riguardanti non più il destino futuro di Gesù, ma quello che devono fare coloro che lo vogliono seguire.
Gesù dunque, “convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”.
Il "rinnegamento di sé” ricorda la scelta del Servo di JHWH, il quale ha abbandonato ogni ricerca del potere per mettersi generosamente al servizio di tutto il popolo; l'espressione "prendere la sua croce" può alludere già al tipo di morte che lo aspetta oppure indicare semplicemente le sofferenza di una vita spesa per gli altri; ma il fine di tutto è la sequela, che Gesù propone come l'unico mezzo per raggiungere lo scopo di accogliere il regno di Dio che viene.
Poi Gesù prosegue: " Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà”. In altre parole: se uno vuole salvare egoisticamente la propria vita finirà per perderla, ossia per non raggiungere lo scopo, il senso della propria vita; mentre chi è disposto a perderla, seguendolo sul cammino della croce, sicuramente la salverà, cioè raggiungerà la vita piena del regno
Cerchiamo ora di immaginarci ciò che hanno provato tutti i presenti quando Gesù, senza mezzi termini ha detto: “«Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” ….Avranno provato tremore e sgomento e si saranno anche chiesti: Chi è dunque costui per chiedere tanto?”
La risposta la diamo ancora noi oggi, dopo duemila anni, perché se in quella croce, più o meno pesante, che ognuno porta nella propria vita, non vedesse avanti a sé chi ha pronunciato queste parole, non avrebbe la forza di proseguire.

*****

“Nel brano evangelico di oggi ritorna la domanda che attraversa tutto il Vangelo di Marco: chi è Gesù? Ma questa volta è Gesù stesso che la pone ai discepoli, aiutandoli gradualmente ad affrontare l’interrogativo sulla sua identità.
Prima di interpellare direttamente loro, i Dodici, Gesù vuole sentire da loro che cosa pensa di Lui la gente – e sa bene che i discepoli sono molto sensibili alla popolarità del Maestro! Perciò domanda: «La gente, chi dice che io sia?» -
Ne emerge che Gesù è considerato dal popolo un grande profeta. Ma, in realtà, a Lui non interessano i sondaggi e le chiacchiere della gente. Egli non accetta nemmeno che i suoi discepoli rispondano alle sue domande con formule preconfezionate, citando personaggi famosi della Sacra Scrittura, perché una fede che si riduce alle formule è una fede miope.
Il Signore vuole che i suoi discepoli di ieri e di oggi instaurino con Lui una relazione personale, e così lo accolgano al centro della loro vita. Per questo li sprona a porsi in tutta verità di fronte a sé stessi, e chiede: «Ma voi, chi dite che io sia?» .
Gesù, oggi, rivolge questa richiesta così diretta e confidenziale a ciascuno di noi: “Tu, chi dici che io sia? Voi, chi dite che io sia? Chi sono io per te?”. Ognuno è chiamato a rispondere, nel proprio cuore, lasciandosi illuminare dalla luce che il Padre ci dà per conoscere il suo Figlio Gesù. E può accadere anche a noi, come a Pietro, di affermare con entusiasmo: «Tu sei il Cristo».
Quando però Gesù ci dice chiaramente quello che disse ai discepoli, cioè che la sua missione si compie non nella strada larga del successo, ma nel sentiero arduo del Servo sofferente, umiliato, rifiutato e crocifisso, allora può capitare anche a noi, come a Pietro, di protestare e ribellarci perché questo contrasta con le nostre attese, con le attese mondane. In quei momenti, anche noi meritiamo il salutare rimprovero di Gesù: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini»
Fratelli e sorelle, la professione di fede in Gesù Cristo non può fermarsi alle parole, ma chiede di essere autenticata da scelte e gesti concreti, da una vita improntata all’amore di Dio, di una vita grande, di una vita con tanto amore per il prossimo. Gesù ci dice che per seguire Lui, per essere suoi discepoli, bisogna rinnegare sé stessi (cfr v. 34), cioè le pretese del proprio orgoglio egoistico, e prendere la propria croce. Poi dà a tutti una regola fondamentale. E qual è questa regola? «Chi vorrà salvare la propria vita la perderà.
Spesso nella vita, per tanti motivi, sbagliamo strada, cercando la felicità solo nelle cose, o nelle persone che trattiamo come cose. Ma la felicità la troviamo soltanto quando l’amore, quello vero, ci incontra, ci sorprende, ci cambia. L’amore cambia tutto! E l’amore può cambiare anche noi, ognuno di noi. Lo dimostrano le testimonianze dei santi.
La Vergine Maria, che ha vissuto la sua fede seguendo fedelmente il suo Figlio Gesù, aiuti anche noi a camminare nella sua strada, spendendo generosamente la nostra vita per Lui e per i fratelli.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 16 settembre 2018

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica ci spingono alla lode di Dio, allo stupore per le Sue grandi opere, per la Sua fedeltà.
Nella prima lettura, il Profeta Isaia, annuncia la salvezza di Israele, il ritorno in patria dei deportati e la ricostruzione di Gerusalemme dopo la sua distruzione effettuata dalle armate babilonesi. La fine di una fase così difficile viene descritta da Isaia come una sorta di rivoluzione, di "capovolgimento" del mondo: chi è infermo guarisce, la siccità lascia il passo all'abbondanza dell'acqua. Finisce dunque l'ansia e la luce dell'amicizia di Dio riappare chiaramente.
Nella seconda lettura, l’Apostolo Giacomo afferma che la fede non deve essere condizionata da indebiti riguardi verso i ricchi o la freddezza verso i poveri, e sottolinea come bisogna insistere sulla pratica materiale e senza finzioni della carità, in quanto espressione concreta della nostra relazione con Cristo.
Nel Vangelo di Marco, il racconto è inquadrato nella cornice del cosiddetto “segreto messianico”. Gesù infatti porta in disparte dalla folla il sordomuto e guaritolo, gli comanda di non dire niente a nessuno. Più che un prodigio spettacolare Gesù vuole compiere un atto che trasformi soprattutto la coscienza: gli orecchi sordi nel linguaggio biblico sono spesso segno di cuore indifferente. Senza la parola efficace del Cristo l’uomo resta sordo al Vangelo! E’ per questo che nel sacramento del Battesimo si è introdotto il rito dell’Effata sul bambino che è stato appena battezzato perchè diventi colui che ascolta la parola di Dio e la comunica agli altri con le sue labbra e la sua vita.

