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Le letture liturgiche di questa domenica ci invitano a compiere un grande atto di fede per accogliere la Parola di Gesù che ci rivela la straordinaria realtà del Figlio di Dio che per restare sempre con noi sceglie di identificarsi con un cibo semplice, quotidiano, come il pane, sceglie di farsi pane per divenire un “perenne rendimento di grazie o “Eucaristia”..
Nella prima lettura, tratta dal Libro dei Proverbi, leggiamo che la Sapienza viene personificata e invita tutti a nutrirsi alla sua “tavola”, luogo simbolico della conoscenza di Dio e della ricchezza dei suoi doni.
Nella seconda lettura, scrivendo ai cristiani di Efeso, Paolo ci invita a fuggire la stoltezza. Il sapiente è colui che si inebria non del vino, che stordisce, ma dello Spirito Santo, che gli apre il cuore al canto, alla preghiera e al ringraziamento.
Nel Vangelo di Giovanni, di fronte alle contestazioni, Gesù precisa meglio l’insegnamento sull’Eucaristia. Il pane che viene da Dio dona la vita che non ha fine, a differenza della manna. Questo “pane” è Gesù stesso, la sapienza di Dio, il Figlio del Padre, che ci vuole fare partecipi della sua vita divina. Gesù annulla davvero ogni distanza tra l’uomo ed Dio, il quale è ormai talmente a lui prossimo da poter essere “mangiato”.

Dal libro dei Proverbi
La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: «Chi è inesperto venga qui!». A chi è privo di senno ella dice: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato.
Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza».
Pr 9,1-6

Il Libro dei Proverbi è un testo contenuto sia nella Bibbia ebraica che cristiana. È stato scritto in ebraico, intorno al V secolo a.C., raccogliendo testi scritti da autori ignoti lungo i secoli precedenti fino al periodo monarchico (XI-X secolo a.C.). È composto da 31 capitoli contenenti vari proverbi e detti sapienziali. Se è attribuito tutto al re Salomone, che ha regnato dal 970 al 931 a.C. , ciò è dovuto al fatto che questo re è considerato il “Saggio di Israele” , però solo la seconda e la quinta, le più antiche, delle raccolte possono rivendicare il suo intervento. Le altre sono più recenti soprattutto la prima e l’ultima potrebbero risalire al V secolo. La sapienza che proviene dai Proverbi non rimane tesa ad una virtù puramente umana, conquista della ragione, ma nell’insieme del Libro essa assume un senso religioso e morale assai profondo: poiché questa condotta di vita è intesa come esigenza di fedeltà verso Dio, come “timore di Dio”. Ancora di più:il comportamento umano che si predica vuole essere come un riflesso del pensiero e dello stile di Dio, ossia della Sapienza divina, che, eterna, presiede alla creazione e all’ordine del mondo.
Nel capitolo 9, da dove è tratto questo brano, si contrappongono due inviti, quello della Donna sapienza , e quello di Donna Follia. La prima è attiva e costruttrice, la seconda irrequieta e fannullona. Entrambe invitano gli inesperti e privi di senno.
Questo brano, della Donna sapienza inizia affermando:
“La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne”. La sapienza ha i suoi frutti ed è portatrice di vita, essa stessa prepara il banchetto della vita e invita tutti nella sua casa . La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne, e la sua casa è perfetta perchè poggia anche su sette colonne.
“Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola”. Non solo la sapienza ha costruito la casa, ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola. Tutto è stato fatto da essa senza l’aiuto umano.
“Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città”. Non solo la sapienza ha pensato a tutto, pensa anche ad invitare al banchetto della vita e per questo manda le sue ancelle. indicando essa stessa dove andare. L’invito è rivolto a tutti e tutti devono poterlo ascoltare. Nessuno dovrà dire: a me non è giunto alcun invito.
“«Chi è inesperto venga qui!». A chi è privo di senno ella dice: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato”.Questo per dire: Se volete ottenere la sapienza dovete nutrirvi di me. Dovete saziarvi di me che sono il vostro pane, di me che sono il vostro vino. Se vi sazierete di me, diventerete saggi, altrimenti rimarrete nella vostra stoltezza e insipienza.
“Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza”. Chi si nutre della sapienza vivrà. Andrà diritto per la via dell’intelligenza chi si nutre, chi accoglie il suo invito e partecipa al banchetto della vita.
Il tema del banchetto, al quale si radunano i saggi, è sempre stato caro sin dall’antichità, Gesù stesso ci parlerà degli invitati al banchetto regale nella parabola del banchetto nuziale (Mt 22,1 e Lc 14,16)
L’uomo che ha trovato la sapienza vive le situazioni quotidiane, anche difficili, con uno spirito superiore, senza essere dominato da nulla, senza perdere mai il controllo di sé. Colui che ha trovato la sapienza si muove in una perenne armonia, perché Dio stesso ripristina in lui l’immagine intatta dell’uomo originario, quello uscito dalle mani del Creatore.

Salmo 33 - Gustate e vedete com’è buono il Signore.
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.

Temete il Signore, suoi santi:
nulla manca a coloro che lo temono.
I leoni sono miseri e affamati,
ma a chi cerca il Signore non manca alcun bene.

Venite, figli, ascoltatemi:
vi insegnerò il timore del Signore.
Chi è l’uomo che desidera la vita
e ama i giorni in cui vedere il bene?

Custodisci la lingua dal male,
le labbra da parole di menzogna.
Sta’ lontano dal male e fa’ il bene,
cerca e persegui la pace.

L’autore del salmo, ricco dell’esperienza di Dio indirizza il suo sapere ai poveri, agli umili, e in particolare ai suoi figli. Egli afferma che sempre benedirà il Signore e che sempre si glorierà di lui. Egli chiede di venire ascoltato e invita gli umili ad unirsi con lui nel celebrare il Signore: “Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome”.
Egli comunica la sua storia dicendo che ha cercato il Signore e ne ha ricevuto risposta cosicché “da ogni timore mi ha liberato”. Per questo invita gli umili a guardare con fiducia a Dio, e dice: “sarete raggianti”. “Questo povero”, cioè il vero povero, quello che è umile, è ascoltato dal Signore e l’angelo del Signore lo protegge dagli assalti dei nemici: “L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono (Dio), e li libera”. L’angelo del Signore è con tutta probabilità l’angelo protettore del popolo di Dio, chiamato così per antonomasia; sarebbe l’arcangelo Michele (Cf. Es 14,19; 23,23; 32,34; Nm 22,22; Dn 10,21; 12,1).
Il salmista continua la sua composizione invitando ad amare Dio dal quale procede gioia e pace: “Gustate e vedete com'è buono il Signore, beato l’uomo che in lui si rifugia”.
L’orante moltiplica i suoi inviti al bene: “Sta lontano dal male e fà il bene, cerca e persegui la pace”. Cercala, cioè trovala in Dio, e perseguila comportandoti rettamente con gli altri.
Il salmista non nasconde che il giusto è raggiunto da molti mali, ma dice che “da tutti lo libera il Signore”. Anche dalle angosce della morte, poiché “custodisce tutte le tue ossa, neppure uno sarà spezzato”. Queste parole sono avverate nel Cristo, come dice il Vangelo di Giovanni (19,16). Per noi vanno interpretate nel senso che se anche gli empi possono prevalere fino ad uccidere il giusto e farne scempio, le sue ossa sono al riparo perché risorgeranno.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla seconda lettera di S.Paolo Apostolo agli Efesini
Fratelli, fate molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da saggi, facendo buon uso del tempo, perché i giorni sono cattivi.
Non siate perciò sconsiderati, ma sappiate comprendere qual è la volontà del Signore. E non ubriacatevi di vino, che fa perdere il controllo di sé; siate invece ricolmi dello Spirito, intrattenendovi fra voi con salmi, inni, canti ispirati, cantando e inneggiando al Signore con il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo.
Ef 5,15-20

