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S.Messe (settimana)
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KRZYZ

Elena Tasso

Elena Tasso

Monsignor Donantien, missionario de La Salette, è stato nominato da Papa Francesco, sabato scorso 30 settembre, vescovo di una delle diocesi di Madagascar, ha celebrato la Messa alle ore 10.00 ieri, domenica 1 ottobre.

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La liturgia di questa domenica ci aiuta a comprendere meglio come Dio non ama l’ipocrisia di chi dice subito si e non fa la Sua volontà. La misura del valore autentico e nascosto di ogni persona è in ultima istanza solo nelle mani di Dio che vede nei cuori e non giudica mai per sentito dire!
Nella prima lettura, tratta dal Libro del profeta Ezechiele, ci porta a considerare che ogni uomo è arbitro della propria salvezza in quanto il Signore è pronto a perdonare sia il giusto che il peccatore che pentendosi si converte
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Filippesi, Paolo riporta l’inno di lode a Colui che eseguì in modo perfetto la missione affiedatagli al Padre Suo. Obbediente fino alla morte: per amore del Padre e per amore dell’uomo.
Nel Vangelo di Matteo, troviamo Gesù che presenta una parabola che è un vero e proprio quadretto di vita familiare, semplice, ma sempre attuale: un figlio apparentemente corretto che dice subito si alla richiesta del padre, ma poi non obbedisce, e l’altro figlio, il classico ribelle, che prima dice no, ma poi pentito fa la volontà del padre. Questo testo è un chiaro invito a infrangere i luoghi comuni nel giudicare gli uomini. Ogni creatura, infatti, ha sempre in sè la fiaccola dell’amore di Dio, anche quando è appannata dal peccato, e ai nostri occhi umani sembra sul punto di spegnersi. Gesù non ha mai spento nessuna fiaccola, anche la più flebile, ma vi ha sempre aggiunto nuovo olio perchè potesse ritornare a splendere.

Dal libro del profeta Ezechiele
Così dice il Signore: «Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?
Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso.
E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».
Ez 18,25-28

Il profeta Ezechiele nacque intorno al 620 a.C. verso la fine del regno di Giuda. Fu deportato in Babilonia nel 597 a.C. assieme al re Ioiachin, stabilendosi nel villaggio di Tel Aviv sul fiume Chebar. Cinque anni più tardi ricevette la chiamata alla missione di profeta, con il compito di rincuorare i Giudei in esilio e quelli rimasti a Gerusalemme. Ezechiele anche se non fu un profeta all'altezza di Isaia o Geremia, ebbe una sua originalità, che in certi casi può averlo fatto apparire ingenuo. Usò immagini di grande potenza evocativa, specie negli oracoli di condanna, ebbe toni ed espressioni particolarmente duri ed efficaci.
Nella parte precedente questo brano, che la liturgia ci propone, Ezechiele aveva messo in discussione, come aveva già fatto Geremia (cfr. Ger 31,29), il proverbio secondo cui «i padri hanno mangiato l'uva acerba e i denti dei figli si sono allegati» ed esordisce affermando, a nome di Dio, che questo proverbio non deve essere più ripetuto, ed indica quali sono le condizioni perché un uomo possa vivere .
In questo brano il profeta immagina che gli israeliti criticano il comportamento di Dio per cui pronto il Signore risponde: “Ascolta dunque, popolo d'Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?” Il pensiero di scontare la pena di peccati commessi dai loro padri era per i giudei un comodo alibi per non responsabilizzarsi, mentre l’idea di una responsabilità personale li stimolava ad essere responsbaili delle loro azioni.
Dopo aver difeso il comportamento di Dio il profeta sintetizza il suo messaggio: in due ipotesi.
Nella prima dice: “Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso.”
Nella seconda prospetta il caso opposto: “E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».
Dio mette davanti a Israele la vita e il bene, la morte e il male, e comanda che il popolo lo ami, minacciando in caso contrario i castighi più terribili (Dt 30,15-20). Ma Dio non è indifferente alle scelte delle Sue creature, Egli non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva .
La fede in un Dio amante della vita sta alla base della fede di Israele. Questa fede comporta l’osservanza dei comandamenti riguardanti la giustizia e la solidarietà con i più poveri. Se Dio vuole che il popolo gli sia fedele, l’unico motivo è che da questa fedeltà derivi al popolo la possibilità di essere prospero e felice.
In un’epoca in cui non si parlava ancora di una vita oltre la morte, sentirsi in comunione con Dio implicava anche un benessere materiale, che diventava però segno della benedizione divina solo se era condiviso con il bisognoso.

Salmo 24Ricòrdati, Signore, della tua misericordia.

Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza;
io spero in te tutto il giorno.

Ricòrdati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre.
I peccati della mia giovinezza
e le mie ribellioni, non li ricordare:
ricòrdati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.

Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via.

Il salmista è pieno d’umiltà al ricordo delle sue numerose colpe della sua giovinezza. E’ sgomento alla vista che tanti suoi amici lo hanno tradito per un nulla. Uno screzio è bastato perché si mettessero contro di lui. Egli, piegato dal peso dei suoi peccati, domanda che Dio guardi a lui e non a quanto ha fatto non osservando “la sua alleanza e i suoi precetti”. Si trova in grande difficoltà di fronte ad avversari che lo odiano in modo violento e lui non ha via di salvezza che quella del Signore. Gli errori passati sono il frutto del suo abbandono della “via giusta”. Ora sa che “tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà”, cioè non portano a rovina, ma anzi danno prosperità, poiché la discendenza di chi teme il Signore “possederà la terra”. L’orante voleva affermarsi sugli altri agendo con spavalderia, con vie traverse, ed ecco che sconfessa tutto il suo passato, trattenendone però la lezione di umiltà, che gli ha dato. Egli sa che non andrà deluso perché ha deciso di essere protetto da "integrità e rettitudine”, cioè dall’osservanza dell’alleanza stabilita da Dio con Israele. L’orante non pensa solo a se stesso, si sente parte del popolo di Dio, e invoca la liberazione di Israele dalle angosce date dai nemici. La liberazione dell’Israele di Dio, la Chiesa, cioè l’Israele fondato sulla fede in Cristo, non escludendo nella sua carità quello etnico basato sulla carne e sul sangue, per il quale la pace passerà dall’accoglienza del Principe della pace.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Filippesi
Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù
egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi nei cieli,
sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
Fil 2,1-11