Dal libro del profeta Isaia
Dite agli smarriti di cuore:
«Coraggio, non temete!
Ecco il vostro Dio,giunge la vendetta,
la ricompensa divina.Egli viene a salvarvi».
Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa.
La terra bruciata diventerà una palude,il suolo riarso sorgenti d’acqua.
Is 35,4-7a

Il profeta Isaia ( Primo Isaia autore dei capitoli 1-39) iniziò la sua opera pubblica verso la fine del regno di Ozia, re di Giuda, attorno al 740 a.C, quando l'intera regione siro-palestinese era minacciata dall'espansionismo assiro. Isaia fu anche uno degli ispiratori della grande riforma religiosa avviata dal re Ezechia (715-687 a.C) che mise al bando le usanze idolatre e animiste che gli ebrei avevano adottato imitando i popoli vicini. Isaia si scagliò così contro i sacrifici umani (prevalentemente di bambini o ragazzi), i simboli sessuali, gli idoli di ogni forma e materiale. Altro bersaglio della riforma, e delle invettive di Isaia, furono le forme cultuali puramente esteriori, ridotte quasi a pratiche magiche. In particolare, condannò senza mezzi termini il digiuno, le elemosine, le ricche offerte, quando non sono seguite da una condotta di vita moralmente corretta, dal rispetto verso il prossimo, dal soccorso alla vedova e all'orfano, dall'onestà nell'esercizio di cariche pubbliche.
Questo brano fa parte della piccola apocalisse (c.34-35)) con cui Isaia celebra il rimpatrio dalla schiavitù babilonese per la ricostruzione di Gerusalemme dopo la sua distruzione effettuata dalle armate babilonesi. La deportazione in schiavitù fu un'esperienza terribile che il popolo d'Israele visse tra il 586 e il 538 a.C. e che determinò momenti di smarrimento gravissimo.
Il capitolo 35, da dove è tratto il brano liturgico, inizia con un invito rivolto da Dio, per bocca del profeta, al deserto: «Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo” L’esultanza del deserto si manifesta attraverso la nascita improvvisa di fiori insoliti in quella regione. Il deserto di cui si parla è quello che separa la Mesopotamia dalla Palestina: attraverso di esso gli esuli ritornarono nella loro terra.
Il brano liturgico inizia con un altro invito del Signore “agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta,la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi».” Il messaggio chiaramente è rivolto agli esuli che si sono messi in cammino. Essi sono ancora infiacchiti dal lungo periodo di esilio, non hanno fiducia in se stessi, e soprattutto non hanno la sicurezza di poter riuscire nella loro impresa.
Vengono perciò incoraggiati con la promessa della presenza del Signore che li guida come aveva fatto un tempo con gli israeliti durante l’esodo dall’Egitto.
Egli porta con sé oltre alla salvezza, riservata al Suo popolo, anche il castigo per i loro nemici che sono anche i Suoi nemici. La ricompensa divina non consiste in un premio guadagnato con le proprie opere buone, ma nella salvezza donata gratuitamente da Dio al Suo popolo.
Alla venuta del Signore corrisponde la guarigione di persone afflitte da diverse infermità: “Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto”
Gli esuli che si mettono in cammino sono paragonati a persone afflitte da mali che impediscono loro la possibilità stessa di fare un lungo cammino a piedi. Nonostante la loro inabilità, essi si mettono in cammino senza difficoltà per raggiungere la meta.
“scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. La terra bruciata diventerà una palude,il suolo riarso sorgenti d’acqua”. L’immagine del deserto che rifiorisce al passaggio degli esuli dà l’idea di un rinnovamento che, partendo dal cuore umano, si estende a tutto il creato.
Si può notare che Isaia inserisce nel suo racconto una doppia fila di immagini antitetiche: da una parte si incontrano simboli della natura: l’aridità del deserto, la steppa riarsa, la terra bruciata, si oppongono le acque, i torrenti, le paludi, le sorgenti zampillanti. Dall’altra prendono vita immagini corporali: al fisico malato dei ciechi, dei sordi, degli zoppi, dei muti si oppone il corpo risanato dotato di occhi con ottima vista, di orecchi sensibilissimi, di gambe saltellanti come quelle di un cervo, di labbra che esplodono in canti di gioia.
Il Nuovo Testamento farà sue queste espressioni per indicare in Gesù-Messia il vero realizzatore della salvezza.

Salmo 145 Loda il Signore, anima mia.

Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.

Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.

Egli sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.

Il salmo è stato composto nel tardo postesilio come rivela la sua lingua aramaicizzante. Esso fa pensare a un tempo di pace, di normalità, quale si ebbe verso la fine dell'epoca persiana quando Giuda divenne uno stato teocratico autonomo con propria moneta fino alla persecuzione di Antioco IV Epifane (2Mac 4,1s).
Il salmista al proposito personale e di testimonianza di lodare il Signore per tutta la vita, fa seguire un'ammonizione basilare: “Non confidate nei potenti, in un uomo che non può salvare”. I potenti, che amano circondarsi di un alone di gloria, non sono dei semidei, sono uomini che come tutti moriranno: “Esala lo spirito e ritorna alla terra: in quel giorno svaniscono tutti i suoi disegni”. Il salmista tuttavia non fa accenno ai guai, alle rovine a cui si espone chi confida nell'uomo, ma, in positivo, dice che è beato, “chi ha per aiuto il Dio di Giacobbe”, cioè il Dio dei padri, il Dio delle promesse e dell'alleanza, riconoscendolo l'unico Dio, onnipotente creatore: “che ha fatto il cielo e la terra, il mare e quanto contiene".
“Egli è fedele per sempre”, mai manca alla sua parola, e il suo governo è giustizia e bontà: “Rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati”.
Poi il salmista con ritmo incalzante presenta a tutti cinque motivi di confidenza in Dio.
“Libera i prigionieri”; intendendo ciò in senso largo: deportati, carcerati ingiustamente, irretiti in trame di calunnia.
“Ridona la vista ai ciechi”, dove il cieco è colui che ha smarrito la via della verità (Dt 28,29; Gb 12,25; Is 29,18; 35,5).
“Rialza chi è caduto”, cioè chi è caduto nel peccato.
“Ama i giusti”, cioè li guida nel giusto cammino e protegge nei loro passi.
“Protegge i forestieri, egli sostiene l'orfano e la vedova”, cioè tre categorie di persone deboli, con scarsi punti di riferimento.
Poi una severa osservazione: “Ma sconvolge le vie dei malvagi”.
Dio è re, “regna per sempre”. Nessuno lo può contrastare, limitare il suo potere sovrano, nessuno può sperare di vincerlo; e il suo regnare è segnato dalla giustizia, dalla bontà e dalla misericordia.
“Il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione”; Dio che ha fatto alleanza con Sion. Ma l'alleanza è diventata nuova in Cristo; Sion ha rifiutato la nuova ed eterna alleanza, ma Cristo non rinuncia al popolo di Sion, ora tronco morto dell'unico popolo di Dio, il cui tronco vivo è la Chiesa, ma un giorno il tronco morto diventerà vivo, accogliendo Cristo e facendo parte della Chiesa (Rm 11,25).
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera di S.Giacomo apostolo
Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali. Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro.
Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi?
Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?
Gc 2,1-5

L'Apostolo Giacomo in questo brano della sua lettera ci dice chiaramente quali scelte dobbiamo fare nella nostra vita personale e sociale e quale strada intraprendere per essere dalla parte di Cristo e fare davvero nostro il Suo messaggio di amore, giustizia, uguaglianza e fratellanza universale.
Il brano inizia con l’esortazione: “Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali”
La fede in Cristo non può essere contaminata dal pensare secondo gli uomini, che si accerchiano di persone che li appoggiano e dalle quali sperano benefici, mentre escludono altre che hanno il torto di non volere essere compiacenti e che seguono Cristo.
Il favoritismo è sempre stato, anche allora, un male per le comunità, e Giacomo lo presenta in tutta la sua gravità, dopo averlo già trattato all’inizio della sua lettera (1,9-10). Non è giusto anche che i cristiani inseguano i ricchi e si facciano loro servi compiacenti per averne qualche utile. Come è biasimevole l’azione dei cristiani che con favoritismi costituiscono gruppi per condizionare dall’interno le comunità.
L’apostolo passa poi a fare un esempio concreto descrivendo il comportamento, purtroppo sempre attuale anche nei nostri giorni,:“Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi?”
Giacomo presenta veramente un esempio di favoritismo penoso perché avviene proprio dentro ad un’assemblea eucaristica.
Poi l’apostolo passa alle raccomandazioni: “Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?
La scelta di Dio dei poveri Paolo la espresse così :“Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti,Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono”. (1Cor 1,27-28). Anche nel Magnificat troviamo espresse parole analoghe.
Dalla sete del denaro e del potere nascono gli inganni, le invidie, le liti, le oppressioni, le corruzioni, le divisioni, le guerre. Giacomo prende di petto l’eresia di fondo, quella che promuove e fa da supporto a tutte le eresie: il desiderio affannoso del potere.
Giacomo non si fa portatore di un quadro sociale dove tutto sia livellato, ma vuole che chi ha di più, per varie ragioni, non sia chiuso nella superbia, ma sia umile e caritatevole. D’altro canto il povero non deve avere anche lui la bramosia delle ricchezze e di conseguenza odiare il ricco perché le possiede.
Il rinnovamento del modo di pensare dell’uomo passa tutto attraverso l’adesione autentica a Cristo.
Nota: Sappiamo che nella dottrina sociale della Chiesa non si ha affatto il rifiuto del capitale, poiché esso è una forza con la quale si possono creare posti di lavoro; quello che fa scandalo è l’uso egoistico delle ricchezze possedute.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
Mc 7,31-37