Paolo proseguendo nella sua lettera agli Efesini, dopo aver esortato a vivere cristianamente imitando il Padre e Cristo, ora esorta i cristiani a fare molta attenzione al loro modo di vivere, a comportarsi non da stolti ma da saggi, facendo buon uso del tempo, perché i giorni sono cattivi.
L’espressione “fare buon uso del tempo” è comprenderne il valore e le possibilità che esso offre; significa anche sfruttare queste possibilità tenendo presente il fine ultimo e scegliendo il meglio in ogni situazione. Tutto questo è sapienza, ed è di questa che c’è bisogno, “perché i giorni sono cattivi”. E’ il maligno che con gli ultimi sforzi del suo regno caduto rende cattivi i giorni con ogni sorta di tentazioni, angosce e pericoli per l’umanità. La sapienza è necessaria per vedere, nonostante tutto, la croce in questo male, per scorgere, dietro tutto quello che sembra solo distruzione, la strada che conduce alla vita.
Paolo ammonisce con insistenza: “Non siate perciò sconsiderati, ma sappiate comprendere qual è la volontà del Signore” e precisa “E non ubriacatevi di vino, che fa perdere il controllo di sé..”L’ammonimento a non inebriarsi col vino è particolare anche perché non prosegue la serie delle singole esortazioni, ma prende posizione contro l’alcolismo e invita alla temperanza. Mette poi in guardia dal cercare la salvezza affogando le tribolazioni nel vino (oggi la lista sarebbe purtroppo ancora più lunga), ma la salvezza per l’uomo non sta nello stordimento, nel divertimento sfrenato, senza limiti, perchè le difficoltà e le preoccupazioni sono solo temporaneamente dimenticate, solo lo Spirito di Dio può sollevarlo, donandogli un anticipo della vita di Dio verso la quale sta camminando.
L’Apostolo invita anche noi oggi ad “essere saggi, a non perdere tempo”.
Non possiamo sprecare il tempo che Dio ci ha donato! Non possiamo agire con leggerezza ma dobbiamo capire bene quale sia la volontà del Signore.
Paolo ci propone di impiegare il nostro tempo, vivendo ripieni dello Spirito di Dio e godendosi la vita lodando, adorando e ringraziando insieme il Signore.
Gesù aveva indicato ai suoi discepoli il metodo migliore per attirare gli altri verso il regno di Dio: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”.(Gv 13:35).
La vita comunitaria vissuta nell’amore gli uni per gli altri è quindi tempo decisamente speso in modo saggio.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Gv 6,51-58

In questo brano, Gesù sviluppa il discorso eucaristico iniziato dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani, e lo rende più radicale affermando: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Il pane che Gesù darà non solo si identifica con la Sua persona, ma è la Sua stessa carne che deve essere mangiata perché possa comunicare la vita.
Nel linguaggio biblico la carne non è altro che la persona umana, vista però in tutta la sua limitatezza e fragilità. In Gesù, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, il Verbo si è fatto carne, e ora dà la Sua carne in cibo all’umanità. L’identificazione del pane della vita con la “carne” di Gesù ci porta a pensare all’ultima cena in cui Gesù darà ai suoi discepoli il pane e il vino come segno del Suo corpo.
Il brano prosegue riportando che i giudei esprimono di nuovo la loro incredulità chiedendosi: Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù non risponde alla loro domanda, ma prosegue il Suo discorso: “In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. “
Con queste parole Gesù, invece di chiarire il significato dell’affermazione precedente, accentua la sua realtà sottolineando come per avere la vita sia necessario non solo mangiare la Sua carne ma anche bere il Suo sangue.
Poi Gesù ancora precisa: : “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.”
Con queste espressioni Egli non fa altro che ribadire quanto affermato precedentemente, sottolineando che la Sua carne è “vero” cibo e il Suo sangue è “vera” bevanda: l’effetto di questo mangiare e bere è la vita eterna che appare come una realtà già presente e al tempo stesso futura, in quanto coincide con la risurrezione che avrà luogo “nell’ultimo giorno”.
Il significato della vita promessa a chi mangia la Sua carne e beve il Suo sangue viene ulteriormente specificato da Gesù con queste parole:. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Tra Gesù e colui che mangia il Suo corpo e beve il Suo sangue, si instaura dunque un’intima comunione di vita, che si modella su quella che unisce Gesù al Padre, anzi ne è la conseguenza e lo sviluppo logico: come il Figlio, che è stato mandato dal Padre, attinge da Lui tutta la Sua vita, così chi si nutre del Figlio attinge da Lui quella stessa vita che Egli ha ricevuto dal Padre.
Gesù giunge alla fine del Suo discorso dicendo: Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Con queste parole Gesù, riprendendo espressioni già usate precedentemente afferma di essere Lui il pane disceso dal cielo, perché, diversamente dalla manna, Lui dà una vita che dura eternamente.
La Sua persona, donata sulla croce per la salvezza di tutta l’umanità e rappresentata nei segni eucaristici del pane e del vino, è dunque il nutrimento dei tempi escatologici, dal quale scaturisce la vita piena nella comunione con il Padre.
Il credente è ora invitato alla comunione con la Sapienza divina e con Cristo attraverso l’Eucaristia. Non è una comunione automatica, superficiale come purtroppo spesso avviene nelle nostre celebrazioni eucaristiche distratte, abitudinarie, tradizionali, deve essere invece una comunione che è dialogo e reciprocità.
La comunione eucaristica trasforma il credente, lo rende inno di lode, lo rende Corpo di Cristo e sua Parola vivente :“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui”, queste Sue parole non le dovremmo mai dimenticare.

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"In queste domeniche la Liturgia ci sta proponendo, dal Vangelo di Giovanni, il discorso di Gesù sul Pane della vita, che è Lui stesso e che è anche il sacramento dell’Eucaristia. Il brano di oggi presenta l’ultima parte di tale discorso, e riferisce di alcuni tra la gente che si scandalizzano perché Gesù ha detto: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».
Lo stupore degli ascoltatori è comprensibile; Gesù infatti usa lo stile tipico dei profeti per provocare nella gente – e anche in noi – delle domande e, alla fine, provocare una decisione. Anzitutto delle domande: che significa “mangiare la carne e bere il sangue” di Gesù?, è solo un’immagine, un modo di dire, un simbolo, o indica qualcosa di reale? Per rispondere, bisogna intuire che cosa accade nel cuore di Gesù mentre spezza i pani per la folla affamata. Sapendo che dovrà morire in croce per noi, Gesù si identifica con quel pane spezzato e condiviso, ed esso diventa per Lui il “segno” del Sacrificio che lo attende. Questo processo ha il suo culmine nell’Ultima Cena, dove il pane e il vino diventano realmente il suo Corpo e il suo Sangue. E’ l’Eucaristia, che Gesù ci lascia con uno scopo preciso: che noi possiamo diventare una cosa sola con Lui. Infatti dice: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» . Quel “rimanere”: Gesù in noi e noi in Gesù. La comunione è assimilazione: mangiando Lui, diventiamo come Lui. Ma questo richiede il nostro “sì”, la nostra adesione di fede.
A volte si sente, riguardo alla santa Messa, questa obiezione: “Ma a cosa serve la Messa? Io vado in chiesa quando me la sento, o prego meglio in solitudine”. Ma l’Eucaristia non è una preghiera privata o una bella esperienza spirituale, non è una semplice commemorazione di ciò che Gesù ha fatto nell’Ultima Cena. Noi diciamo, per capire bene, che l’Eucaristia è “memoriale”, ossia un gesto che attualizza e rende presente l’evento della morte e risurrezione di Gesù: il pane è realmente il suo Corpo donato per noi, il vino è realmente il suo Sangue versato per noi.
L’Eucaristia è Gesù stesso che si dona interamente a noi. Nutrirci di Lui e dimorare in Lui mediante la Comunione eucaristica, se lo facciamo con fede, trasforma la nostra vita, la trasforma in un dono a Dio e ai fratelli. Nutrirci di quel “Pane di vita” significa entrare in sintonia con il cuore di Cristo, assimilare le sue scelte, i suoi pensieri, i suoi comportamenti. Significa entrare in un dinamismo di amore e diventare persone di pace, persone di perdono, di riconciliazione, di condivisione solidale. Le stesse cose che Gesù ha fatto.
Gesù conclude il suo discorso con queste parole: «Chi mangia questo pane vivrà in eterno» . Sì, vivere in comunione reale con Gesù su questa terra ci fa già passare dalla morte alla vita. Il Cielo incomincia proprio in questa comunione con Gesù. E in Cielo ci aspetta già Maria nostra Madre – abbiamo celebrato ieri questo mistero. Lei ci ottenga la grazia di nutrirci sempre con fede di Gesù, Pane della vita."
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 16 agosto 2015