Continuando la lettera ai Filippesi, che Paolo ha scritto da Efeso durante il terzo viaggio missionario, dopo averli incoraggiati a “combattere unanimi per la fede del vangelo senza lasciarsi intimidire in nulla dagli avversari” provenienti dall’esterno (1,27-30), in questo brano liturgico egli li esorta all’unità, e all’impegno per la salvezza.
Paolo inizia la sua esortazione con quattro frasi poste al condizionale:
“se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione”, In questo modo egli mette in luce alcuni atteggiamenti che devono animare la vita della comunità. Questi atteggiamenti costruiscono la comunità stessa, la quale può raggiungere il suo scopo solo se tutti i suoi membri si lasciano impregnare da “sentimenti di amore e di compassione”.
Ma al tempo stesso Paolo sottolinea che questi atteggiamenti procurano anche a lui conforto e consolazione: “rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi”. L’accenno alla gioia che gli procurano spinge l’apostolo a precisare meglio il suo pensiero: ciò che gli sta a cuore è il fatto che essi abbiano “un medesimo sentire e con la stessa carità”, Dunque ciò che gli sta soprattutto a cuore non è l’unità esteriore dell’agire, ma l’essere uniti nell’amore vicendevole e unanime nei pensieri, cioè nel modo di vedere e di valutare i valori fondamentali della vita.
Egli poi continua affermando: “ Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri”. Con queste parole egli esorta i filippesi a evitare lo spirito di rivalità e di concorrenza che rappresentano il rischio più grosso per la vita di una comunità.
Per evitare di cadere in una spirale di intolleranza reciproca è importante perseguire il bene, cercando sì il proprio interesse, ma sempre all’interno di un bene più grande, che è quello di tutti. Per ottenere ciò è necessaria una buona dose di umiltà, che consiste nel non ritenersi superiori agli altri, cioè nel non pensare di essere al centro di tutto e di far girare gli altri intorno a sé.
Infine queste esortazioni all’amore fraterno vengono condensate in un’unica richiesta:
“Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” .
Paolo non si accontenta di proporre dei comportamenti, anche se sublimi, che però rischiano di rimanere astratti, senza effetto nella vita delle persone. Egli propone un modello da seguire, che è quello del loro Maestro, Gesù Cristo. Egli però non chiede di imitare quello che Lui ha fatto, ma piuttosto di avere gli stessi sentimenti che hanno ispirato la Sua vita. Ciò che conta non è il fare, ma il pensare, cioè l’adesione convinta e vissuta, i valori per i quali Gesù è vissuto ed è morto.
Per presentare concretamente quale sia stato il modo di pensare di Gesù, Paolo inserisce a questo punto l’inno cristologico, preso forse dalla liturgia di qualche comunità, che esprime tutta l’ampiezza del mistero di Cristo, che qui è celebrato in due grandi aspetti: discesa e risalita, che formano una curva le cui estremità si ricongiungono.
L’inno si apre con: “egli, pur essendo nella condizione di Dio”,
E continua con una frase in cui si spiega in che modo Gesù ha gestito il Suo essere nella condizione di Dio: “non ritenne un privilegio l’essere come Dio”,
Questa espressione è stata comunemente tradotta “l’essere uguale a Dio”, con riferimento alla natura divina di Cristo.
L’inno prosegue affermando che Cristo “svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini”. Perciò non solo non volle avvalersi del Suo privilegio, ma addirittura vi rinunciò, in quanto “svuotò se stesso”. Questo però non significa che Gesù ha cessato di essere uguale a Dio, ma che si è spogliato, nella Sua umanità, della gloria divina manifestata solo nella trasfigurazione (Mt 17,1-8) che poi riceve dal Padre.
E’ andato fino al più profondo dell’abbassamento “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”.
La precisazione “morte di croce” assume un significato speciale, in quanto la pena capitale della crocifissione richiamava alla mente dei filippesi, che vivevano in una città romana, l’umiliazione più degradante e più ignominiosa, il colmo dell’infamia: essi potevano così rendersi conto che Gesù aveva raggiunto il limite estremo dell’umiliazione sottoponendosi perfino al crudelissimo e terribile supplizio, della crocifissione.
“Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome”, il Padre lo glorifica, gli sottomette l’universo e gli dà la piena prerogativa del suo titolo regale e divino di Signore “perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.”
Nel pensiero di Paolo forse qui emerge il ricordo dell’orgoglio di Adamo, che pretendeva di farsi uguale a Dio, per contrapporlo al dono di Cristo.
Ma l’inno soprattutto ricorda ancora più chiaramente i canti del Servo del Signore (Is 53) il cammino di umiliazione che ha portato Gesù, sulla linea del personaggio predetto da Isaia, alla sofferenza e alla morte. In altre parole, Egli diversamente da Adamo, non ha voluto condurre il Suo rapporto con Dio in termini di potere o di dominio, ma di amore e di servizio.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».
Mt 21, 28-32

Questo episodio che l’evangelista Matteo ci riporta, avviene dopo l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, e la cacciata dal tempio dei venditori, perciò il contesto della parabola è quello del conflitto aperto tra Gesù e le autorità religiose e civili che governano Gerusalemme.
Matteo ci presenta cinque controversie che segnano la rottura tra Gesù e chi esercita il potere.
La prima in particolare riguarda l'autorità di Gesù. I capi, infatti, dopo che Gesù aveva scacciato i venditori dal Tempio, ingaggiano con lui una vera e propria battaglia che si concluderà con la Sua condanna. Gesù non si sottrae allo scontro, anzi desidera confrontarsi e chiama i suoi interlocutori ad esporsi e a prendere posizione.
Gesù qui racconta che un uomo che aveva due figli, chiede al primo di andare a lavorare nella vigna. Questi risponde di sì, ma poi non ci va. Poi chiede la stessa cosa al secondo, che risponde di no, ma poi, pentitosi, ci va. Dal testo appare in modo abbastanza evidente che i destinatari della parabola sono i gran sacerdoti e gli anziani, menzionati nella controversia precedente quella su quale autorità Gesù agisse (v. 23), mentre il simbolo della vigna si riferisce al popolo d'Israele (Is 5,1-7) .
L'invito del padre ai due figli evidenzia la sua premura per la vigna, mentre la risposta dei figli sottolinea la loro libertà nei confronti del padre ed esprime teologicamente la risposta di fede o d'incredulità alla parola di Dio.
Al termine di questo breve racconto Gesù provoca il giudizio dei suoi interlocutori chiedendo: “Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”. E quando questi non possono fare a meno di rispondere: “Il primo”, Gesù allora afferma: “In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.” C’è da tenere presente che nell’ambiente giudaico questa affermazione è sorprendente e quanto mai provocatoria perché la conversione di queste due categorie di persone era ritenuta quasi impossibile!
Gesù poi prosegue: “Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli”. Matteo con questo versetti intende agganciare la parabola alla funzione del Battista, oggetto della disputa precedente tra Gesù e le autorità giudaiche.
La “via della giustizia” è un'espressione sapienziale (V. Pr 8,20; 16,31), che indica qui la fedeltà del Precursore alla missione affidatagli da Dio, considerata da Matteo parallela a quella del Messia
Questa parabola è tipica della predicazione di Gesù, il quale, proprio per sottolineare l’iniziativa salvifica di Dio a vantaggio di tutti, mette in primo piano gli ultimi, presentandoli come l’oggetto privilegiato dell’indulgenza divina.
Gesù non ha mai giudicato gli uomini per categorie, per cui i pubblicani e le prostitute andranno in paradiso, non in quanto pubblicani e prostitute, ma perché, pur essendo vissuti nel peccato, hanno poi accolto l’annuncio del regno, abbracciando la fede e le sue opere, come gli operai dell’ultima ora.