Questo brano del vangelo di Marco appartiene alla terza parte riguardante i viaggi di Gesù fuori dalla Galilea. Questo episodio è riportato subito dopo la guarigione della figlia di una donna siro-fenicia (7,24-30), nella quale l’evangelista ha visto un’anticipazione del dono della salvezza ai pagani, e prima della moltiplicazione dei pani per una folla sempre di pagani (8,1-8).
L’evangelista inizia il suo racconto con una indicazione di luogo: “Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano”.
Gesù aveva lasciato la zona di Tiro, città della Fenicia, dove aveva guarito la figlia della donna sirofenicia, passa per Sidone e si dirige verso il mare di Galilea, ma invece di fermarsi in questa regione, si reca nella zona orientale Decapoli, (l'odierna Giordania), abitata anch’essa da popolazioni non giudaiche. La collocazione geografica del miracolo che sta per narrare, non è molto importante, ciò che interessa Marco è evidenziare il destinatario: anche lui, come la sirofenicia, è un pagano. A parte questa indicazione implicita e la malattia da cui è afflitto, non si conoscono altri particolari del sordomuto e di coloro che lo portarono da Gesù; l’imposizione delle mani, che essi gli chiedono, era il gesto solito con cui si invocava la benedizione divina su una persona, e già altre volte era stato richiesto a Gesù o usato da lui e dai suoi discepoli per compiere un’azione straordinaria.
A questa richiesta Gesù risponde più con i gesti che con le parole:”Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!».”
Gesù non si sottrae alla richiesta di coloro che accompagnano l’uomo e neppure solleva obiezioni, come aveva fatto poco prima con la donna sirofenicia, ma il fatto di compiere il miracolo in disparte indica una certa riservatezza, dovuta certamente al fatto che si trova in territorio non abitato da giudei. E’ questa forse anche la causa per cui Egli, per la prima volta, fa ricorso a gesti inusuali come il toccare gli orecchi con le dita e mettere la saliva sulla lingua, che sono simili a quelli usati dai guaritori dell’epoca. Il guardare verso il cielo sta però ad attestare che Egli attribuisce non a questi gesti, ma a Dio, l’opera miracolosa.
I gesti di Gesù hanno un effetto immediato:”E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno”.
Il comando che fa seguito alla guarigione fa parte del segreto messianico perché non è chiaro a chi sia stato dato questo ordine, dal momento che Gesù si trovava solo con l’interessato. E’ evidente però che Gesù vuole impedire che venga a saperlo la folla, che certamente è composta di pagani, i quali ancora più dei giudei potrebbero non comprendere ciò che Lui ha fatto.
L’evangelista però osserva: “Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano ed evidenzia anche che i presenti, “pieni di stupore” commentano l’accaduto con queste parole: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”.
La guarigione del sordomuto, al di fuori dei territori abitati tradizionalmente dai giudei, mostra nuovamente che la salvezza ha ormai raggiunto i pagani. Tra di essi Gesù non svolge un’attività di predicazione, ma si limita a fare alcuni segni mediante i quali dimostra che la salvezza è disponibile anche a loro.
Dall’atteggiamento di coloro che vengono a contatto con Lui appare che, diversamente dai giudei, essi sono disposti ad accogliere positivamente il dono di Dio, imparando ad ascoltare la Sua parola e a pregarlo con spirito di figli. Anzi essi stessi si fanno persino missionari del Suo vangelo.
Si apre così una nuova epoca nella storia dell’umanità, nella quale cade la barriera tra giudei e pagani, e con essa tutte le barriere di razza, lingua e religione, e le persone cominciano a capirsi e a condividere. È questo il segno più eclatante che il regno di Dio è vicino.

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“Il Vangelo di questa domenica riferisce l’episodio della guarigione miracolosa di un sordomuto, operata da Gesù.
Gli portarono un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano. Egli, invece, compie su di lui diversi gesti: prima di tutto lo condusse in disparte lontano dalla folla. In questa occasione, come in altre, Gesù agisce sempre con discrezione. Non vuole fare colpo sulla gente, Lui non è alla ricerca della popolarità o del successo, ma desidera soltanto fare del bene alle persone. Con questo atteggiamento, Egli ci insegna che il bene va compiuto senza clamori, senza ostentazione, senza “far suonare la tromba”. Va compiuto in silenzio.
Quando si trovò in disparte, Gesù mise le dita nelle orecchie del sordomuto e con la saliva gli toccò la lingua. Questo gesto rimanda all’Incarnazione. Il Figlio di Dio è un uomo inserito nella realtà umana: si è fatto uomo, pertanto può comprendere la condizione penosa di un altro uomo e interviene con un gesto nel quale è coinvolta la propria umanità. Al tempo stesso, Gesù vuol far capire che il miracolo avviene a motivo della sua unione con il Padre: per questo, alzò lo sguardo al cielo. Poi emise un sospiro e pronunciò la parola risolutiva: «Effatà», che significa “Apriti”. E subito l’uomo venne sanato: gli si aprirono gli orecchi, gli si sciolse la lingua. La guarigione fu per lui un’«apertura» agli altri e al mondo.
Questo racconto del Vangelo sottolinea l’esigenza di una duplice guarigione. Innanzitutto la guarigione dalla malattia e dalla sofferenza fisica, per restituire la salute del corpo; anche se questa finalità non è completamente raggiungibile nell’orizzonte terreno, nonostante tanti sforzi della scienza e della medicina. Ma c’è una seconda guarigione, forse più difficile, ed è la guarigione dalla paura. La guarigione dalla paura che ci spinge ad emarginare l’ammalato, ad emarginare il sofferente, il disabile. E ci sono molti modi di emarginare, anche con una pseudo pietà o con la rimozione del problema; si resta sordi e muti di fronte ai dolori delle persone segnate da malattie, angosce e difficoltà. Troppe volte l’ammalato e il sofferente diventano un problema, mentre dovrebbero essere occasione per manifestare la sollecitudine e la solidarietà di una società nei confronti dei più deboli.
Gesù ci ha svelato il segreto di un miracolo che possiamo ripetere anche noi, diventando protagonisti dell’«Effatà», di quella parola “Apriti” con la quale Egli ha ridato la parola e l’udito al sordomuto. Si tratta di aprirci alle necessità dei nostri fratelli sofferenti e bisognosi di aiuto, rifuggendo l’egoismo e la chiusura del cuore. È proprio il cuore, cioè il nucleo profondo della persona, che Gesù è venuto ad «aprire», a liberare, per renderci capaci di vivere pienamente la relazione con Dio e con gli altri. Egli si è fatto uomo perché l’uomo, reso interiormente sordo e muto dal peccato, possa ascoltare la voce di Dio, la voce dell’Amore che parla al suo cuore, e così impari a parlare a sua volta il linguaggio dell’amore, traducendolo in gesti di generosità e di donazione di sé.
Maria, Colei che si è totalmente «aperta» all’amore del Signore, ci ottenga di sperimentare ogni giorno, nella fede, il miracolo dell’«Effatà», per vivere in comunione con Dio e con i fratelli.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 9 settembre 2018