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica hanno come filo conduttore il pane: l’alimento base e necessario per vivere.
Nella prima lettura, tratta dal I libro dei Re, vediamo che al profeta Elia, sfiduciato perchè perseguitato, Dio invia il suo angelo che lo solleva con il dono del pane e dell’acqua così può riprendere il suo cammino e camminare con fiducia fino al monte di Dio.
Nella seconda lettura, scrivendo ai cristiani di Efeso, Paolo li invita ad imitare l’amore di Dio Padre che nel Suo Figlio Gesù ha voluto mostrare il segno più alto della Sua comunione con gli uomini: “Cristo ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio per la nostra salvezza”.
Nel Vangelo di Giovanni, Gesù afferma di essere il pane disceso dal cielo e sviluppa in termini potentemente efficaci l’idea fondamentale del Vangelo di Giovanni “il Verbo si fece carne” e i giudei che non comprendono, mormoreranno che il suo è un linguaggio incomprensibile.
Il Vangelo di Giovanni, più dei tre vangeli sinottici, oltre a spiegarci razionalmente l’Eucaristia, ci mette in tensione col Cristo e il Suo mistero richiamandoci alla perennità della Sua presenza, del Suo quotidiano ritorno nelle specie del pane e del vino: quasi a significarci che il Verbo non si è fatto carne un volta per tutte, ma lo ridiventa ogni giorno per esserci accanto e per darci sostegno e vita.

Dal primo libro dei Re
In quei giorni, Elia s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». Si coricò e si addormentò sotto la ginestra.
Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia!». Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò. Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino».
Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.
1Re 19,4-8

Il primo libro dei re, come il secondo, è un testo contenuto sia nella Bibbia ebraica (Tanakh, dove sono contati come un testo unico) che in quella cristiana. Sono stati scritti entrambi in ebraico e secondo molti esperti, la loro redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte, in particolare della cosiddetta fonte deuteronomista del VII secolo a.C., integrata da tradizioni successive.
Il primo libro è composto da 22 capitoli descriventi la morte di Davide, Salomone, la scissione del Regno di Israele dal Regno di Giuda, il ministero del Profeta Elia (nel nord) e i vari re di Israele e Giuda, eventi datati attorno al 970-850 a.C..
In questo brano, incontriamo il grande profeta Elia, che svolse la propria missione sotto Acab (874-853 a.C.) re di Israele. Risuscitò il figlio della vedova di Sarepta che lo ospitava durante una carestia; fedelissimo a Dio, sfidò e vinse i profeti del dio Baal sul monte Carmelo. Fu costretto alla fuga dalla persecuzione della regina Gezabele, desiderosa di introdurre anche in Israele il culto delle sue origini, quello fenicio del dio Baal. La fuga di Elia si trasforma in un pellegrinaggio alla sorgenti spirituali del popolo eletto, cioè il deserto e il “monte di Dio” l’Oreb-Sinai. Elia ha paura e cerca di salvarsi e il testo ci dice che: “s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». " Elia è anche demoralizzato dal risultato del suo ministero e fugge perchè si riconosce non migliore dei suoi padri nel lavorare per il regno di Dio. E’ talmente abbattuto che desidera solo morire. Arrivato all’estremo delle sue forze alla fine si corica per poi addormentarsi come se in quel sonno si lasciasse andare tra le braccia di Dio. Ma è proprio quando l’uomo riconosce la sua debolezza che allora interviene la forza di Dio (2 Cor 12,5.9) che nel racconto è rappresentata dall’angelo che toccandolo gli disse: “«Alzati, mangia!». Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve”. Nel testo si legge che l’angelo ripeté per due volte questo invito per indicare quanto fosse profondo per Elia il desiderio di lasciarsi andare! Per la seconda volta dunque ”l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino»”.
Il racconto termina riportando che Elia “Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.! “Il monte dove il Signore si era rivelato ai padri e aveva stretto con essi l’alleanza. Elia mangiando quel cibo non solo diede nutrimento al suo corpo, ma anche al suo spirito per avere la forza di continuare il suo il cammino verso l'incontro con Dio.

Salmo 33 Gustate e vedete com’è buono il Signore.
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino

Magnificate con me il Signore,
esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore: mi ha risposto
e da ogni mia paura mi ha liberato.

Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce.

L’angelo del Signore si accampa
attorno a quelli che lo temono, e li libera.
Gustate e vedete com’è buono il Signore;
beato l’uomo che in lui si rifugia.

L’autore del salmo, ricco dell’esperienza di Dio indirizza il suo sapere ai poveri, agli umili, e in particolare ai suoi figli. Egli afferma che sempre benedirà il Signore e che sempre si glorierà di lui. Egli chiede di venire ascoltato e invita gli umili ad unirsi con lui nel celebrare il Signore: “Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome”.
Egli comunica la sua storia dicendo che ha cercato il Signore e ne ha ricevuto risposta cosicché “da ogni timore mi ha liberato”. Per questo invita gli umili a guardare con fiducia a Dio, e dice: “sarete raggianti”. “Questo povero”, cioè il vero povero, quello che è umile, è ascoltato dal Signore e l’angelo del Signore lo protegge dagli assalti dei nemici: “L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono (Dio), e li libera”. L’angelo del Signore è con tutta probabilità l’angelo protettore del popolo di Dio, chiamato così per antonomasia; sarebbe l’arcangelo Michele (Cf. Es 14,19; 23,23; 32,34; Nm 22,22; Dn 10,21; 12,1).
Il salmista continua la sua composizione invitando ad amare Dio dal quale procede gioia e pace: “Gustate e vedete com'è buono il Signore, beato l’uomo che in lui si rifugia”.
L’orante moltiplica i suoi inviti al bene: “Sta lontano dal male e fà il bene, cerca e persegui la pace”. Cercala, cioè trovala in Dio, e perseguila comportandoti rettamente con gli altri.
Il salmista non nasconde che il giusto è raggiunto da molti mali, ma dice che “da tutti lo libera il Signore”. Anche dalle angosce della morte, poiché “custodisce tutte le tue ossa, neppure uno sarà spezzato”. Queste parole sono avverate nel Cristo, come dice il Vangelo di Giovanni (19,16). Per noi vanno interpretate nel senso che se anche gli empi possono prevalere fino ad uccidere il giusto e farne scempio, le sue ossa sono al riparo perché risorgeranno.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione.
Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità.
Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore.
Ef 4,30-5,2

Paolo, proseguendo la sua lettera agli Efesini, dopo averli esortarti a comportarsi in maniera degna della vocazione ricevuta, e spiegato cosa significhi abbandonare la vecchia esistenza e rivestire l'uomo nuovo, in questo brano, si può dire che dà le coordinate teologiche di quanto è stato affermato prima.
Il brano inizia con una esortazione “non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione.”
Non è facile comprendere questa espressione "non rattristate lo Spirito Santo di Dio che è in voi", ma con questa frase l'apostolo vuole solo farci comprendere che la vita cristiana deve percorrere il cammino dell'amore, invece di rattristare lo spirito tutte le volte che spontaneamente decidiamo di non amare. Poi continua con delle indicazioni che caratterizzano la vita del cristiano: “Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità”. Sono citati cinque vizi riguardanti i rapporti interpersonali minacciati da un agire o un parlare dettato dall'ira. Il sesto vizio, la malignità, viene indicata come la radice di tutti gli altri vizi, un'attitudine che è il legame di tutti gli altri
Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo”. Tutti i vizi prima descritti vengono lasciati da parte per abbracciare e assumere come proprio stile di vita questo nuovo elenco, che culmina nel perdono reciproco, che sembra una specie di professione di fede che ricorda la preghiera del lPadre Nostro,
Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore.
Ciò che il cristiano è chiamato a fare dunque è quello di imitare Dio di cercare di vedere le cose con la sua ottica. Tale imitazione si realizza di fatto con il vivere nell'amore e quelli che imitano Dio sono i “figli carissimi.” Come Cristo ha offerto la propria vita, anche i cristiani possono offrire con la loro vita, il loro nuovo modo di agire, un sacrificio a Dio gradito.
Per concludere si può dire che la strada del nostro cammino è quella che ci ha insegnato Gesù, quella della carità. La strada però molto spesso è piena di crisi, di scoraggiamento se la missione a noi affidata è grande e faticosa, ma crisi e scoraggiamento sono proprio quei sentimenti che ci possono aiutare a vedere gli altri con misericordia, ci portano a perdonare, ci conducono sulla via dell'amore e così possiamo far vivere in noi lo spirito donatoci dal Padre.