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“Con la sua predicazione sul Regno di Dio, Gesù si oppone a una religiosità che non coinvolge la vita umana, che non interpella la coscienza e la sua responsabilità di fronte al bene e al male. Lo dimostra anche con la parabola dei due figli, che viene proposta nel Vangelo di Matteo. All’invito del padre ad andare a lavorare nella vigna, il primo figlio risponde impulsivamente “no, non ci vado”, ma poi si pente e ci va; invece il secondo figlio, che subito risponde “sì, sì papà”, in realtà non lo fa, non ci va. L’obbedienza non consiste nel dire “sì” o “no”, ma sempre nell’agire, nel coltivare la vigna, nel realizzare il Regno di Dio, nel fare del bene. Con questo semplice esempio, Gesù vuole superare una religione intesa solo come pratica esteriore e abitudinaria, che non incide sulla vita e sugli atteggiamenti delle persone, una religiosità superficiale, soltanto “rituale”, nel brutto senso della parola.
Gli esponenti di questa religiosità “di facciata”, che Gesù disapprova, erano in quel tempo «i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo» (Mt 21,23) i quali, secondo l’ammonizione del Signore, nel Regno di Dio saranno sorpassati dai pubblicani e dalle prostitute (cfr v. 31). Gesù dice loro: “Saranno i pubblicani, cioè i peccatori, e le prostitute a precedervi nel Regno dei cieli”. Questa affermazione non deve indurre a pensare che fanno bene quanti non seguono i comandamenti di Dio, quelli che non seguono la morale, e dicono: «Tanto, quelli che vanno in Chiesa sono peggio di noi!». No, non è questo l’insegnamento di Gesù. Gesù non addita i pubblicani e le prostitute come modelli di vita, ma come “privilegiati della Grazia”. E vorrei sottolineare questa parola “grazia”, la grazia, perché la conversione sempre è una grazia. Una grazia che Dio offre a chiunque si apre e si converte a Lui. Infatti queste persone, ascoltando la sua predicazione, si sono pentite e hanno cambiato vita. Pensiamo a Matteo, ad esempio, San Matteo, che era un pubblicano, un traditore alla sua patria.
Nel Vangelo di oggi, chi fa la migliore figura è il primo fratello, non perché ha detto «no» a suo padre, ma perché dopo il “no” si è convertito al “sì”, si è pentito. Dio è paziente con ognuno di noi: non si stanca, non desiste dopo il nostro «no»; ci lascia liberi anche di allontanarci da Lui e di sbagliare. Pensare alla pazienza di Dio è meraviglioso! Come il Signore ci aspetta sempre; sempre accanto a noi per aiutarci; ma rispetta la nostra libertà. E attende trepidante il nostro “sì”, per accoglierci nuovamente tra le sue braccia paterne e colmarci della sua misericordia senza limiti. La fede in Dio chiede di rinnovare ogni giorno la scelta del bene rispetto al male, la scelta della verità rispetto alla menzogna, la scelta dell’amore del prossimo rispetto all’egoismo. Chi si converte a questa scelta, dopo aver sperimentato il peccato, troverà i primi posti nel Regno dei cieli, dove c’è più gioia per un solo peccatore che si converte che per novantanove giusti (cfr Lc 15,7).
Ma la conversione, cambiare il cuore, è un processo, un processo che ci purifica dalle incrostazioni morali. E a volte è un processo doloroso, perché non c’è la strada della santità senza qualche rinuncia e senza il combattimento spirituale. Combattere per il bene, combattere per non cadere nella tentazione, fare da parte nostra quello che possiamo, per arrivare a vivere nella pace e nella gioia delle Beatitudini. Il Vangelo di oggi chiama in causa il modo di vivere la vita cristiana, che non è fatta di sogni e belle aspirazioni, ma di impegni concreti, per aprirci sempre alla volontà di Dio e all’amore verso i fratelli. Ma questo, anche il più piccolo impegno concreto, non si può fare senza la grazia. La conversione è una grazia che dobbiamo chiedere sempre: “Signore dammi la grazia di migliorare. Dammi la grazia di essere un buon cristiano”.
Maria Santissima ci aiuti ad essere docili all’azione dello Spirito Santo. Egli è Colui che scioglie la durezza dei cuori e li dispone al pentimento, per ottenere la vita e la salvezza promesse da Gesù.”
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 27 settembre 2020

Martedì, 19 Settembre 2023 12:03

AVVISI - 17 settembre 2023

1. Lunedi 18 settembre iniziano le iscrizioni per il catechismo. Le iscrizioni saranno nei giorni lunedì, mercoledì, venerdì dalle ore 17.30 alle 19.00.


2. Per i ragazzi del 2o anno per la comunione e del 2o e 3o anno per la cresima il Catechismo inizierà il 25 settembre.


3. Martedì 19 settembre nella nostra chiesa parrocchiale celebriamo la Solennità della Madonna de La Salette. Le Messe saranno alle 09.00 e alle 18.30.


4. La settimana prossima vi presentiamo il programma della Festa Patronale della Nostra Chiesa Parrocchiale che sarà dal 4 all'8 ottobre.

Le letture che la liturgia di questa domenica ci porta a meditare, hanno come filo conduttore il simbolo delle chiavi e il suo profondo significato.
La prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia, riporta l’oracolo che annuncia che Dio metterà la chiave della casa di Davide nelle mani di Eliakim, personaggio che simboleggia Cristo, Colui che prenderà su di sé in modo definitivo la chiave di Israele.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, San Paolo di fronte ai disegni meravigliosi e imperscrutabili della sapienza e della misericordia di Dio, invita tutti a contemplare e adorare il Creatore.
Nel Vangelo, San Matteo narra come alla professione di fede di Pietro, Gesù risponde con la dichiarazione che proprio su di lui, Pietro, edificherà la Sua Chiesa, e gli affiderà l’incarico del servizio dell’autorità e della guida nell’unità. Per fede Pietro ha ricevuto il dono delle chiavi del Regno dei cieli e con esse il potere di sciogliere e legare, così per fede noi, come Pietro, possiamo riconoscere in Gesù, il Figlio del Dio vivente.

Dal libro del profeta Isaia
Così dice il Signore a Sebna, maggiordomo del palazzo:
«Ti toglierò la carica, ti rovescerò dal tuo posto.
In quel giorno avverrà che io chiamerò il mio servo Eliakìm, figlio di Chelkìa;
lo rivestirò con la tua tunica, lo cingerò della tua cintura e metterò il tuo potere nelle sue mani.
Sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme
e per il casato di Giuda.
Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide:
se egli apre, nessuno chiuderà;
se egli chiude, nessuno potrà aprire.
Lo conficcherò come un piolo in luogo solido
e sarà un trono di gloria per la casa di suo padre».
Is 22,19-23

Il profeta Isaia iniziò la sua opera pubblica verso la fine del regno di Ozia, re di Giuda, attorno al 740 a.C. A quel tempo, l'intera regione siro-palestinese era minacciata dall'espansionismo assiro. Il suo libro si apre con una raccolta di oracoli anteriori alla guerra siro-efraimita (cc. 1-5), a cui fa seguito il “libro dell’Emmanuele”, che risale invece al periodo in cui questo evento ha avuto luogo (cc. 6-12). Dopo queste due parti troviamo una serie di oracoli contro le nazioni (cc. 13-23). Verso la fine di questa raccolta si trova, un oracolo contro Sebna, un personaggio della corte reale, maggiordomo del re. Si tratta di un oracolo, anteriore alla campagna di Sennacherib (701 a.C.): ed è l’unico in cui il profeta si interessa alle sorti di una singola persona. A Sebna il profeta preannunzia la destituzione e la sostituzione con un altro dignitario chiamato Eliakim.
Nella parte precedente questo brano, vengono riportate le ragioni della disgrazia di Sebna e si descrive in modo metaforico la sua caduta. Il profeta lo accusa di essersi fatto costruire un sepolcro sotterraneo seguendo l’uso dei notabili egizi, con lo scopo certamente di immortalare il suo nome e l’immagine usata per indicare la sua caduta in disgrazia è quella di una palla che DIO scaglia lontano e fa rotolare sopra un ampio terreno; in conclusione il profeta gli annunzia che morirà in un paese straniero
Nel brano liturgico viene preannunziata in modo esplicito la sostituzione di Sebna: Il Signore stesso interviene pronunciando questa sentenza : “Ti toglierò la carica, ti rovescerò dal tuo posto. …. È questo il primo passo della sua caduta. Il profeta però quasi a rendere più dura la sua disgrazia descrive il passaggio del suo incarico ad un altro personaggio della corte:
In quel giorno avverrà che io chiamerò il mio servo Eliakìm, figlio di Chelkìa;
La sostituzione di Sebna con Eliakim viene descritta mediante due azioni rituali, il rivestimento del secondo con gli abiti del primo e il conferimento della chiave. Eliakim verrà rivestito della tunica e cinto con la sciarpa che erano appartenute a Sebna.
Ciò significa che gli sarà conferito il potere che questi prima deteneva: questa umiliazione sarà tanto più cocente in quanto il nuovo dignitario “ Sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per il casato di Giuda”. “Padre” era un titolo o un ufficio di corte (cfr. Is 9,5): al di là del suo significato formale questo vuol forse dire che Eliakim gestirà la sua carica in modo tale da riscuotere non solo l’approvazione del re, ma anche il favore della gente comune. Forse proprio questo non era riuscito a Sebna, e ciò era stato uno dei motivi della sua rimozione.
Inoltre a Eliakim verrà consegnata la chiave della casa di Davide. Con questa chiave egli potrà aprire e chiudere, senza che nessuno possa ostacolarlo: “se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire”. La chiave della casa di Davide rappresenta il potere decisionale in tutti gli affari riguardanti il governo della nazione.
Infine si dice che Eliakim sarà come un paletto conficcato in un” luogo solido” e “sarà un trono di gloria per la casa di suo padre”.
Con l’immagine del paletto conficcato in luogo solido si vuole dunque significare la stabilità dell’incarico conferito. Il “trono di gloria” indica il suo successo, che porterà onore e potenza a tutta la sua famiglia.
L’importanza di questo testo è dovuta anche al fatto che viene ripreso nell’Apocalisse “Così parla il Santo, il Verace,Colui che ha la chiave di Davide: quando egli apre nessuno chiude, e quando chiude nessuno apre” (3,7) e anche Matteo ci fa riferimento nel suo Vangelo “A te darò le chiavi del regno dei cieli:” (16,19) . Affidare le chiavi è rendere l’affidatario detentore di pieni poteri.
Nei versetti successivi, non riportati dal brano liturgico, leggiamo che proprio perché di Eliakim si sono approfittati tutti i suoi parenti,* egli sarà come un paletto che anche se conficcato in luogo solido, si spezzerà, cadrà e andrà in frantumi, coinvolgendo nella sua rovina tutto ciò che era stato appeso ad esso. Anche per Eliakim, nonostante le sue qualità, il potere sarà una realtà temporanea e provvisoria.