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica si presentano come un felice tentativo di coniugare – secondo una giusta scala di valori – legge e cuore, culto ed esistenza: Antico Testamento e il Vangelo si illuminano a vicenda e ci fanno crescere nella fede.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del Deuteronomio, Mosè presenta al popolo la Torah, cioè le leggi che Dio gli aveva dato e dice che si dovevano osservare senza aggiungere o togliere nulla. La Torah, è presentata non come un castello di aride prescrizioni, ma come espressione dell’incontro tra la volontà del Dio “vicino” e l’adesione gioiosa della libera volontà dell’uomo. La religione non si vive guardando al passato, alle tradizioni, ma al presente, illuminato dalla fede nella presenza di Dio.
Nella seconda lettura, l’apostolo Giacomo ci dice che la parola di Dio ha bisogno di evangelizzatori e di testimoni e ci esorta ad essere tra “quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto”. La parola dunque non va solo ascoltata, ma anche vissuta e fatta conoscere a tutti.
Nel Vangelo di Marco, Gesù rimprovera i suoi ascoltatori di onorare Dio con le labbra, ma non con il cuore, e denuncia i limiti e gli errori del ritualismo fine a se stesso, ed enuncia in una specie di decalogo i veri peccati di cui l’uomo si macchia e che sono cosa ben più grave che la mancata osservanza di taluni precetti cultuali.

Dal Libro del Deuteronomio
Mosè parlò al popolo dicendo: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo.
Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi do?».
Dt 4,1-2,6-8

Il Deuteronomio è il quinto libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. È stato scritto in ebraico intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi. È composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali.
Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge” la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire. Questi nuovi precetti sono orientati a regolare la vita stabile, sedentaria, che di lì a poco il popolo d'Israele avrebbe iniziato all'arrivo alla Terra Promessa. Ciononostante, queste leggi sono stilate con grande affetto, animando il compimento della Legge con motivi teologici.
Il Deuteronomio ci consente di comprendere che cos’è il popolo di Dio, di cogliere quanto l’Alleanza che unisce a Dio, comporta insieme di ricchezza e di esigenza: essa è un dono gratuito e appello pressante che bisogna vivere nelle realtà concrete.
Il Deuteronomio richiama continuamente il credente a quelli che sono gli atteggiamenti fondamentali: una fede che si fa sempre più profonda, un amore di Dio che esclude ogni compromesso, un servizio di Dio prestato con gioia, e una accettazione reale ed fiduciosa delle realtà terrestri.
In questo brano Mosè dopo aver fatto un riassunto del lungo viaggio, riassume nel suo discorso di commiato le leggi ricevute da Dio:
“Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo…”
Per dare maggior potenza ai suoi discorsi Mosè aumenta anche l’importanza del legame diretto che si è costituito tra Dio ed Israele affermando ancora: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?”
Mosè sa bene quello che dice e non dimentica l’origine vera della sua sapienza legislativa. Per questo intende rafforzare il concetto di origine divina delle leggi che egli ha promulgato e fatto rispettare e ravviva alla sua gente la memoria della loro origine divina perché la conservino nel cuore e la trasmettano.
Proprio questa memoria della presenza di Dio obbliga il popolo ad assumere uno stile di vita differente da quello degli altri popoli e a presentarsi davanti a questi come un popolo legato in modo del tutto speciale al proprio Dio. Questo brano in particolare testimonia l’orgoglio che Israele sentiva per la Torah, la sua legge, e la convinzione che essa superava in saggezza tutte le altre. La Torah, qui è presentata non come un castello di aride prescrizioni, ma come una espressione dell’incontro con la volontà del Dio vicino e l’adesione gioiosa della libera volontà dell’uomo.
Osservando liberamente questa parola con la mente e il cuore, il credente può scoprire la presenza del Dio Salvatore. Il Signore, infatti, non è tanto da cercare in cieli lontani, ma nella legge che Egli ha offerto al Suo popolo.

Salmo 14 Chi teme il Signore abiterà nella sua tenda.
Colui che cammina senza colpa,
pratica la giustizia
e dice la verità che ha nel cuore,
non sparge calunnie con la sua lingua.

Non fa danno al suo prossimo
e non lancia insulti al suo vicino.
Ai suoi occhi è spregevole il malvagio,
ma onora chi teme il Signore.

Non presta il suo denaro a usura
e non accetta doni contro l’innocente.
Colui che agisce in questo modo
resterà saldo per sempre.

Il salmista considera le condizioni necessarie per abitare nella tenda del Signore, e dimorare sul suo santo monte.
Ne risulta una preghiera piena di propositi e di sentita, seppur implicita, invocazione per poterli attuare e mantenere.
La tenda del Signore sul santo monte è il tempio, dove nel “santo dei santi” c’era l’arca dell’alleanza con la presenza tra i cherubini della gloria di Jahwéh.
Questo salmo noi lo recitiamo guardando alla reale presenza di Cristo nell’Eucaristia. Per dimorare col cuore nella tenda, cioè rimanere nel raggio dell’Eucaristia, è necessaria una vita secondo il Vangelo. L’espressione “Ai suoi occhi è spregevole il malvagio”, va spogliata della tentazione del disprezzo. E’ solo un non vedere il malvagio come un modello da imitare. Noi dobbiamo separare il peccato dal peccatore, per non cadere nell’errore di giudicare e condannare, benché egli sia ben riconoscibile quale peccatore (Mt 7,20): “Dai loro frutti dunque li riconoscerete”. Onorare chi teme il Signore è, per viceversa, stimarne l’esempio, imitarne il comportamento; è un rispetto profondo poiché Dio è presente - inabitazione - nel cuore del giusto.
Chi agisce con rettitudine rimane nel raggio dell’Eucaristia e da essa trae la forza per rimanervi con sempre maggiore intensità d’amore. Egli “resterà saldo per sempre”.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera di S. Giacomo apostolo
Fratelli miei carissimi, ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento. Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle sue creature.
Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza. Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi.
Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo.
Gc 1,17-18, 21b-22, 27