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?».
Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna.
Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia.
Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Gv 6,41-51

Dopo aver sfamato migliaia di persone con il prodigioso miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, Gesù aveva iniziato il discorso del pane di vita in cui afferma che il Padre dà il vero pane dal cielo (che è Lui stesso), il pane della vita e chi viene a Lui e crede in Lui non avrà più fame.
Questo brano inizia indicando la reazione dei giudei presenti di fronte alla pretesa avanzata da Gesù di essere il pane disceso dal cielo perchè ritengono che la Sua affermazione sia quanto mai eccessiva e soggiungono: ”Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”, ossia, egli non può dire di essere disceso dal cielo dal momento che è uno di cui conoscono molto bene i suoi famigliari.
Alle parole dei giudei Gesù risponde: “Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.”
Essi non hanno motivo di mormorare perchè la possibilità stessa di andare a Lui, di credere nel Suo ruolo salvifico è opera del Padre: Egli si limita a far risorgere nell’ultimo giorno coloro che, per opera del Padre, si uniscono a Lui. A conferma di ciò cita un testo del Deuteroisaia, “Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”. (Is 54,13). L’istruzione interiore di Dio è dunque una caratteristica degli ultimi tempi.
Gesù commenta poi in questo modo il testo citato: “Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me”. E’ in base a una illuminazione divina che i prescelti da Dio aderiscono a Gesù, e poi conclude: “Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna”.
Come già l’evangelista Giovanni aveva sottolineato nel prologo (v 1,18), solo colui che viene dal Padre lo ha visto e può dare la vita eterna a chi crede in Lui. La mormorazione dei giudei è quindi senza fondamento: essa deriva non dalla fedeltà alle Scritture, ma dal rifiuto opposto alla testimonianza interiore di Dio che accompagna l’annunzio di Gesù.
Gesù riprende il tema centrale del discorso affermando di nuovo “Io sono il pane della vita” e poi aggiunge: “I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia”.
Gesù, rivendicando la Sua condizione divina, dice “i vostri padri”, avrebbe dovuto dire “i nostri padri”, in fondo anche lui è un componente del popolo di Israele, ma qui Gesù prende chiaramente le distanze. Lui è spinto dal Padre e segue il Padre, non i padri, non la tradizione del popolo!
I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti”. Gesù dunque mette il dito nella piaga del grande fallimento dell’esodo perchè tutti quelli che sono usciti dalla schiavitù egiziana sono tutti morti nel deserto. Neanche uno è entrato nella terra promessa solo i loro figli hanno avuto la facoltà di entrarci … neanche Mosè c’è riuscito!
Secondo il libro di Giosuè e secondo il libro dei Numeri, sono morti per non aver dato ascolto alla voce di Dio. E’ come se Gesù dicesse loro: “come quella generazione morì nel deserto per non aver ascoltato la voce di Dio, anche voi rischiate di non entrare nella pienezza della libertà se non ascoltate questa voce”.
Gesù conferma ripetendo ancora: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. La vita che Gesù comunica è una vita che non viene interrotta dalla morte e continuando dà una straordinaria indicazione “il pane che io darò è la mia carne”… e Giovanni usa il termine ‘carne’ per indicare la debolezza dell’uomo, “per la vita del mondo”. Non esistono doni divini che non si manifestino nella debolezza della condizione umana!
La vicenda degli israeliti che, a motivo dei loro peccati, non sono potuti entrare nella terra promessa, dimostra dunque che il vero pane di Dio, capace eliminare per sempre il peccato e di donare la vita piena, è quello attuato negli ultimi tempi, cioè la persona di Gesù.

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“In questa domenica prosegue la lettura del capitolo sesto del Vangelo di Giovanni, in cui Gesù, dopo aver compiuto il grande miracolo della moltiplicazione dei pani, spiega alla gente il significato di quel “segno” (Gv 6,41-51).
Come aveva fatto in precedenza con la Samaritana, partendo dall’esperienza della sete e dal segno dell’acqua, qui Gesù parte dall’esperienza della fame e dal segno del pane, per rivelare Sé stesso e invitare a credere in Lui.
La gente lo cerca, la gente lo ascolta, perché è rimasta entusiasta del miracolo - volevano farlo re! -; ma quando Gesù afferma che il vero pane, donato da Dio, è Lui stesso, molti si scandalizzano, non capiscono, e cominciano a mormorare tra loro: «Di lui – dicevano – non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo?”» . E cominciano a mormorare. Allora Gesù risponde: «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato», e aggiunge: «Chi crede ha la vita eterna».
Ci stupisce, e ci fa riflettere questa parola del Signore. Essa introduce nella dinamica della fede, che è una relazione: la relazione tra la persona umana – tutti noi – e la Persona di Gesù, dove un ruolo decisivo gioca il Padre, e naturalmente anche lo Spirito Santo – che qui rimane sottinteso. Non basta incontrare Gesù per credere in Lui, non basta leggere la Bibbia, il Vangelo - questo è importante!, ma non basta -; non basta nemmeno assistere a un miracolo, come quello della moltiplicazione dei pani. Tante persone sono state a stretto contatto con Gesù e non gli hanno creduto, anzi, lo hanno anche disprezzato e condannato.
E io mi domando: perché, questo? Non sono stati attratti dal Padre? No, questo è accaduto perché il loro cuore era chiuso all’azione dello Spirito di Dio. E se tu hai il cuore chiuso, la fede non entra. Dio Padre sempre ci attira verso Gesù: siamo noi ad aprire il nostro cuore o a chiuderlo. Invece la fede, che è come un seme nel profondo del cuore, sboccia quando ci lasciamo “attirare” dal Padre verso Gesù, e “andiamo a Lui” con il cuore aperto, senza pregiudizi; allora riconosciamo nel suo volto il Volto di Dio e nelle sue parole la Parola di Dio, perché lo Spirito Santo ci ha fatto entrare nella relazione d’amore e di vita che c’è tra Gesù e Dio Padre. E lì noi riceviamo il dono, il regalo della fede.
Allora, con questo atteggiamento di fede, possiamo comprendere anche il senso del “Pane della vita” che Gesù ci dona, e che Egli esprime così: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
In Gesù, nella sua “carne” – cioè nella sua umanità concreta – è presente tutto l’amore di Dio, che è lo Spirito Santo. Chi si lascia attirare da questo amore va verso Gesù e va con fede, e riceve da Lui la vita, la vita eterna.
Colei che ha vissuto questa esperienza in modo esemplare è la Vergine di Nazareth, Maria: la prima persona umana che ha creduto in Dio accogliendo la carne di Gesù. Impariamo da Lei, nostra Madre, la gioia e la gratitudine per il dono della fede. Un dono che non è “privato”, un dono che non è proprietà privata ma è un dono da condividere: è un dono «per la vita del mondo»!”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 9 agosto 2015