* situazione che si è sempre ripetuta … dice bene Qoèlet “Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà;non c’è niente di nuovo sotto il sole” Qo 1,9)

Salmo 137 - Signore, il tuo amore è per sempre.
Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore:
hai ascoltato le parole della mia bocca.
Non agli dèi, ma a te voglio cantare,
mi prostro verso il tuo tempio santo.

Rendo grazie al tuo nome
per il tuo amore e la tua fedeltà:
hai reso la tua promessa più grande del tuo nome.
Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto,
hai accresciuto in me la forza.

Perché eccelso è il Signore,
ma guarda verso l’umile;
il superbo invece lo riconosce da lontano.
Signore, il tuo amore è per sempre:
non abbandonare l’opera delle tue mani.

Il salmista ringrazia Dio per avere ascoltato la sua preghiera e avergli usato misericordia. La tradizione parla del re Davide, ma più probabilmente si tratta di Ezechia dopo la clamorosa liberazione di Gerusalemme dall'assedio degli Assiri (2Re 19,35): “Hai reso la tua promessa più grande del tuo nome”.
Egli vuole cantare la sua lode al cospetto di Dio, rifiutando ogni adesione agli idoli: "Non agli dèi, ma a te voglio cantare".
Dio ha risposto alla sua supplica rendendolo più forte di fronte ai sui nemici: “Hai accresciuto in me la forza”.
Il salmista professa la sua fede nel futuro messianico che vedrà “tutti i re della terra” lodare il Signore. Sarà quando “ascolteranno le parole della tua bocca”, dove per “bocca” si deve intendere il futuro Messia.
I re, i popoli, celebreranno le vie del Signore annunciate dal Messia.
Il salmista ha grande fiducia in Dio, affinché la sua missione di re abbia successo: "Il Signore farà tutto per me". Il salmista termina invocando: “Non abbandonare l'opera delle tue mani”, cioè la dinastia di Davide.
Noi crediamo che giungerà il tempo della “civiltà dell'amore”, quando i popoli e i potenti che li governano, si apriranno a Cristo. Ogni cristiano deve adoperarsi per questo tempo con la forza (“hai accresciuto in me la forza”) che sgorga dalla partecipazione Eucaristica.
La nostra battaglia non è contro nemici fatti di carne e sangue, come ci dice san Paolo (Ef 6,12), ma “contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male”, cioè contro i demoni.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
O profondità della ricchezza, della sapienza
e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!
Infatti, chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore?
O chi mai è stato suo consigliere?O chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne il contraccambio?
Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose.
A lui la gloria nei secoli. Amen.
Rm 11,33-36

L’Apostolo Paolo dopo aver dato la sua spiegazione, ispirata alle Scritture, sul mistero di Israele, ha concluso che alla fine anche tutto il popolo eletto sarà salvato. Al termine di questa sua profonda riflessione Paolo eleva un inno di lode a Dio.
Il brano liturgico si apre con la lode che Paolo esprime con due esclamazioni: “O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!”. Egli esalta con la prima esclamazione la grandezza di Dio come creatore.
La profondità riguarda tre aspetti: la Sua “ricchezza”, che consiste nelle risorse inesauribili della Sua potenza, la Sua “sapienza”, che è l’attributo manifestato da Dio nella creazione, la Sua “scienza” che è la conoscenza intima e diretta che Dio ha di tutte le realtà create.
Con la seconda esclamazione Paolo esalta Dio come Colui che conduce gli esseri umani alla salvezza: i Suoi “giudizi” sono insondabili e le Sue “vie” cioè le Sue scelte, sono inaccessibili: l’uomo può vedere solo gli “effetti delle decisioni divine”, ma le Sue scelte profonde sono al di fuori della sua comprensione.
Paolo poi si pone tre domande che formula con le parole stesse della Scrittura. Per le prime due: “chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere?”
attinge ad un passo di Isaia e di Geremia (Is 40,13; Ger 23,18)
Per la terza domanda: “O chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne il contraccambio?” Paolo attinge al libro di Giobbe (Gb 41,3). Anche qui si possono solo dare risposte negative perché nessuno può pensare neppure lontanamente di aver dato qualcosa a Dio e pretendere così che Dio sia debitore nei suoi confronti. Dio è totalmente al di sopra e al di fuori della portata di ogni Sua creatura!
Alle tre domande fa seguito una piccola professione di fede “Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose”.
Paolo, qui si ispira alla teologia biblica della creazione in cui Dio è presentato come il principio supremo dal quale tutte le cose hanno origine. Dio è anche la causa strumentale, cioè Colui per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte ed è anche la meta verso cui gli esseri umani devono orientarsi per trovare il significato della loro vita.
Il brano termine con la formula: “A lui la gloria nei secoli. Amen” con la quale a Dio solo viene attribuita la lode da parte di tutte le creature.

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti».
Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
Mt 16,13-19