L’ autore di questa lettera, è l'apostolo Giacomo figlio di Alfeo, cioè Giacomo il Minore, che ebbe un posto di primo piano nella comunità madre di Gerusalemme. Paolo lo cita tra i testimoni della resurrezione (1Cor 15,7), Pietro uscendo di prigione si preoccupa di annunciargli subito la sua liberazione (At 12,17) e all’indomani della sua conversione Paolo prende contatto con lui (Gal 1,18-19). Giacomo prese parte nel 49 al Concilio di Gerusalemme in maniera determinante: quest’uomo di mentalità giudaica diede prova di conciliazione e di accoglienza nei riguardi dei convertiti provenienti dal paganesimo (At 15,13-29).
Fino alla dispersione iniziale degli apostoli degli anni 36-37, Giacomo sembra riscoprire la responsabilità della Chiesa madre; gli anziani si riunivano presso di lui, e sarà sempre lui ad accogliere Paolo che reca la colletta delle Chiese (At 21,18-26) poco prima del suo arresto nel tempio (Pentecoste 58).
Secondo lo storico Eusebio di Cesarea, Giacomo venne ucciso nell’anno 63 durante una sollevazione popolare istigata dal sommo sacerdote Hanan, che per quel delitto sarà poi destituito .
La lettera è indirizzata alle dodici tribù della diaspora, è scritta in greco, il che significa che si rivolge a comunità cristiane viventi fuori della Palestina, e la terra fuori della Palestina, per gli Ebrei, è diaspora. Il giudaismo, come confederazione delle dodici tribù aveva già cessato di esistere dal 722 a.C. , quindi la restaurazione di Israele in confederazioni di dodici tribù sarà compito escatologico del Messia (Os 9,9; Ger 3,18; Ez 37,19.24; ecc.). Questa speranza Giacomo la vede già compiuta nella comunità cristiana: essa è per lui il popolo delle dodici tribù, l’Israele definitivo.
La lettera nel suo complesso è piuttosto breve (cinque capitoli per un totale di quasi cento versetti), ma il suo contenuto è notevole per la sua attenzione verso i deboli, gli afflitti, il suo senso della povertà e la sua diffidenza per la ricchezza, la sua viva denuncia dell’ingiustizia sociale, i suoi avvertimenti agli operatori commerciali.
E’ difficile suddividere la lettera di Giacomo in sezioni, il brano che abbiamo si apre con i versetti con cui si conclude il primo capitolo: “ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento”, vale a dire: Dio è la fonte di ogni bene e in Lui non c’è il male. Con questa considerazione, Giacomo chiude la sua ampia riflessione sul tema della prova e introduce il tema della seconda parte del primo capitolo: “Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle sue creature”, cioè siamo stati rigenerati dalla Parola, che proviene da Dio, deponiamo dunque il nostro modo di operare secondo le logiche umane per rivestirci della Parola stessa.
Al termine del brano troviamo la sua esortazione: “Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza. Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi…
Non manca poi di toccare il tema delle persone più deboli “Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo”.
A quei tempi gli orfani e le vedove erano le persone più deboli. Oggi non è certamente difficile trovare persone che hanno bisogno di tutto, ma soprattutto hanno bisogno di essere ascoltate, di essere considerate uguali a noi, di essere almeno considerate persone. La religiosità che ciascuno ha nei confronti del Signore aiuta l'uomo ad aprire il proprio cuore e sentire che Dio, se vogliamo veramente incontrarlo e vederlo, lo troviamo soltanto nel fratello bisognoso, forse solo di un sorriso, ma anche di solidarietà, misericordia, di carità vera cioè di condivisione di ciò che si possiede..
Quando, dopo aver ascoltato la Parola, non sentiamo dentro di noi il desiderio di incontrare i fratelli forse abbiamo bisogno di un sincero e profondo esame di coscienza, per capire dove ci siamo fermati nel cammino verso la meta della nostra vita cristiana


Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto:
“Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».
Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro».
E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».
Mc 7, 1-8. 14-15. 21-23

La liturgia di questa domenica ci ripropone il discorso della sequela del Cristo. Il Vangelo di Marco, di cui oggi si riprende la lettura dopo aver letto nelle domeniche precedenti il lungo discorso di Giovanni sul "pane di vita", è quello che maggiormente ci guida a seguire il Cristo attraverso la sua Parola.
In questo brano, tratto dal capitolo 7, (’ultimo episodio che precede i viaggi di Gesù fuori dalla Galilea), troviamo una raccolta di detti pronunciati da Gesù circa il significato che rivestono le pratiche giudaiche nel contesto del regno da Lui annunziato.
Il brano inizia riportando che “si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate….” per l’evangelista è importante sottolineare che Gesù deve prendere posizione proprio per questo fatto dato che “tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame” In verità la Torah, la Legge, rivolgeva il comando dell’abluzione rituale delle mani solo ai sacerdoti che al tempio facevano l’offerta, il sacrificio (cf. Es 30,17-21). Ma al tempo di Gesù vi erano movimenti che radicalizzavano la Torah e moltiplicavano le prescrizioni della Legge, con una particolare ossessione per il tema della purità. Tra questi vi erano gli chaverim (compagni, amici) e i perushim (separati, farisei), i quali consideravano molto importante la prassi del lavarsi le mani e di altre abluzioni in vista della purità, che poteva essere infranta a causa di contatti con persone o realtà impure.
I farisei e gli scribi dunque chiedono a Gesù: “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?”Gesù lasciava liberi i suoi discepoli da queste osservanze che non erano state richieste da Dio, ma imposte dagli interpreti delle sante Scritture, i quali le dichiaravano “la tradizione”, attribuendole la stessa autorità riservata alla parola di Dio. Gesù faceva un’attenta operazione di discernimento, distinguendo bene ciò che era espressione della volontà di Dio e ciò che invece era consuetudine umana, norma formata dagli uomini religiosi che, assolutizzata, diventa un ostacolo alla stessa parola di Dio e una perversione della sua immagine.
Per tutta risposta Gesù accusa i suoi interlocutori di ipocrisia, applicando loro un brano di Isaia: “Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.
Nel brano di Isaia citato (29,13) Gesù conferma l’ammonizione rivolta dal profeta al popolo di Gerusalemme e denuncia l’ipocrisia della distanza tra labbra che aderiscono a Dio e cuore che invece ne resta lontano e commenta le parole del profeta osservando: “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”.
Con queste parole Egli riduce le prescrizioni rituali a semplici precetti umani, opponendo loro la volontà di Dio, che si identifica con un unico comandamento.
Poi Gesù riprende il discorso e, nei versetti non riportati nel brano, accusa gli scribi e i farisei di essere veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la loro tradizione e, per sottolineare la loro ipocrisia, mostra poi come essi siano abili nell’aggirare questo comandamento.
Poi riprendendo il discorso sui cibi impuri, Gesù chiama nuovamente la folla e dice: “Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro”. Parole brevi e lapidarie. Non c’è niente che possa rendere impuro il discepolo tra le realtà che sono fuori del suo corpo: né il cibo, né il contatto, né le relazioni. Ciò che invece rende impuro l’uomo viene dal suo interno e si manifesta nel suo comportamento.
Queste parole non sono facilmente comprensibili, tanto che più tardi , lontano dalla folla, i discepoli interrogano Gesù sul significato di ciò che aveva detto ed Egli risponde: Siete anche voi così privi di intelletto? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, “Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo.”
Ponendosi sulla linea del messaggio profetico, Gesù sottolinea che nel rapporto con Dio non conta la purezza esteriore, ma solo quella che deriva dall’obbedienza profonda e sincera alla Sua volontà.
Per concludere si può dire che ciò che tiene lontano da Dio le persone buone sono le tradizioni religiose staccate dall'amore, che è la loro sorgente. L'uomo è sempre tradizionalista e abitudinario, ma il vero cristiano sa rompere con il passato perché vive una novità inaudita: la memoria del corpo e del sangue del suo Signore consegnato a lui nel pane. Questo mistero di amore è la "sua" tradizione, che ha ricevuto e, a sua volta, trasmette (1Cor 11,23ss).
Il discepolo mangia questo pane e ne vive, e fonda la sua vita non sulla propria osservanza della legge, ma sulla grazia di Dio.
Il principio del bene e del male è il nostro cuore buono o cattivo, illuminato dall'amore o accecato dall'egoismo. La norma ultima di comportamento per fare la volontà di Dio viene dal discernimento del nostro cuore. siamo mossi da Dio o dal demonio?, dall'amore o dall'egoismo?.
S. Agostino nei suoi scritti diceva: Ama, e fa' quello che vuoi!". Ma è bene leggere nel suo contesto questa espressione per non intenderla in modo sbagliato : “Una volta per tutte dunque ti viene imposto un breve precetto: ama e fa’ ciò che vuoi; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene”.