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica convergono su di uno dei nostri bisogni più profondi: una vita sicura.
Nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, vediamo che dopo la liberazione dall’Egitto, gli Israeliti, durante il loro lungo peregrinare nel deserto, scoraggiati e delusi gridano contro Mosè rimpiangendo la vita da schiavi che facevano, perchè almeno avevano da mangiare. Dio fornisce loro il cibo dal cielo “la manna” facendo così sentire la Sua presenza efficace, ma nello stesso tempo li invita a non fare assegnamento soltanto sui nutrimenti terreni, che, come la manna, ad un certo punto stancano e diventano insipidi.
Nella seconda lettura, scrivendo ai cristiani di Efeso, Paolo li esorta ad un comportamento ispirato alla novità ricevuta nel battesimo e che non deve risentire dell’”uomo vecchio”, corrotto e invischiato nel peccato.
Nel Vangelo di Giovanni, Gesù riferendosi all’episodio biblico della “manna” nel deserto, annuncia che il Padre sta ora offrendo all’umanità affamata “il pane vero”, l’unico che veramente discende dal cielo e dà la vita al mondo.
Cristo offre all’uomo il “pane di vita” e l’acqua che cancella ogni sete. Contro la tentazione del cibo e della bevanda, che simboleggiano certe ideologie appariscenti, ma che non saziano le coscienze, contro certe forme religiose consolatorie o esotiche che stordiscono ma non guariscono, contro il godimento che offusca la mente e il cuore, questo brano del vangelo di oggi ci propone una forte e decisa esperienza del Cristo, della Sua persona e della Sua Parola.

Dal libro dell’Esodo:
In quei giorni, nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli Israeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine».
Allora il Signore disse a Mosè: «Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge.
Ho inteso la mormorazione degli Israeliti. Parla loro così:
“Al tramonto mangerete carne e alla mattina vi sazierete di pane; saprete che io sono il Signore, vostro Dio”».
La sera le quaglie salirono e coprirono l’accampamento; al mattino c’era uno strato di rugiada intorno all’accampamento. Quando lo strato di rugiada svanì, ecco, sulla superficie del deserto c’era una cosa fine e granulosa, minuta come è la brina sulla terra. Gli Israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: «Che cos’è?», perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: «È il pane che il Signore vi ha dato in cibo».
Es 16,2-4,12-15

Il Libro dell'Esodo è il secondo libro del Pentateuco (Torah ebraica), è stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli e nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il libro si apre con la descrizione dello stato di schiavitù del popolo ebreo in Egitto e giunge con il suo racconto sino al patto di Dio con il popolo e alla promulgazione della legge divina, e si conclude con lunghe sezioni legali. Gli studiosi collocano questi avvenimenti tra il 15^ e il 13^ secolo a.C.
Questo brano riporta il malcontento e l’insofferenza degli Israeliti. Il loro brontolare è privo di fede e fine a se stesso, stanno perdendo di vista l'obiettivo del cammino - la terra promessa - perché ora tutto ciò che interessa loro è il cibo, infatti rimpiangono persino la loro condizione di schiavi in Egitto e si lamentano dicendo: “Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece …”. Di fronte a una simile situazione, Dio dice a Mosè: «Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge.” Dio esaudisce dunque le necessità del popolo (perchè la fame può fare sragionare) con un intervento speciale, un fenomeno in cui essi vedranno un segno della presenza di Dio destinato a rassicurarli, e che per bocca di Mosè dice al popolo: “Al tramonto mangerete carne e alla mattina vi sazierete di pane; saprete che io sono il Signore, vostro Dio”.
Il popolo aveva sfidato Dio e Dio risponde manifestando la Sua potenza, con il dono di quell’alimento speciale, che è anche un insegnamento che impartisce al Suo popolo per educarlo mettendolo alla prova.
Dando a Israele questo mezzo di sostentamento, Dio esprime la Sua presenza efficace, e nello stesso tempo invita l’uomo, di ogni tempo e di ogni luogo, a non fare assegnamento soltanto sui nutrimenti terreni, che come la manna, ad un certo punto stancano e diventano insipidi.
C’è un altro cibo misterioso che viene dal cielo di cui la manna è simbolo: La Parola di Dio (Dt 8,25).
Gesù nel deserto ricorderà questo avvenimento quando risponderà al diavolo: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.(Mt 4,4) e rinnova questo insegnamento nutrendo il popolo di Dio, con il “pane vero”, l’unico che veramente “discende dal cielo e dà la vita al mondo”.

Salmo 77 Donaci, Signore, il pane del cielo.
Ciò che abbiamo udito e conosciuto
e i nostri padri ci hanno raccontato
non lo terremo nascosto ai nostri figli,
raccontando alla generazione futura
le azioni gloriose e potenti del Signore
e le meraviglie che egli ha compiuto.

Diede ordine alle nubi dall’alto
e aprì le porte del cielo;
fece piovere su di loro la manna per cibo
e diede loro pane del cielo.

L’uomo mangiò il pane dei forti;
diede loro cibo in abbondanza.
Li fece entrare nei confini del suo santuario,
questo monte che la sua destra si è acquistato.

Questo non è usato dall’Ufficio Divino perché il suo contenuto lo si ritrova nei salmi 104 e 105. Il salmo, che ha una sua identità, venne scritto come affermazione rivolta ai Samaritani che Dio aveva scelto la tribù di Giuda e il monte Sion a sede del suo santuario, e aveva dato la regalità a Davide su tutto Israele.
Il salmo assolve l’obbligo di narrare “alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che ha compiuto”, ma con un tono penitenziale facendo risaltare il continuo peccare di Israele e in particolare le responsabilità della tribù di Efraim, dalla quale vennero poi i Samaritani. La datazione del salmo risale con tutta probabilità al tempo della riforma di Giosia, che tentò di liberare la Samaria dal suo stato di scissione con Giuda (2Re 23,15-19).
Il salmo denuncia che la tribù di Efraim, nel cui territorio sorse il santuario di Silo, prima sistemazione della tenda del deserto con l’arca dell’alleanza, non partecipò alla lotta contro l’avanzata dei Filistei, forse delusa nelle aspettative di una egemonia sulle altre tribù, già accennata al tempo di Giosuè e dei Giudici (Gs 3,37; 4,5; 7,24; 8,1), cosicché ebbe l’umiliazione di veder distrutto il santuario di Silo per mano dei Filistei.
Tanis” è una città del basso Egitto. Al tempo dell’esilio serviva da residenza del Faraone. La “regione di Tanis" indica il distretto di cui Zoan era la capitale.
Diede ordine alle nubi dall’alto e aprì le porte del cielo”, si tratta della pioggia per la poca vegetazione del deserto alimento del bestiame, e per alimentare le sorgenti delle oasi.
Il pane del cielo" è la manna; è detta “pane dei forti” perché data per sostenere nel cammino e non per essere valutata sulla base delle voglie del palato (Cf. Nm 21,5).
Per tutto il resto si veda il libro dell’Esodo e dei Numeri.
Commento di P. Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, vi dico e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri.
Voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità.
Ef 4,17.20-24

Paolo, proseguendo la sua lettera agli Efesini, continua ad esortarli a comportarsi in maniera degna della vocazione ricevuta. Il loro comportamento, ora che hanno abbracciato la fede, non può più essere quello di prima, di quando erano pagani.
Il brano inizia con parole solenni e accorate: Fratelli, vi dico e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri.
Paolo chiede di abbandonare la condotta dei pagani, i quali si perdono nella venerazione delle realtà naturali. Nei versetti non presenti nel brano tratteggia la condotta morale dei pagani “accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza e, insaziabili, commettono ogni sorta di impurità
Poi prosegue “Voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù”,
Gli Efesini non hanno conosciuto il loro Dio attraverso la sfrenatezza dei costumi e l'immoralità. Gesù si impara, si ascolta, in Lui si è istruiti, conoscere Cristo è vivere, Lui è la verità che ti cambia la vita.
ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli,
Questa conoscenza è un concreto programma di vita, che ti porta ad abbandonare l'uomo vecchio, l'uomo pagano che segue i piaceri e le passioni. Passioni ingannevoli perché non portano a una vera felicità.
a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità”.
Gesù Cristo è l'"uomo nuovo" che non cambia mai, Egli è la "stella polare", è anche l'ancora a cui aggrapparsi nei momenti difficili, è il faro che illumina nella notte oscura.
Quando ci affidiamo a Gesù, la vita riprende con gioia e solo con Lui possiamo fare l'esperienza di diventare creature nuove.
Quando nella nostra vita, nelle dure prove che abbiamo incontrato, alla fine ci siamo abbandonati completamente al Cristo risorto, ci siamo sentiti veramente in pace con Lui, con noi stessi e con tutti gli altri.