In questo brano l’evangelista Matteo riferisce che Gesù, venendo nelle parti di Cesarea di Filippo, chiede ai suoi discepoli: “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”
Prima Matteo aveva riportato che i farisei e i sadducei avevano chiesto a Gesù un segno dal cielo e Lui aveva risposto: “nessun segno sarà dato se non il segno di Giona.” Nel passare però all’altra riva, ai discepoli che avevano dimenticato di prendere il pane,Gesù ricorda loro la moltiplicazione dei pani e alla fine li ammonisce a guardarsi dal lievito dei farisei e dei sadducei.
Ora giunti a Cesarea di Filippo presso le sorgenti del Giordano, è Gesù che comincia a fare domande iniziando con il chiedere cosa la gente dice del Figlio dell’uomo. La risposta dei discepoli viene espressa con le stesse parole riportate anche nel Vangelo di Marco: “Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti”. Gesù viene così identificato, oltre che con il Battista, convinzione condivisa anche da Erode Antipa, con Elia, oppure con uno degli antichi profeti ritornato in vita. A questi personaggi Matteo aggiunge però anche Geremia, considerato un grande intercessore e difensore d’Israele.
Gesù non fa nessun commento a questa risposta, ma sembra più interessato a conoscere cosa i discepoli pensino di lui e incalza con la domanda che gli sta a cuore: “Ma voi, chi dite che io sia?”.
La risposta di Pietro è molto diretta: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Matteo amplia la risposta asserita da Marco aggiungendo “il Figlio del Dio vivente”, come pure la risposta di Gesù a Pietro si trova solo in Matteo: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”. Gesù così afferma che la conoscenza che Simone ha di lui non proviene da “carne e sangue”, cioè dalla sua intelligenza umana, ma da una rivelazione speciale del Padre
Gesù poi prosegue: "E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa”.
Il termine “Pietro”, è la traduzione greca dell’aramaico Kephas (roccia) e sta ad indicare una pietra staccata da un masso o un sasso. Nell’AT il titolo di “roccia” viene attribuito a Dio, in quanto saldo rifugio in cui l’orante trova protezione mentre nel NT l’appellativo di “pietra” è attribuito a Cristo (At 4,11; Rm 9,33; 1Pt 2,4-7). Simone era già stato chiamato precedentemente con questo nome (8,14; 10,2; 14,28; 15,15) ma secondo Matteo è in questo momento che Gesù glielo assegna ufficialmente.
Il cambiamento di nome significa nella Bibbia il conferimento di un compito che orienterà in modo nuovo la vita del prescelto. Per questo scopo Dio aveva cambiato il nome ad Abramo e a Giacobbe (Gen 17,5; 32,29).
Simone riceve il nome di Pietro perché su di lui, in quanto roccia, Gesù edificherà la Sua chiesa e contro la Chiesa fondata su Pietro le porte degli inferi non prevarranno. Con questa espressione Gesù non vuole certo dire che la Chiesa sarà preservata da tribolazioni, ma promette che non soccomberà agli assalti del Maligno
Infine Gesù promette ancora a Pietro: “A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”.
Il conferimento delle “chiavi” poteva indicare nel linguaggio biblico la trasmissione del potere di governo: a Eliakim, nominato maggiordomo del re, è conferita la chiave della casa di Davide, con la quale egli potrà aprire e chiudere (Is 22,22). In senso analogo nell’Apocalisse, Cristo è chiamato “il Santo, il Verace, Colui che ha la chiave di David” (Ap 3,7), che ha “potere sopra la morte e sopra gli inferi.”(Ap 1,18).
A Pietro invece sono assegnate le chiavi del regno dei cieli, cioè un ruolo che viene precisato subito dopo con i verbi “legare” e “sciogliere”.
A Pietro viene dunque conferito il potere di interpretare in modo autorevole l’insegnamento di Gesù e la volontà di Dio da Lui rivelata. Ciò che egli proibirà o permetterà sarà ratificato in cielo, cioè le sue decisioni in campo dottrinale o disciplinare verranno confermate da Dio.
La missione di Pietro è anche quella di offrire il perdono di Dio (come ci ricorda continuamente Papa Francesco) e più ampiamente è quella di consolare, di ammonire, di esortare e di guidare il popolo di Dio.



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“Il Vangelo di questa domenica presenta il momento nel quale Pietro professa la sua fede in Gesù quale Messia e Figlio di Dio. Questa confessione dell’Apostolo è provocata da Gesù stesso, che vuole condurre i suoi discepoli a fare il passo decisivo nella loro relazione con Lui. Infatti, tutto il cammino di Gesù con quelli che lo seguono, specialmente con i Dodici, è un cammino di educazione della loro fede. Prima di tutto Egli chiede: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» . Agli apostoli piaceva parlare della gente, come a tutti noi. Il pettegolezzo piace. Parlare degli altri non è tanto impegnativo, per questo, perché ci piace; anche “spellare” gli altri. In questo caso è già richiesta la prospettiva della fede e non il pettegolezzo, cioè chiede: “Che cosa dice la gente che io sia?”. E i discepoli sembrano fare a gara nel riferire le diverse opinioni, che forse in larga parte essi stessi condividevano. Loro stessi condividevano. In sostanza, Gesù di Nazaret era considerato un profeta.
Con la seconda domanda, Gesù li tocca sul vivo: «Ma voi, chi dite che io sia?» A questo punto, ci sembra di percepire qualche istante di silenzio, perché ciascuno dei presenti è chiamato a mettersi in gioco, manifestando il motivo per cui segue Gesù; per questo è più che legittima una certa esitazione. Anche se io adesso domandassi a voi: “Per te, chi è Gesù?”, ci sarà un po’ di esitazione. Li toglie d’imbarazzo Simone, che con slancio dichiara: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Questa risposta, così piena e luminosa, non gli viene dal suo impulso, per quanto generoso – Pietro era generoso –, ma è frutto di una grazia particolare del Padre celeste. Gesù stesso infatti gli dice: «Né carne né sangue te lo hanno rivelato – cioè la cultura, quello che hai studiato – no, questo non te l’ha rivelato. Te lo ha rivelato il Padre mio che è nei cieli» .
Confessare Gesù è una grazia del Padre. Dire che Gesù è il Figlio di Dio vivo, che è il Redentore, è una grazia che noi dobbiamo chiedere: “Padre, dammi la grazia di confessare Gesù”. Nello stesso tempo, il Signore riconosce la pronta corrispondenza di Simone all’ispirazione della grazia e quindi aggiunge, in tono solenne: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa». Con questa affermazione, Gesù fa capire a Simone il senso del nuovo nome che gli ha dato, “Pietro”: la fede che ha appena manifestato è la “pietra” incrollabile sulla quale il Figlio di Dio vuole costruire la sua Chiesa, cioè la Comunità. E la Chiesa va avanti sempre sulla fede di Pietro, su quella fede che Gesù riconosce [in Pietro] e lo fa capo della Chiesa.
Oggi, sentiamo rivolta a ciascuno di noi la domanda di Gesù: “E voi, chi dite che io sia?”. A ognuno di noi. E ognuno di noi deve dare una risposta non teorica, ma che coinvolge la fede, cioè la vita, perché la fede è vita! “Per me tu sei …”, e dire la confessione di Gesù. Una risposta che richiede anche a noi, come ai primi discepoli, l’ascolto interiore della voce del Padre e la consonanza con quello che la Chiesa, raccolta attorno a Pietro, continua a proclamare. Si tratta di capire chi è per noi Cristo: se Lui è il centro della nostra vita, se Lui è il fine di ogni nostro impegno nella Chiesa, del nostro impegno nella società. Chi è Gesù Cristo per me? Chi è Gesù Cristo per te, per te, per te… Una risposta che noi dovremmo dare ogni giorno.
Ma state attenti: è indispensabile e lodevole che la pastorale delle nostre comunità sia aperta alle tante povertà ed emergenze che sono dappertutto. La carità sempre è la via maestra del cammino di fede, della perfezione della fede. Ma è necessario che le opere di solidarietà, le opere di carità che noi facciamo, non distolgano dal contatto con il Signore Gesù. La carità cristiana non è semplice filantropia ma, da una parte, è guardare l’altro con gli occhi stessi di Gesù e, dall’altra parte, è vedere Gesù nel volto del povero. Questa è la strada vera della carità cristiana, con Gesù al centro, sempre. Maria Santissima, beata perché ha creduto, ci sia guida e modello nel cammino della fede in Cristo, e ci renda consapevoli che la fiducia in Lui dà senso pieno alla nostra carità e a tutta la nostra esistenza.”

Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 23 agosto 2020

Le letture liturgiche di questa domenica, ci presentano il tema della persecuzione e della missione profetica
Nella prima lettura, tratta dal Libro del profeta Geremia, nelle pagine delle sue “confessioni”, il profeta denuncia le insidie dei suoi calunniatori che lo deridono mentre egli mette in guardia il suo popolo dalla sventura: la conquista di Gerusalemme e la deportazione in Babilonia. La fedeltà alla vocazione è per Geremia una conquista quotidiana che conosce dubbi e crisi e che talora pesa come una maledizione, soprattutto quando si sperimenta il silenzio di Dio.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera di S.Paolo ai Romani, l’apostolo afferma che Cristo è l’uomo nuovo, l’iniziatore di una nuova umanità e fa risaltare questa verità contrapponendo l’opera di Cristo all’opera di Adamo
Nel brano tratto dal Vangelo secondo Matteo, Gesù parla ai suoi discepoli delle sofferenze che dovranno affrontare e lo fa con tale concretezza di particolari che sembra descrivere la Chiesa dei nostri tempi. Il centro dell’annuncio cristiano può portare derisione, persecuzione, tutto ciò comunque non deve stupire i discepoli del Signore, perchè anche i profeti hanno vissuto questo e Gesù stesso è passato attraverso l’incomprensione e la persecuzione.
La fede dei cristiani si fonda sul grande paradosso che anche quando per il mondo si è perdenti, nessuno è mai perduto da Dio.