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“In questa domenica riprendiamo la lettura del Vangelo di Marco. Nel brano odierno Gesù affronta un tema importante per tutti noi credenti: l’autenticità della nostra obbedienza alla Parola di Dio, contro ogni contaminazione mondana o formalismo legalistico.
Il racconto si apre con l’obiezione che gli scribi e i farisei rivolgono a Gesù, accusando i suoi discepoli di non seguire i precetti rituali secondo le tradizioni. In questo modo, gli interlocutori intendevano colpire l’attendibilità e l’autorevolezza di Gesù come Maestro perché dicevano: “Ma questo maestro lascia che i discepoli non compiano le prescrizioni della tradizione”. Ma Gesù replica forte e replica dicendo: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”» Così dice Gesù. Parole chiare e forti! Ipocrita è, per così dire, uno degli aggettivi più forti che Gesù usa nel Vangelo e lo pronuncia rivolgendosi ai maestri della religione: dottori della legge, scribi… “Ipocrita”, dice Gesù.
Gesù infatti vuole scuotere gli scribi e i farisei dall’errore in cui sono caduti, e qual è questo errore? Quello di stravolgere la volontà di Dio, trascurando i suoi comandamenti per osservare le tradizioni umane. La reazione di Gesù è severa perché grande è la posta in gioco: si tratta della verità del rapporto tra l’uomo e Dio, dell’autenticità della vita religiosa. L’ipocrita è un bugiardo, non è autentico.
Anche oggi il Signore ci invita a fuggire il pericolo di dare più importanza alla forma che alla sostanza. Ci chiama a riconoscere, sempre di nuovo, quello che è il vero centro dell’esperienza di fede, cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo, purificandola dall’ipocrisia del legalismo e del ritualismo.
Il messaggio del Vangelo oggi è rinforzato anche dalla voce dell’Apostolo Giacomo, che ci dice in sintesi come dev’essere la vera religione, e dice così: la vera religione è «visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo».
“Visitare gli orfani e le vedove” significa praticare la carità verso il prossimo a partire dalle persone più bisognose, più fragili, più ai margini. Sono le persone delle quali Dio si prende cura in modo speciale, e chiede a noi di fare altrettanto.
“Non lasciarsi contaminare da questo mondo” non vuol dire isolarsi e chiudersi alla realtà. No. Anche qui non dev’essere un atteggiamento esteriore ma interiore, di sostanza: significa vigilare perché il nostro modo di pensare e di agire non sia inquinato dalla mentalità mondana, ossia dalla vanità, dall’avarizia, dalla superbia. In realtà, un uomo o una donna che vive nella vanità, nell’avarizia, nella superbia e nello stesso tempo crede e si fa vedere come religioso e addirittura arriva a condannare gli altri, è un ipocrita.
Facciamo un esame di coscienza per vedere come accogliamo la Parola di Dio. Alla domenica la ascoltiamo nella Messa. Se la ascoltiamo in modo distratto o superficiale, essa non ci servirà molto. Dobbiamo, invece, accogliere la Parola con mente e cuore aperti, come un terreno buono, in modo che sia assimilata e porti frutto nella vita concreta. Gesù dice che la Parola di Dio è come il grano, è un seme che deve crescere nelle opere concrete. Così la Parola stessa ci purifica il cuore e le azioni e il nostro rapporto con Dio e con gli altri viene liberato dall’ipocrisia.
L’esempio e l’intercessione della Vergine Maria ci aiutino a onorare sempre il Signore col cuore, testimoniando il nostro amore per Lui nelle scelte concrete per il bene dei fratelli.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 2 settembre 2018

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica hanno al centro un elemento fondamentale nella storia di ogni uomo: chi scegliere! La decisione non è facile perchè è una scelta radicale che comporta il Dio vivente, geloso ed esigente, e non idoli comodi, ma falsi.
Nella prima lettura, Giosuè propone al popolo radunato a Sichem una scelta radicale: o gli dèi o il Signore Dio, che con generosità ha offerto la Sua protezione e i Suoi doni. Israele non può rispondere che con una piena adesione di fede e di amore.
Nella seconda lettura, scrivendo ai cristiani di Efeso, Paolo vede nell’amore degli sposi cristiani il riflesso dell’amore di Cristo per la Chiesa, e in questo amore spinto fino alla sacrificio estremo della croce propone il modello dell’amore umano
Nel Vangelo di Giovanni, dopo una lunga e faticosa giornata, in cui Gesù dopo aver compiuto il miracolo dei pani, e proposto se stesso come “il pane di vita” alla folla che era corsa festante con l’intenzione di farlo re, dopo il difficile e complesso discorso eucaristico in cui egli parla del “vero” pane e manifesta se stesso, come il pane disceso dal cielo, la stessa folla si dirada sconcertata e scandalizzata, e intorno a Gesù rimangono solo i dodici. Qui Gesù in un modo quanto mai umano, pone la domanda: Volete andarvene anche voi? ,
La risposta di Pietro anticipa quella di tanti credenti, di coloro che professano la loro fede pura nel Cristo, colui che ha “parole di vita eterna, il Santo di Dio”.

Dal libro di Giosuè
In quei giorni, Giosuè radunò tutte le tribù d’Israele a Sichem e convocò gli anziani d’Israele, i capi, i giudici e gli scribi, ed essi si presentarono davanti a Dio. Giosuè disse a tutto il popolo: «Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrèi, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore».
Il popolo rispose: «Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; egli ha compiuto quei grandi segni dinanzi ai nostri occhi e ci ha custodito per tutto il cammino che abbiamo percorso e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati.
Perciò anche noi serviremo il Signore, perché egli è il nostro Dio».
Gs 24,1-2a, 15-17, 18b