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?».
Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato».
Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».
Gv 6, 24-35

Questo brano, tratto dal capitolo sesto del Vangelo di Giovanni, inizia riportando che la folla, che aveva assistito al miracolo della moltiplicazione dei pani, si era accorta che solo i discepoli erano partiti con la barca, e al mattino si erano resi conto che anche Gesù non si trovava più in quel luogo e lo cercano a Cafarnao. Quando incontrandolo, gli manifestano la loro sorpresa, in quanto non lo avevano visto allontanarsi con i suoi discepoli. Gesù non risponde alla loro domanda, ma invece osserva: “In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati.
Come era capitato con la samaritana a proposito dell’acqua, essi lo hanno frainteso e cercano unicamente un vantaggio materiale. Egli perciò aggiunge: “Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo”. Con queste parole li esorta a procurarsi un altro tipo di cibo, che diversamente da quello materiale che perisce, dura per la vita eterna; si tratta di un cibo che solo il Figlio dell’uomo può dare, perché in lui il Padre ha messo il suo sigillo, cioè ha stabilito con lui un rapporto unico e indivisibile, facendo di lui il suo rappresentante.
I presenti allora gli chiedono: “Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?”.Abituati al compimento delle opere prescritte dalla legge, essi interpretano le parole di Gesù come un invito a compiere qualche altra opera a loro ancora sconosciuta. Al che Gesù risponde: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”. Ancora una volta Gesù deve correggere un malinteso dovuto sicuramente per avere usato la parola “opera” di (voluta da) Dio. Non è che essi debbono compiere qualcosa di particolare, ma che credano in colui che Egli ha mandato. In realtà, infatti, il cibo che dura per la vita eterna non si ottiene operando, ma credendo in colui che lo dona, il Figlio dell’uomo che Dio stesso ha inviato. La fede richiesta da Gesù non consiste nell’accettazione di qualche nuova concezione religiosa, ma nel lasciarsi coinvolgere pienamente nella Sua persona e nel progetto di salvezza da Llui manifestato.
L’invito a credere in Lui suscita nei giudei una nuova richiesta: “Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai”.
La richiesta di un’opera straordinaria che dia loro una garanzia della Sua autorevolezza come inviato di Dio si trova nello stesso racconto anche in Mc 8,11-12. Evidentemente la moltiplicazione dei pani, appena compiuta da Gesù, non viene considerata come un segno adeguato, forse perché aveva preceduto il Suo invito a credere in lui.
Questo brano, tratto dal capitolo sesto del Vangelo di Giovanni, inizia riportando che la folla, che aveva assistito al miracolo della moltiplicazione dei pani, si era accorta che solo i discepoli erano partiti con la barca, e al mattino si erano resi conto che anche Gesù non si trovava più in quel luogo e lo cercano a Cafarnao. Quando incontrandolo, gli manifestano la loro sorpresa, in quanto non lo avevano visto allontanarsi con i suoi discepoli. Gesù non risponde alla loro domanda, ma invece osserva: “In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati.”
Come era capitato con la samaritana a proposito dell’acqua, essi lo hanno frainteso e cercano unicamente un vantaggio materiale. Egli perciò aggiunge: “Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo”. Con queste parole li esorta a procurarsi un altro tipo di cibo, che diversamente da quello materiale che perisce, dura per la vita eterna; si tratta di un cibo che solo il Figlio dell’uomo può dare, perché in lui il Padre ha messo il suo sigillo, cioè ha stabilito con lui un rapporto unico e indivisibile, facendo di lui il suo rappresentante.
I presenti allora gli chiedono: “Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?”.Abituati al compimento delle opere prescritte dalla legge, essi interpretano le parole di Gesù come un invito a compiere qualche altra opera a loro ancora sconosciuta. Al che Gesù risponde: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”. Ancora una volta Gesù deve correggere un malinteso dovuto sicuramente per avere usato la parola “opera” di (voluta da) Dio. Non è che essi debbono compiere qualcosa di particolare, ma che credano in colui che Egli ha mandato. In realtà, infatti, il cibo che dura per la vita eterna non si ottiene operando, ma credendo in colui che lo dona, il Figlio dell’uomo che Dio stesso ha inviato. La fede richiesta da Gesù non consiste nell’accettazione di qualche nuova concezione religiosa, ma nel lasciarsi coinvolgere pienamente nella Sua persona e nel progetto di salvezza da Lui manifestato.
L’invito a credere in Lui suscita nei giudei una nuova richiesta: “Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai”.
La richiesta di un’opera straordinaria che dia loro una garanzia della Sua autorevolezza come inviato di Dio si trova nello stesso racconto anche in Mc 8,11-12. Evidentemente la moltiplicazione dei pani, appena compiuta da Gesù, non viene considerata come un segno adeguato, forse perché aveva preceduto il Suo invito a credere in lui.

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"In questa domenica continua la lettura del capitolo sesto del Vangelo di Giovanni.
Dopo la moltiplicazione dei pani, la gente si era messa a cercare Gesù e finalmente lo trova presso Cafarnao. Egli comprende bene il motivo di tanto entusiasmo nel seguirlo e lo rivela con chiarezza: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati». (In realtà, quelle persone lo seguono per il pane materiale che il giorno precedente aveva placato la loro fame, quando Gesù aveva fatto la moltiplicazione dei pani; non hanno compreso che quel pane, spezzato per tanti, per molti, era l’espressione dell’amore di Gesù stesso. Hanno dato più valore a quel pane che al suo donatore. Davanti a questa cecità spirituale, Gesù evidenzia la necessità di andare oltre il dono, e scoprire, conoscere il donatore. Dio stesso è il dono e anche il donatore. E così da quel pane, da quel gesto, la gente può trovare Colui che lo dà, che è Dio. Invita ad aprirsi ad una prospettiva che non è soltanto quella delle preoccupazioni quotidiane del mangiare, del vestire, del successo, della carriera. Gesù parla di un altro cibo, parla di un cibo che non è corruttibile e che è bene cercare e accogliere. Egli esorta: Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna che il Figlio dell’uomo vi darà”. Cioè cercate la salvezza, l’incontro con Dio.
E con queste parole, ci vuol far capire che, oltre alla fame fisica l’uomo porta in sé un’altra fame – tutti noi abbiamo questa fame – una fame più importante, che non può essere saziata con un cibo ordinario. Si tratta di fame di vita, di fame di eternità che Lui solo può appagare, in quanto è “il pane della vita”.
Gesù non elimina la preoccupazione e la ricerca del cibo quotidiano, no, non elimina la preoccupazione di tutto ciò che può rendere la vita più progredita. Ma Gesù ci ricorda che il vero significato del nostro esistere terreno sta alla fine, nell’eternità, sta nell’incontro con Lui, che è dono e donatore, e ci ricorda anche che la storia umana con le sue sofferenze e le sue gioie deve essere vista in un orizzonte di eternità, cioè in quell’orizzonte dell’incontro definitivo con Lui. E questo incontro illumina tutti i giorni della nostra vita. Se noi pensiamo a questo incontro, a questo grande dono, i piccoli doni della vita, anche le sofferenze, le preoccupazioni saranno illuminate dalla speranza di questo incontro. «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà sete, mai!»
E questo è il riferimento all’Eucaristia, il dono più grande che sazia l’anima e il corpo. Incontrare e accogliere in noi Gesù, “pane di vita”, dà significato e speranza al cammino spesso tortuoso della vita. Ma questo “pane di vita” ci è dato con un compito, cioè perché possiamo a nostra volta saziare la fame spirituale e materiale dei fratelli, annunciando il Vangelo ovunque. Con la testimonianza del nostro atteggiamento fraterno e solidale verso il prossimo, rendiamo presente Cristo e il suo amore in mezzo agli uomini.
La Vergine Santa ci sostenga nella ricerca e nella sequela del suo Figlio Gesù, il pane vero, il pane vivo che non si corrompe e dura per la vita eterna."
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 2 agosto 2015