Dal libro del profeta Geremìa
Sentivo la calunnia di molti:«Terrore all’intorno!Denunciatelo! Sì, lo denunceremo».
Tutti i miei amici aspettavano la mia caduta: «Forse si lascerà trarre in inganno,
così noi prevarremo su di lui,ci prenderemo la nostra vendetta».
Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso,per questo i miei persecutori vacilleranno
e non potranno prevalere;arrossiranno perché non avranno successo,
sarà una vergogna eterna e incancellabile.
Signore degli eserciti, che provi il giusto,che vedi il cuore e la mente,
possa io vedere la tua vendetta su di loro,
poiché a te ho affidato la mia causa!
Cantate inni al Signore,lodate il Signore,
perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori.
Ger 20,10-13


Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T. a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico. Il momento più difficile sicuramente fu quando si sente tradito persino da Dio e cade in una crisi dolorosa che lo porta quasi a rifiutare la sua vocazione. Dio però, senza togliergli le sue sofferenze, anzi annunziandogliene di più grandi, gli rinnova la S ua chiamata, chiedendogli di abbandonarsi interamente a Lui.
In una drammatica e celebre “confessione” (20,7-18) che precede di qualche versetto questo brano, il profeta si lamenta con Dio con parole accorate: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso»….., di averlo attratto con l'inganno, affidandogli un annunzio di sventura che non si è attuato, e di averlo così abbandonato allo scherno dei suoi avversari (vv. 7-8). Egli afferma poi di aver voluto rinunziare a parlare in nome di DIO, «Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo». La sua reazione è quella di un innamorato che si riconosce impotente di fronte alla forza dell’amore
A questo punto inizia il brano liturgico in cui Geremia denunzia le macchinazioni che vengono fatte contro di lui. Anzitutto rivela che molti riprendono con sarcasmo il suo messaggio di minaccia:
«Terrore all’intorno! Denunciatelo! Sì, lo denunceremo”. La sventura che egli annunzia è l’imminente conquista di Gerusalemme da parte dei babilonesi e la sua distruzione, che egli presenta come castigo di DIO per i peccati del popolo.
Geremia immagina il pensiero dei suoi amici che spiano la sua caduta: ”Forse si lascerà trarre in inganno,
così noi prevarremo su di lui, ci prenderemo la nostra vendetta”. Se questi “amici” erano le persone di cui lui si fidava, cosa dovevano essere i nemici! Geremia sperimentò così anche l'offesa e il dolore atroce del tradimento. L’abbattimento morale del profeta dovette durare a lungo ed essere ben visibile ai suoi avversari, i quali osservano le sue sofferenze ma con l’intento di coglierlo in fallo, cioè di fargli dire qualcosa di compromettente per riferirlo poi alle autorità e così demolirlo definitivamente.
“Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori vacilleranno e non potranno prevalere; arrossiranno perché non avranno successo, sarà una vergogna eterna e incancellabile”.
Qui sembra che il cielo si spalanchi, il Signore appare accanto al suo profeta umiliato ed emarginato e gli offre la sua protezione quasi militare, lui che è il «prode» difensore dei deboli e dei poveri.
Geremia aveva certamente presente la promessa fattagli dal Signore al momento della sua vocazione
«Ti muoveranno guerra ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti” (1.19) e questo lo rende sicuro della sua vittoria. Egli sa che il Signore è giudice implacabile e inesorabile nei confronti di chi ha violato i diritti dei suoi assistiti. Guidato dalla sua incrollabile fiducia in Dio, Geremia fa una preghiera,
“Signore degli eserciti, che provi il giusto, che vedi il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro, poiché a te ho affidato la mia causa!”
Il profeta sa che il Signore è “colui che prova il giusto e scruta il cuore e la mente” ( la prerogativa del Dio di Israele è precisamente quella di non fermarsi alle apparenze, ma di scrutare il cuore e la mente, cioè l’intimo dell’uomo) ed è certo di fare gli interessi di Dio e quindi non ha paura del Suo giudizio. A Dio egli chiede di poter vedere la sua vendetta sui suoi avversari, poiché a Lui ha affidato la sua causa. Egli non pensa di vendicarsi personalmente, ma attende da Dio la vendetta, cioè la giusta punizione dei suoi persecutori. E per di più chiede una vendetta che riguarda non lui personalmente, ma Dio. Egli si è talmente identificato con Lui da ritenere che la sua causa non è altro che la causa di Dio e la sua vendetta la vendetta di Dio!!. Qui è evidente che il profeta sembra avere un eccesso di zelo, in quanto dimentica che Dio non vuole arrivare alla vendetta, ma al perdono.
Il brano termina con un invito a cantare inni al Signore “perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori”.
Ma subito dopo, nei versetti non riportati dalla liturgia, il profeta prorompe in una terribile maledizione, imprecando persino contro il giorno in cui è nato (vv. 14-18).
Questo brano è il più drammatico delle confessioni, perché vi appare il rifiuto non solo della vita, ma anche e soprattutto della vocazione profetica, che aveva ricevuto fin dal seno materno (1,5).
Le confessioni di Geremia mettono in luce la profonda umanità del profeta. Egli non è un uomo violento o aggressivo, se ne starebbe volentieri per proprio conto, non cerca notorietà o potere. Invece è coinvolto in una situazione drammatica, nella quale è costretto, per il bene dei suoi connazionali, ad annunziare una terribile sciagura che potrà essere evitata solo con un gesto che poteva sembrare un tradimento della patria: aprire le porte ai nemici.
La sofferenza più grande del profeta non è stata quella di essere incompreso e perseguitato, ma di vedere avvicinarsi la rovina del suo popolo senza poterla impedire.
Geremia si può dire che è il profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù. Quando si sente abbandonato sembra scorgere in lui il Cristo nell’orto del Getsemani. Egli rimane per il suo popolo, ed anche per tutti i cristiani, un testimone della speranza e fedeltà alla propria vocazione nonostante le sofferenze fisiche e morali.

Salmo 68 - Nella tua grande bontà rispondimi, o Dio.
Per te io sopporto l’insulto e la vergogna mi copre la faccia;
sono diventato un estraneo ai miei fratelli,
uno straniero per i figli di mia madre.
Perché mi divora lo zelo per la tua casa,
gli insulti di chi ti insulta ricadono su di me.

Ma io rivolgo a te la mia preghiera,
Signore, nel tempo della benevolenza.
O Dio, nella tua grande bontà, rispondimi,
nella fedeltà della tua salvezza.
Rispondimi, Signore, perché buono è il tuo amore;
volgiti a me nella tua grande tenerezza

Vedano i poveri e si rallegrino;
voi che cercate Dio, fatevi coraggio,
perché il Signore ascolta i miseri
non disprezza i suoi che sono prigionieri.
A lui cantino lode i cieli e la terra,
i mari e quanto brùlica in essi.