Il libro di Giosuè è un testo contenuto sia nella Bibbia cristiana che quella ebraica. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi maggiormente condivisa dagli studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte.
Il libro prende il nome da Giosuè, successore di Mosè come guida su Israele. È composto da 24 capitoli descriventi la storia degli Israeliti dopo l’esodo dall’Egitto, e fornisce una panoramica delle campagne militari per conquistare la terra promessa, dando brevi e selettivi racconti di molte battaglie e del modo in cui la terra non solo fu conquistata, ma fu divisa nelle aree tribali. Il periodo descritto è tradizionalmente riferito al 1200-1150 a.C. L’idea centrale del libro è che Dio guida alla libertà, conduce la storia ed ogni conquista è opera di Dio.
Giosuè dopo la morte di Mosè ha ricevuto dal Signore un'eredità non certo facile: condurre i figli d'Israele verso il paese che Dio ha concesso loro in eredità. Giosuè è un uomo pieno di spirito e di saggezza, con un forte ascendente sul popolo, e riuscirà ad assolvere il suo compito.
In questo brano, viene narrata la grande assemblea di Sichem, nella quale Giosuè verso la fine della sua vita indice nello stesso luogo in cui Dio era apparso ad Abramo e gli aveva promesso una terra e una lunga discendenza. Al popolo, agli anziani d’Israele, i capi, i giudici e gli scribi. Giosuè rivolge un discorso alquanto deciso e duro “Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrèi, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore”. Apparentemente sembra che il popolo debba decidere per la prima volta se accettare o no la proposta di entrare in un rapporto di alleanza con Dio, invece l’alleanza era già stata conclusa. Il popolo quindi non era libero di rifiutare la proposta di Dio! Ma Giosuè insiste che gli israeliti rinnovino la loro decisione, perchè non basta quella del passato, e soprattutto prendano coscienza del significato dell’alleanza. Infatti questa implica non semplicemente il culto di una particolare divinità piuttosto che di un’altra, ma l’accettazione nella vita di un codice di comportamento, il decalogo, nel quale in primo piano ci sono i diritti dell’altro. Ciò vuol dire decidere ancora una volta di mettere il bene comune al di sopra del proprio interesse. È impossibile prestare a Dio un culto che prescinda dall’osservanza del decalogo. Il culto a Dio non può andare di pari passo con l’ingiustizia.
Il popolo rinnova con convinzione l’atto di fede affermando: “Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto, … quel “noi”, tante volte ripetuto, indica che i presenti intendono essere partecipi e attualizzare la storia della salvezza. E’ quanto in realtà facciamo anche noi cristiani ogni volta che pronunciamo nelle nostre celebrazioni con il “Credo” il nostro atto di fede .
Come nota possiamo aggiungere che per i cristiani Giosuè è la prefigurazione di Cristo: Giosuè ha condotto nella Terra promessa il popolo d’Israele e Cristo è il Salvatore del popolo di Dio.

Salmo 33 - Gustate e vedete com’è buono il Signore.
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.

Gli occhi del Signore sui giusti,
i suoi orecchi al loro grido di aiuto.
Il volto del Signore contro i malfattori,
per eliminarne dalla terra il ricordo.

Gridano e il Signore li ascolta,
li libera da tutte le loro angosce.
Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato,
egli salva gli spiriti affranti.

Molti sono i mali del giusto,
ma da tutti lo libera il Signore.
Custodisce tutte le sue ossa:
neppure uno sarà spezzato.

Il male fa morire il malvagio
e chi odia il giusto sarà condannato.
Il Signore riscatta la vita dei suoi servi;
non sarà condannato chi in lui si rifugia.

L’autore del salmo, ricco dell’esperienza di Dio indirizza il suo sapere ai poveri, agli umili, e in particolare ai suoi figli. Egli afferma che sempre benedirà il Signore e che sempre si glorierà di lui. Egli chiede di venire ascoltato e invita gli umili ad unirsi con lui nel celebrare il Signore: “Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome”.
Egli comunica la sua storia dicendo che ha cercato il Signore e ne ha ricevuto risposta cosicché “da ogni timore mi ha liberato”. Per questo invita gli umili a guardare con fiducia a Dio, e dice: “sarete raggianti”. “Questo povero”, cioè il vero povero, quello che è umile, è ascoltato dal Signore e l’angelo del Signore lo protegge dagli assalti dei nemici: “L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono (Dio), e li libera”. L’angelo del Signore è con tutta probabilità l’angelo protettore del popolo di Dio, chiamato così per antonomasia; sarebbe l’arcangelo Michele (Cf. Es 14,19; 23,23; 32,34; Nm 22,22; Dn 10,21; 12,1).
Il salmista continua la sua composizione invitando ad amare Dio dal quale procede gioia e pace: “Gustate e vedete com'è buono il Signore, beato l’uomo che in lui si rifugia”.
L’orante moltiplica i suoi inviti al bene: “Sta lontano dal male e fà il bene, cerca e persegui la pace”. Cercala, cioè trovala in Dio, e perseguila comportandoti rettamente con gli altri.
Il salmista non nasconde che il giusto è raggiunto da molti mali, ma dice che “da tutti lo libera il Signore”. Anche dalle angosce della morte, poiché “custodisce tutte le tue ossa, neppure uno sarà spezzato”. Queste parole sono avverate nel Cristo, come dice il Vangelo di Giovanni (19,16). Per noi vanno interpretate nel senso che se anche gli empi possono prevalere fino ad uccidere il giusto e farne scempio, le sue ossa sono al riparo perché risorgeranno.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera di S. Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri: le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo. E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mariti in tutto.
E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!
Ef 5,21-32

L’Apostolo Paolo in questo brano della lettera agli efesini tocca temi di grande attualità considerate le difficoltà in cui si trovano oggi le famiglie cristiane in Italia e in varie altre parti del mondo, con le crisi del matrimonio, della maternità e della paternità, con altre assurde e pseudo forme di vita coniugale,che contraddicono apertamente gli insegnamenti dell'etica naturale, biblica e cristiana.
Il brano inizia proponendo un codice domestico, perché il credente viva anche in famiglia la propria adesione al Signore. Dopo la proclamazione del principio generale di una vicendevole sottomissione, Paolo fa un piccolo trattato di morale familiare: l’unione dell’uomo e della donna nel matrimonio e l’unione di Cristo con la Chiesa s’illuminano a vicenda. Cristo è capo della Chiesa e la ama come il suo proprio corpo, così come avviene tra marito e moglie, in questo senso Cristo allora diventa un modello per il matrimonio.
Il rapporto fra Cristo e la Chiesa entra come principio vivificante tra gli sposi che sono uniti nel Cristo Gesù. La sottomissione della donna al marito è relazionata alla Chiesa con Cristo che è il capo, ma Cristo non è venuto per essere servito ma per servire e dare la vita, per cui i mariti devono amare le mogli come Cristo ha amato la Chiesa per la quale si è immolato e si immola continuamente.
Il termine “sottomessi” ha sempre suscitato discussioni, sicuramente Paolo lo ha usato perchè vicino all’ambiente del Medio Oriente, ma il suo pensiero lo esprime più chiaramente in 1Cor,7 ma c’è da leggere nella parola “sottomessi” un significato più profondo: chi ama non misura la quantità di quanto dà con quanto riceve, ama con tutta la forza del proprio cuore, il quale risponde solo alla legge dell’amore, non può fare a meno di amare, come di respirare. Paolo nel suo inno all’amore così lo definisce: “L’amore è paziente, è benigno l’amore; non è invidioso, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”. 1Cor 13,4-7
Una unione, che ha come fondamento queste parole, non potrà mai avere fine!