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica hanno come filo conduttore il pane, il cibo necessario per vivere, e vediamo come Dio sazia la fame di ogni uomo.
Nella prima lettura, tratta dal II libro dei Re, leggiamo che un uomo offre ad Eliseo, il profeta discepolo e successore di Elia, le primizie, quindi qualcosa che era destinato a Dio. Questo dono frutto del lavoro dell’uomo, ma anche della benedizione divina, si moltiplica e ce n’è a sazietà per tutti. E’ il simbolo dell’abbondanza dei banchetti messianici preannunciata dai profeti: la venuta del Messia avrebbe sfamato tutti gli uomini.
Nella seconda lettura, scrivendo ai cristiani di Efeso, Paolo li esorta a comportarsi in maniera degna della loro vocazione, e afferma che l’unità della Chiesa si realizza con il concorso attivo di tutti i credenti. Ognuno ha ricevuto dal Signore un dono di grazia per far crescere il corpo di Cristo nella carità.
Nel Vangelo di Giovanni, che per qualche settimana, prende il posto del Vangelo di Marco, colpisce il particolare che fu il poco cibo (cinque pani e due pesci) di un ragazzo prudente a diventare il cibo per la folla. La generosità di questo ragazzo permette al Signore di agire per tutti. Cristo è il protagonista, ma chiede sempre la nostra collaborazione. Il segno dei pani divisi fra tutti, realizza l’antica profezia, ma diventa a sua volta simbolo di un banchetto speciale: quello in cui il Signore si offre a noi nel segno del pane spezzato. Egli sazierà la fame di vita e di eternità che abbiamo in noi donandoci non solo un cibo materiale, ma il pane della vita eterna.

Dal secondo libro dei Re
In quei giorni, da Baal-Salisà venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente». Ma il suo servitore disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Egli replicò: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”». Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore.
2Re 4,42-44

Il Secondo libro dei Re, insieme al primo, in origine formavano un unico libro. Entrambi fanno parte dei Libri storici per il canone cristiano e dei cosiddetti “profeti anteriori‘” per il canone ebraico. E’ stato composto, secondo alcuni studiosi, intorno al VI secolo a.C. dallo stesso autore che ha scritto il libro del Deuteronomio; per questo lo si definisce autore ''Deuteronomista'‘. Per ricostruire le vicende dei due regni di Israele, egli attinge a materiali d'archivio, alle tradizioni orali e alla memoria storica del suo popolo. Una delle caratteristiche dell'autore è il continuo ricorso a formule fisse per delineare i regni dei vari sovrani e in particolare, il secondo libro dei Re, descrive la vicenda del popolo ebraico dal IX al VI secolo a.C., cioè dalla fine del regno di Acazia (circa 852 a.C.) fino alla distruzione del regno di Giuda nel 587 a.C..
Le vicende di Elia e di Eliseo sono narrate in due cicli che occupano la parte centrale dei due libri dei Re (1Re 17-22; 2Re 1-17). Eliseo, che operò sotto i re Ioram (852-841), Ieu (841-814), Ioacaz (814-798), Ioas (798-783), è protagonista di numerosi racconti popolari spesso interrotti da riferimenti alle vicende politiche.
Il suo ciclo si apre con il rapimento di Elia in cielo, del quale egli è l’unico testimone (2Re 2,1-8). Divenuto così erede spirituale del suo maestro, Eliseo compie alcuni miracoli di carattere umanitario.
In questo brano, tratto dal IV capitolo, dove vengono riportati alcuni miracoli del profeta Eliseo, leggiamo che nella regione di Galgala, non lontana dall'attuale Tel Aviv, è in atto una grave carestia. Un giorno “da Baal-Salisà venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia”. Eliseo ben cosciente della penosa situazione, non pensa di godere egoisticamente di quell'abbondanza, e ordina al suo servitore "Dallo da mangiare alla gente". In forza della ragione, e anche del buon senso, il servitore avanza dei dubbi: “Come posso mettere questo davanti a cento persone?”. Un pane d'orzo era infatti la razione solo per una persona e venti pani non potevano certo bastare per cento persone!
Eliseo quando replica per la seconda volta lo stesso comando lo accompagna dalla motivazione che spinge ad alzare lo sguardo dalla logica umana a quella divina: “Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare””.
La frequentazione del profeta con i progetti di Dio e con la Sua onnipotenza, gli dà l’incrollabile sicurezza che i problemi umani sono sempre risolvibili. "Nulla è impossibile a Dio" risuona più volte nella Sacra Scrittura e l'uomo di Dio vive di questa affermazione e la traduce in vita per sé e per gli altri.
Di fatto le cento persone “mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore.
La parola decisiva e più importante è concentrata nell’ultima espressione "secondo la parola del Signore“ ma era essenziale che a questa Parola qualcuno ci credesse, che lo dicesse e convincesse anche gli altri. Allora è stato il compito di Eliseo ed è oggi deve essere il nostro compito, nel luogo in cui viviamo!

Salmo 144 - Apri la tua mano, Signore, e sazia ogni vivente.
Ti lodino, Signore, tutte le tue opere
e ti benedicano i tuoi fedeli.
Dicano la gloria del tuo regno
e parlino della tua potenza.

Gli occhi di tutti a te sono rivolti in attesa
e tu dai loro il cibo a tempo opportuno.
Tu apri la tua mano
e sazi il desiderio di ogni vivente.

Giusto è il Signore in tutte le sue vie
e buono in tutte le sue opere.
Il Signore è vicino a chiunque lo invoca,
a quanti lo invocano con sincerità.
Molti sono i frammenti di altri salmi che entrano nella composizione di questo salmo, che tuttavia risulta bellissimo nella sua forma alfabetica e ricca di stimoli alla fede, alla speranza, alla pietà, alla lode.

Il salmo è uno dei più recenti del salterio, databile nel III o II secolo a.C.
Esso inizia rivolgendosi a Dio quale re: “O Dio, mio re, voglio esaltarti (...) in eterno e per sempre”. “In eterno e per sempre”, indica in modo incessante e continuativo nel tempo.
Segue uno sguardo su come la trasmissione, di generazione in generazione, delle opere di Dio non sia sentita solo come fatto prescritto (Cf. Es 13,14), ma come gioia di comunicazione, poiché le opere di Dio sono affascinanti: “Il glorioso splendore della tua maestà e le tue meraviglie voglio meditare. Parlino della tua terribile potenza: anch’io voglio raccontare la tua grandezza. Diffondano il ricordo della tua bontà immensa, acclamino la tua giustizia". Il salmista fa un attimo di riflessione sulla misericordia di Dio, riconoscendo la sua pazienza verso il suo popolo. E' il momento dell'umiltà. La lode non può essere disgiunta dall'umile consapevolezza di essere peccatori: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature“. “Su tutte le creature”, cioè su tutti gli uomini, e pure sugli animali (Cf. Ps 35,7; 103,21).
Il salmista desidera che tutte le opere di Dio diventino lode a Dio sul labbro dei fedeli: “Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli. Dicano la gloria del tuo regno...”. “Tutte le tue opere”, anche quelle inanimate (Cf. Ps 148). Il significato profondo di questo invito cosmico sta nel fatto che, il salmista vede le creature come bloccate da una cappa buia posta dalle divinizzazioni pagane. Il salmista desidera che esse siano libere da quella cappa, che nega loro la glorificazione del Creatore.
La lode a Dio sul labbro dei fedeli diventa annuncio a tutti gli uomini: “Per far conoscere agli uomini le tue imprese e la splendida gloria del tuo regno”. “Il regno” (malkut) è Israele e le “imprese” sono quelle della liberazione dall'Egitto, ecc. Terminata la successione monarchica dopo la deportazione a Babilonia, Israele, pur senza scartare minimamente la tensione verso il futuro re, il Messia, si collegò alla tradizione premonarchica dove il re era unicamente Dio. Nel libro dell'Esodo si parla di Israele come regno (19,6): “Un regno di sacerdoti e una nazione santa”. Israele come regno di Dio si manifesta in modo evidente mediante l'osservanza della legge data sul Sinai; ma Israele non è solo suddito di Dio, ma anche figlio (Cf. Es 4,22).
Il salmista continua a celebrare la bontà di Dio verso gli uomini: “Giusto è il Signore in tutte le sue vie (...). Il Signore custodisce tutti quelli che lo amano, ma distrugge tutti i malvagi”.
Il salmista termina la sua composizione esortandosi alla lode a Dio e invitando, in una visione universale, “ogni vivente” a benedirlo: “Canti la mia bocca la lode del Signore e benedica ogni vivente il suo santo nome, in eterno e per sempre”. “Ogni vivente”; anche gli animali, le piante - ovviamente a loro modo - celebrano la gloria di Dio (Cf. Ps 148,9-10).
Il cristiano nella potenza dello Spirito Santo annuncia le grandi opere del Signore (At 2,11), che sono quelle relative a Cristo: la salvezza, la liberazione dal peccato, ben più alta e profonda di quella dall'Egitto; il regno di Dio posto nel cuore dell'uomo e tra gli uomini in Cristo, nel dono dello Spirito Santo; i cieli aperti, il dono dei sacramenti, massimamente l'Eucaristia.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace.
Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
Ef 4,1-6