La lettura attenta del salmo porta a datarlo al tempo di Ezechia, dopo la campagna di Sennacherib contro la Giudea e il fallito assedio di Gerusalemme (ca. 701) a causa di un’epidemia nell’esercito (2Re 18,13s.35). L’azione militare di Sennacherib aveva devastato la Giudea. Gli annali di Sennacherib rivelano che furono espugnate 46 città. In questo contesto il pio giudeo del salmo si trova ad urtare contro coloro che guardano all’Egitto come soluzione dei mali nazionali mettendo in dubbio Dio, la fedeltà di Dio, e abbracciando il relativismo religioso. Il pio giudeo prega, digiuna, indossa un abito di sacco, segno penitenziale, e zela per la “casa del Signore”, cioè il tempio, e ciò che il tempio significa. Egli propone la conversione a Dio e ha un certo numero di persone che guardano a lui. E’ il tempo della benevolenza, cioè l’anno sabbatico, ed egli spera la pace nei cuori: “Ma io rivolgo a te la mia preghiera, Signore, nel tempo della benevolenza”. Per noi il tempo della benevolenza è quello che ha promulgato Cristo e che durerà sino alla fine del mondo (Cf. Mt 4,19). Il pio giudeo però è osteggiato e perseguitato da molti; proprio a causa della sua fede. Viene beffeggiato e deriso nella sua azione penitenziale, e quando entra a Gerusalemme quelli che mercanteggiano e sostano divertendosi alla porta, dalla quale passa per entrare in città, lo deridono, senza che alcuno si metta dalla sua parte: “Sparlavano di me quanti sedevano alla porta, gli ubriachi mi deridevano”. La sua situazione si presenta drammatica perché viene calunniato di furto: “Quanto non ho rubato, dovrei forse restituirlo?”. Tutto ciò gli ha creato il vuoto attorno: “Sono diventato un estraneo ai miei fratelli, un straniero per i figli di mia madre“. Egli avverte tutta la sua debolezza e invoca Dio affinché gli dia forza, poiché non vuole diventare una delusione per coloro che fanno riferimento a lui: “Per causa mia non si vergogni chi ti cerca, Dio d’Israele”. Le espressioni che usa per presentare a Dio la sua situazione sono di un’intensità pari alla drammaticità della sua situazione: “L’acqua mi giunge alla gola. Affondo in un abisso di fango, non ho nessun sostegno... Sono sfinito dal gridare, la mia gola è riarsa…”. Ma il pio giudeo non desiste dalla preghiera, dalla fiducia in Dio; ed è sostenuto dalla speranza che Dio continuerà a difendere Sion, e che le città di Giuda saranno riedificate: “Perché Dio salverà Sion, ricostruirà le città di Giuda”. Questa speranza rimarrà nel nucleo fervente d’Israele anche quando, a causa dei peccati e della loro mancata penitenza, Israele sperimenterà la distruzione di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia. Riguardo la Chiesa, di cui Sion è una figura, risuonano queste parole di Gesù: (Mt 16,18) “Le potenze degli inferi non prevarranno su di essa”.
Questo salmo è ricco di profezia riguardo le sofferenze di Cristo (Cf. Gv 2,17; 15,25).
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato…
Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti.
Rm 5,12-15

Nei primi 4 capitoli della Lettera ai Romani, Paolo ha affrontato la giustificazione che si ottiene mediante la fede e non più attraverso l'osservanza della legge. Questo brano tratto dal capitolo 5 rappresenta l’ultimo anello della lunga esposizione riguardante la giustificazione mediante la fede che aveva avuto inizio al capitolo 1. In esso l’apostolo, dopo aver messo in luce la prospettiva escatologica della giustificazione (vv. 1-11), passa a trattare il tema della vittoria sul peccato che essa comporta (vv. 12-21). Egli aveva già affrontato questo secondo tema quando, dopo aver descritto la rivelazione dell’ira di Dio, causata appunto dal peccato dell’uomo, aveva presentato l’opera di Cristo come una redenzione e una espiazione (3,21-26). Ora lo riprende sottolineando come la liberazione dal peccato implichi il passaggio dell’uomo dalla solidarietà con l’umanità peccatrice (vv. 12-14) alla solidarietà con Cristo (vv. 15-19).
Il brano inizia con questa affermazione: “come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato”.
In questo versetto la situazione in cui si trovava l’umanità prima di Cristo viene descritta alla luce di quanto la Genesi dice di colui che è stato il primo peccatore. Il brano inizia con un “come” esemplificativo, mediante il quale Paolo ricollega quanto sta per dire al brano precedente, indicando così l’intenzione di dare ulteriori spiegazioni circa il ruolo svolto da Cristo nella riconciliazione dell’umanità con Dio. L’apostolo prosegue con un “così”, che introduce il confronto tra Adamo e Cristo.
Dopo aver qualificato Adamo come colui che ha introdotto il peccato e la morte nel mondo, Paolo prosegue con il secondo termine di paragone, cioè la figura e il ruolo di Cristo, ma approfondisce ulteriormente le conseguenze del gesto di Adamo. Il peccato di Adamo ha avuto effetti devastanti in quanto tutti gli uomini, con i loro peccati personali, si sono resi partecipi e corresponsabili di quella situazione di morte a cui egli ha dato inizio.
Dopo aver segnalato l’ingresso nel mondo del peccato e della morte, Paolo prosegue: “Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, …La situazione di peccato e di morte determinata dal primo uomo si è protratta fino al momento in cui Dio ha conferito la legge a Israele.
Paolo pone però un’obiezione: come è possibile ciò “se il peccato non può essere imputato quando manca la legge?” Se non c’è una legge che proibisce una certa azione, il commetterla non può essere considerato come peccato, se si intende per peccato la trasgressione di un precetto. Ma per Paolo non esiste nessun essere umano che non abbia avuto, se non la legge mosaica, almeno qualcosa di simile: tutti infatti hanno conosciuto Dio, venendo così a conoscere quella legge morale che hanno trasgredito.
Perciò risponde all’obiezione osservando che “la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo”. Ossia siccome la morte, vista come un fatto non solo fisico ma anche spirituale, ha manifestato i suoi effetti devastanti anche su coloro che non avevano ricevuto come Adamo un precetto esplicito, ciò è sufficiente per dire che anch’essi non sono esenti dal peccato. Dopo aver nominato espressamente due volte il nome di Adamo, Paolo aggiunge che egli “è figura di colui che doveva venire”. Con queste parole riporta il discorso all’intenzione originaria, che era quella di confrontare Adamo con Cristo.
Tutti gli uomini si sono resi corresponsabili del peccato commesso dal primo uomo, cioè si sono lasciati liberamente coinvolgere nella situazione che da lui ha avuto origine.
Paolo sviluppa la sua dimostrazione mediante tre argomenti. Anzitutto egli afferma: “Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti”.
La superiorità di Cristo su Adamo appare anzitutto dal fatto che “il dono di grazia” non è come la “caduta”: infatti se la caduta di uno solo ha fatto sì che “tutti” morissero, molto di più grazie a un solo uomo, Gesù Cristo, la grazia di Dio ha abbondato “su tutti”. In altre parole, proprio per la sua funzione di Uomo (Figlio dell’uomo, nuovo Adamo), Cristo ha portato a tutta l’umanità una realtà di grazie che supera immensamente la realtà di morte di cui è stato portatore Adamo.
Paolo non pensa dunque che il peccato di Adamo si trasmetta misteriosamente da lui a ognuno dei suoi discendenti, ma lo considera come l’inizio di una “situazione di peccato” in cui tutti, non senza loro colpa e con le debite eccezioni, sono coinvolti.
Circa Adamo e il suo peccato, Paolo riprende questa suggestiva immagine biblica per mostrare come Dio abbia inviato un nuovo Adamo, capostipite di un’umanità riconciliata, al quale ognuno è chiamato ad associarsi mediante la fede.
Riguardo al rapporto tra peccato e morte, Paolo non vuole certo affermare che, senza il peccato di Adamo, la morte in senso fisico non sarebbe esistita, al contrario egli ritiene che, a causa del peccato, la morte cambi profondamente significato: senza di esso l’uomo avrebbe terminato la sua esistenza terrena nella comunione con Dio e nella serena fiducia di una sopravvivenza in Lui; il peccato, invece, fa sì che la morte diventi il simbolo e il marchio del suo fallimento, trasformandola quindi in una realtà ostile, che l’uomo tende continuamente a rimuovere.
In questa sua opera, che lo accomuna al Servo del Signore, Gesù appare come il nuovo Adamo da cui ha origine un’umanità riconciliata con Dio.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze.
E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura:voi valete più di molti passeri!
Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.“
Mt 10,26-33