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre».
Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui.
Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».
Gv 6,60-69

L’evangelista Giovanni con questo brano registra con amarezza come il lungo discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao, tutto incentrato sull’Eucaristia, sia stato un gran fallimento perché non solo i Giudei, ma anche i discepoli di Gesù si scandalizzano.
Giovanni riporta infatti che “molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?»” I discepoli avevano accettato che Gesù fosse l'inviato promesso da Dio, ma trovano assurda la Sua pretesa di essere il salvatore del mondo e di realizzare grazie alla Sua morte, la piena comunione degli uomini con Dio. Essi trovano duro il discorso. Lo hanno capito ma non riescono a comprenderlo!
“Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: "Questo vi scandalizza?”Gesù sa leggere nel cuore degli uomini e contesta il comportamento dei suoi discepoli, che si scandalizzano come avevano fatto gli israeliti nel deserto..
Gesù non attenua quanto aveva detto, non ha paura di dire tutta la verità, a costo di causare una divisione ancora più forte, continua dicendo: “E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? Se Gesù tornasse al cielo, lo scandalo sarebbe rafforzato oppure rimosso? Gesù pone i suoi ascoltatori davanti a un dilemma. Risalire al cielo corrisponde al compimento della Sua missione. Come è scritto nel Libro di Isaia (55,11) la parola di Dio ritorna a Lui dopo aver compiuto ciò per cui è stata mandata. Gesù stesso dopo la risurrezione dice a Maddalena di non trattenerlo perché deve salire al Padre (Gv 20,17). Vedere Gesù tornare al cielo è possibile però solo per chi ha fede. Per l'incredulo ciò significherebbe solo la sua scomparsa dal campo visivo. Quindi tale segno non cambierebbe niente.
Gesù precisa ancora “È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita”. Con queste parole Egli mette in luce la funzione dello Spirito Santo, che rappresenta simbolicamente l’azione potente di Dio nel cuore dell’uomo. (v.. Ez 36,26-27). Solo lo Spirito è in grado di dare la vita vera, che consiste nella comunione con Dio.
Poi Gesù conclude: “Ma tra voi vi sono alcuni che non credono»”.
L’evangelista commenta osservando che Gesù sapeva chi tra di loro non credeva e chi l’avrebbe tradito. Poi Gesù aggiunge: “«Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre»
La libertà dell'uomo nell'aderire o meno alla fede si concretizza nella sua chiusura o apertura verso l'attrazione che è esercitata dal Padre. E' Lui che supera ogni attesa dell'uomo, la profondità del suo desiderio.
Gesù dopo aver visto che “molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui” prende atto del suo fallimento ma non intende cambiare il programma, anzi provoca persino i dodici dicendo loro: “Volete andarvene anche voi?”
In questa domanda si percepisce l’amara delusione di Gesù, tutta la Sua sofferenza di restare solo: dalla folla ai discepoli, dai discepoli ai Dodic,. anche i più vicini a lui potrebbero abbandonarlo!
Sembra persino che Gesù voglia suggerire loro di tornare a casa e riprendere la vita di prima. La precisazione “anche voi” sottolinea il legame forte che si era creato con questo gruppetto di uomini. Anche loro devono fare ora una scelta ben precisa.
È stata sicuramente consolante per Gesù la confessione di Pietro che interviene a nome di tutti affermando: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna..”
Con queste parole l’evangelista sembra riprendere in parte la confessione di fede a Cesarea di Filippo narrata dai Sinottici. Pietro è il capo del gruppo e parla a nome di tutti: “Da chi andremo?. Non possiamo andarcene anche noi”. Essi si impegnano senza riserve. Le parole di Gesù sono parole di vita eterna. Pietro suggella la sua dichiarazione riprendendo il discorso appena terminato da Gesù. “e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”
La risposta di Pietro è straordinaria e rispecchia la sua indole spontanea e generosa, che pur senza capire tutto, accetta Gesù Messia e crede in Lui e nel nome del gruppo professa la sua fede.
Anche noi oggi non sempre capiamo tutto, ma in fondo sappiamo che conviene rimanere perché come Pietro possiamo ancora affermare:”Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”, e come Pietro continuiamo a credere in Gesù, a seguirlo anche nella nebbia più fitta, portando ognuno la propria croce e accettando il suo mistero

*****

“Si conclude oggi la lettura del capitolo sesto del Vangelo di Giovanni, con il discorso sul “Pane della vita”, pronunciato da Gesù all’indomani del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Alla fine di quel discorso, il grande entusiasmo del giorno prima si spense, perché Gesù aveva detto di essere il Pane disceso dal cielo, e che avrebbe dato la sua carne come cibo e il suo sangue come bevanda, alludendo così chiaramente al sacrificio della sua stessa vita. Quelle parole suscitarono delusione nella gente, che le giudicò indegne del Messia, non “vincenti”. Così alcuni guardavano Gesù: come un Messia che doveva parlare e agire in modo che la sua missione avesse successo, subito.
Ma proprio su questo si sbagliavano: sul modo di intendere la missione del Messia! Perfino i discepoli non riescono ad accettare quel linguaggio inquietante del Maestro. E il brano di oggi riferisce il loro disagio: «Questa parola è dura! – dicevano – Chi può ascoltarla?»
In realtà, essi hanno capito bene il discorso di Gesù. Talmente bene che non vogliono ascoltarlo, perché è un discorso che mette in crisi la loro mentalità. Sempre le parole di Gesù ci mettono in crisi, per esempio davanti allo spirito del mondo, alla mondanità. Ma Gesù offre la chiave per superare la difficoltà; una chiave fatta di tre elementi. Primo, la sua origine divina: Egli è disceso dal cielo e salirà «là dov’era prima» . Secondo: le sue parole si possono comprendere solo attraverso l’azione dello Spirito Santo, Colui «che dà la vita» è proprio lo Spirito Santo che ci fa capire bene Gesù. Terzo: la vera causa dell’incomprensione delle sue parole è la mancanza di fede: «Tra voi ci sono alcuni che non credono», dice Gesù. Infatti da allora, dice il Vangelo, «molti dei suoi discepoli tornarono indietro». Di fronte a queste defezioni, Gesù non fa sconti e non attenua le sue parole, anzi costringe a fare una scelta precisa: o stare con Lui o separarsi da Lui, e dice ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?»
A questo punto Pietro fa la sua confessione di fede a nome degli altri Apostoli: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» . Non dice “dove andremo?”, ma “da chi andremo?”. Il problema di fondo non è andare e abbandonare l’opera intrapresa, ma è da chi andare.
Da quell’interrogativo di Pietro, noi comprendiamo che la fedeltà a Dio è questione di fedeltà a una persona, con la quale ci si lega per camminare insieme sulla stessa strada. E questa persona è Gesù. Tutto quello che abbiamo nel mondo non sazia la nostra fame d’infinito. Abbiamo bisogno di Gesù, di stare con Lui, di nutrirci alla sua mensa, alle sue parole di vita eterna! Credere in Gesù significa fare di Lui il centro, il senso della nostra vita. Cristo non è un elemento accessorio: è il “pane vivo”, il nutrimento indispensabile. Legarsi a Lui, in un vero rapporto di fede e di amore, non significa essere incatenati, ma profondamente liberi, sempre in cammino.
Ognuno di noi può chiedersi: chi è Gesù per me? È un nome, un’idea, soltanto un personaggio storico? O è veramente quella persona che mi ama che ha dato la sua vita per me e cammina con me? Per te chi è Gesù? Stai con Gesù? Cerchi di conoscerlo nella sua parola? Leggi il Vangelo, tutti i giorni un passo di Vangelo per conoscere Gesù? Porti il piccolo Vangelo in tasca, nella borsa, per leggerlo, ovunque? Perché più stiamo con Lui più cresce il desiderio di rimanere con Lui. Adesso vi chiederò cortesemente, facciamo un attimo di silenzio e ognuno di noi in silenzio, nel suo cuore, si faccia la domanda: «Chi è Gesù per me?». In silenzio, ognuno risponda nel suo cuore.
La Vergine Maria ci aiuti ad “andare” sempre a Gesù per sperimentare la libertà che Egli ci offre, e che ci consente di ripulire le nostre scelte dalle incrostazioni mondane e dalle paure.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 23 agosto 2015

Pubblicato in Liturgia
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