Questo brano tratto dal capitolo 10 del Vangelo di Matteo continua il discorso missionario che Gesù fa ai suoi discepoli prima di inviarli in missione. Matteo raccoglie una serie di massime, che mettono in luce l’atteggiamento che il discepolo deve assumere di fronte alle pressioni che gli vengono dall’esterno.
Gesù inizia con l’invitare il discepolo a non temere coloro che lo perseguitano:
“Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto”.
Dai termini usati possiamo capire che quanto viene detto si rifà al genere apocalittico: Dio rivela gli avvenimenti futuri al suo inviato, affinché li scriva in un libro che sarà letto quando staranno per avverarsi. La persecuzione degli apostoli, come è detto nel versetto precedente,(non riportato dalla liturgia) sarà inevitabile: “è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro e per il servo come il suo padrone. Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più i suoi familiari!” (Mt 10,25).
Quello che si afferma in questo versetto è in sintonia con quanto detto nei versetti precedenti. Il discepolo deve raggiungere il livello del suo maestro, deve essere disponibile ad annunciare il vangelo con tutta franchezza, senza lasciarsi intimorire dalle minacce dei suoi oppositori.
Gesù fa un altro invito ai discepoli: “Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze”.
L'insegnamento di Gesù ha sempre qualcosa di misterioso, qualcosa che Egli dice ai suoi discepoli e non alle folle (es. l'utilizzo delle parabole invece dei discorsi espliciti, Mt 13,10-11), ma questo messaggio Lui vuole che deve essere poi predicato dalle terrazze che fanno da tetto alle case della Palestina, cioè da luoghi alti e scoperti, in modo che tutti lo possano sentire.
Infine Gesù invita i discepoli a non avere “paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima”; ma piuttosto di “colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo”.
Egli così prospetta loro la possibilità di una morte violenta, ma li esorta a non temere gli uomini che possono al massimo privarli della vita fisica. Devono temere piuttosto Dio che nel giudizio può condannarli alla dannazione eterna nell'inferno (= geenna). La vita terrena non è nulla in confronto alla vita imperitura che il Padre darà loro in cielo.
Benché Matteo distingua l'anima dal corpo, non prende in considerazione l'esistenza dell'anima separata dal corpo dopo la morte, cioè nel tempo intermedio prima della parusia di Gesù. Per il semita è inconcepibile la vita senza il corpo. Il detto si riferisce quindi alla totalità della vita dell'uomo, che può essere conservata da Dio anche dopo la morte.
L’esortazione si prolunga in un detto riguardante positivamente la fiducia.
Gesù afferma: “Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro”
Il "soldo" è la moneta romana più piccola. Il passero, il piccolo uccello mangiato dai poveri, era il genere di carne meno cara che si poteva trovare sul mercato. Eppure la caduta a terra del passero, cioè la sua morte, non avverrà senza che Dio lo sappia e lo permetta. Se Dio si prende cura dei passeri, quanta maggiore cura avrà per gli uomini!
E prosegue “Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura:voi valete più di molti passeri!
Gesù illustra con questi esempi la cura premurosa di Dio per i discepoli: essi non potranno subire alcun danno senza che egli lo permetta, e se lo permette ciò è certamente per poter attribuire loro un bene maggiore.
Gli ultimi due versetti contengono un parallelismo antitetico: “chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.“
Il detto riguarda la confessione pubblica di Gesù, (quella che Pietro non aveva saputo fare al momento del processo), e nell’annunzio del vangelo. Si può notare che mentre nel detto precedente Gesù parlava di Dio come “Padre vostro”, ora lo definisce “Padre mio”. Il richiamo insistente del Padre richiama il motivo della paternità divina che rappresenta la novità centrale del messaggio evangelico: Gesù ha fatto per primo l’esperienza del rapporto speciale che Dio ha stabilito con l’umanità e l’ha comunicata ai suoi discepoli.
La bontà di Dio deve essere di conforto e di incoraggiamento nelle sofferenze e nella morte che aspettano i discepoli e con Dio nel cuore la paura non ha più ragione di essere.
È vero che Gesù accenna al timore che bisogna avere per “colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo“, ma questo riferimento alla paura serve a sottolineare la responsabilità del discepolo e a fargli capire che il rinnegare può avere conseguenze negative sia per lui stesso che per gli altri. Non deve però essere la paura a motivare le sua scelte, ma la fiducia nel Padre e soprattutto la solidarietà con Gesù, il quale ha dimostrato che proprio attraverso la sofferenza si attua la salvezza.
In questo senso Gesù è il modello e la guida di tutti coloro che cercano Dio. Rinnegare Gesù, quando lo si è conosciuto, significa rifiutare il progetto divino di salvezza.

*****

“Nel Vangelo di questa domenica risuona l’invito che Gesù rivolge ai suoi discepoli a non avere paura, ad essere forti e fiduciosi di fronte alle sfide della vita, preavvisandoli delle avversità che li attendono.
Il brano odierno fa parte del discorso missionario, con cui il Maestro prepara gli Apostoli alla prima esperienza di annuncio del Regno di Dio. Gesù li esorta con insistenza a “non avere paura”. La paura è uno dei nemici più brutti della nostra vita cristiana. Gesù esorta: “Non abbiate paura”, “non abbiate paura”. E Gesù descrive tre situazioni concrete che essi si troveranno ad affrontare.
Anzitutto, la prima, l’ostilità di quanti vorrebbero zittire la Parola di Dio, edulcorandola, annacquandola, o mettendo a tacere chi la annuncia. In questo caso, Gesù incoraggia gli Apostoli a diffondere il messaggio di salvezza che Lui ha loro affidato. Per il momento, Lui lo ha trasmesso con cautela, quasi di nascosto, nel piccolo gruppo dei discepoli. Ma loro dovranno dire “nella luce”, cioè apertamente, e annunciare “dalle terrazze” – così dice Gesù – cioè pubblicamente, il suo Vangelo.
La seconda difficoltà che i missionari di Cristo incontreranno è la minaccia fisica contro di loro, cioè la persecuzione diretta contro le loro persone, fino all’uccisione. Questa profezia di Gesù si è realizzata in ogni tempo: è una realtà dolorosa, ma attesta la fedeltà dei testimoni. Quanti cristiani sono perseguitati anche oggi in tutto il mondo! Soffrono per il Vangelo con amore, sono i martiri dei nostri giorni. E possiamo dire con sicurezza che sono più dei martiri dei primi tempi: tanti martiri, soltanto per il fatto di essere cristiani. A questi discepoli di ieri e di oggi che patiscono la persecuzione, Gesù raccomanda: «Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima». Non bisogna lasciarsi spaventare da quanti cercano di spegnere la forza evangelizzatrice con l’arroganza e la violenza. Nulla, infatti, essi possono contro l’anima, cioè contro la comunione con Dio: questa, nessuno può toglierla ai discepoli, perché è un dono di Dio. La sola paura che il discepolo deve avere è quella di perdere questo dono divino, la vicinanza, l’amicizia con Dio, rinunciando a vivere secondo il Vangelo e procurandosi così la morte morale, che è l’effetto del peccato.
Il terzo tipo di prova che gli Apostoli si troveranno a fronteggiare, Gesù la indica nella sensazione, che alcuni potranno sperimentare, che Dio stesso li abbia abbandonati, restando distante e silenzioso. Anche qui esorta a non avere paura, perché, pur attraversando queste e altre insidie, la vita dei discepoli è saldamente nelle mani di Dio, che ci ama e ci custodisce. Sono come le tre tentazioni: edulcorare il Vangelo, annacquarlo; seconda, la persecuzione; e terza, la sensazione che Dio ci ha lasciati da soli. Anche Gesù ha sofferto questa prova nell’orto degli ulivi e sulla croce: “Padre, perché mi hai abbandonato?”, dice Gesù. Alle volte si sente questa aridità spirituale; non ne dobbiamo avere paura. Il Padre si prende cura di noi, perché grande è il nostro valore ai suoi occhi. Ciò che importa è la franchezza, è il coraggio della testimonianza, della testimonianza di fede: “riconoscere Gesù davanti agli uomini” e andare avanti facendo del bene.
Maria Santissima, modello di fiducia e di abbandono in Dio nell’ora dell’avversità e del pericolo, ci aiuti a non cedere mai allo sconforto, ma ad affidarci sempre a Lui e alla sua grazia, perché la grazia di Dio è sempre più potente del male.”

Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 21 giugno 2020

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