Con questo brano ha inizio la seconda parte della lettera agli Efesini, che Paolo dedica all'esortazione. Dopo aver scritto della centralità del sacrificio di Cristo e della sua efficacia a riunire tutti i popoli in una sola Chiesa, si rivolge ai suoi destinatari ricordando loro di dare una testimonianza credibile della loro fede.
Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto” Con queste parole Paolo esordisce ricordando la sua condizione di prigioniero a causa del Vangelo. E’ un particolare che lui ha sicuramente inserito anche per scuotere i suoi interlocutori, in più egli afferma il motivo: prigioniero proprio a causa del Vangelo che ha annunciato. Chiede con questo tono accorato agli Efesini di comportarsi in modo degno della loro nuova dignità. Essi fanno parte di un nuovo corpo, di una nuova realtà che vive di pace e riconciliazione.
con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore
Nella comunità cristiana essi devono nutrire la vita comune con alcune virtù fondamentali: l'umiltà, la dolcezza, la grandezza d'animo, che hanno il loro culmine nell'amore fraterno (agape)¸ che si esprime nel perdono e nella solidarietà verso gli altri.
avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace.” Questa seconda esortazione è un motivo portante, un elemento fondamentale all'interno della comunità: l'impegno a mantenere l'unità, a vivere la pace.
Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
Questi versetti suonano un po' come un inno, una professione di fede che forse si ripeteva nelle prime assemblee liturgiche. L'accento è posto sull'unità della comunità che si fonda su altre unità: quelle del corpo e dello Spirito che lo mantiene unito, quella della speranza, cioè del futuro a cui tutti tendono, fondata sull'unica chiamata che ha interessato tutti. Ancora questa unità si costruisce attorno all'unico Signore, a cui si aderisce con una sola fede e a cui si accede grazie all'unico battesimo. E' questa la parte più liturgica del piccolo inno. Infine si giunge all'unico Dio e Padre, da cui è partito il progetto di salvezza e che continua ad operare in tutti il suo piano di amore.

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Nel giorno conclusivo della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, (il 25 gennaio 2015) papa Francesco, proprio nella Basilica dedicata al grande Apostolo, ha lanciato il suo appello per la fine di ogni divisione nel popolo di Dio. Tra l’altro ha detto: È nel “cuore di Gesù Cristo” che “si incontrano la sete umana e quella divina e il desiderio dell’unità dei suoi discepoli appartiene a questa sete”, come si può riscontrare “nella preghiera elevata al Padre prima della Passione: «Perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21)”.

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».
Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini.
Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano.
E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.
Gv 6, 1-15


Il Vangelo di Marco, che ci ha accompagnato finora durante le liturgie domenicali ora si interrompe per lasciare lo spazio al sesto capitolo del Vangelo di Giovanni. La ragione di tale inserzione è per approfondire il tema del "pane" a cui è giunta la narrazione di Marco.
Il brano inizia con un’indicazione riguardante gli spostamenti di Gesù: Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. In questa traversata i discepoli non sono menzionati, mentre per i sinottici Gesù si era recato con loro in un luogo solitario perché avessero un po’ di riposo (v. Mc 6,31). Sono invece menzionate le folle, di cui si dice che lo seguivano perché avevano visto i segni che faceva sugli infermi: si tratta quindi di un interesse egoistico, su cui Gesù ritornerà all’inizio del discorso successivo. L’evangelista aggiunge poi che egli, giunto a destinazione, salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
L’allusione alla pasqua si trova solo in Giovanni, sebbene ad essa alludano Marco e Matteo quando parlano dell’erba verde su cui Gesù fa sedere la folla. Il racconto prosegue in modo conciso: Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere.
Giovanni vuole concentrare l’attenzione non sulla predicazione di Gesù e sui suoi miracoli, ma sul segno che Gesù sta per fare. È Gesù stesso che prende l’iniziativa di sfamare la folla, senza aspettare, come nei sinottici, che i discepoli gli chiedano di congedarla e mette alla prova Filippo ponendogli quella domanda, mentre egli sapeva già quello che stava per fare.
Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Alla risposta desolata di Filippo si aggiunge la proposta di Andrea, che interviene dicendo: C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Andrea dà questa informazione non perchè pensa di risolvere qualcosa ma solo per far presente che si tratta di una cosa da nulla, vista l’entità della folla. Risulta chiaro così che, umanamente parlando, non si può far nulla per sfamare i presenti.
Gesù allora fa sedere la folla, e l’evangelista, annota che vi era molta erba in quel luogo, e aggiunge che i presenti erano circa cinquemila uomini, numero citato anche dai sinottici.
L’esistenza di molta erba, ricordata anche da Marco e Matteo, si ricollega all’imminenza della pasqua, che cade nel periodo primaverile; in questo accenno si può riconoscere un riferimento a Dio, pastore di Israele, che conduce il suo gregge all’erba verdeggiante (V. Sal 23,2; Ez 34,14; Mc 6,34).
Stranamente l’intervento di Andrea offre una base alla soluzione infatti: Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano.
A differenza dei Vangeli sinottici, ove sono incaricati i discepoli, qui è Gesù stesso che prende i pani e li distribuisce. Senza dubbio l'evangelista vuole sottolineare il rapporto diretto, personale e immediato, che c'è tra il pastore e le sue pecore. Un altro particolare colpisce: Gesù non agisce dal nulla, lo poteva fare, ma non l’ha fatto. Ha avuto bisogno di quei cinque pani e due pesci (il contributo umano di un ragazzo prudente) per operare il miracolo.
Quando tutti sono sazi, Gesù disse ai suoi discepoli: “Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto”. Con i pezzi avanzati, si riempirono dodici ceste, segno di grande abbondanza (V. 2Re 4,42-44).
Al termine del pasto i presenti, avendo visto il segno compiuto da Gesù, riconoscono in lui il profeta escatologico e vanno a prenderlo per proclamarlo re, ma egli si ritira da solo sulla montagna
In questa breve nota si nota la differenza tra l’attesa giudaica del profeta escatologico (V. Dt 18,15-18) e quella del re-messia (v. 2Sam 7). Non ci si deve dunque meravigliare che, dopo averlo riconosciuto come profeta, la folla voglia incoronarlo come re-messia. L’attesa messianica, pur essendo di origine religiosa, aveva per la gente anche un forte significato politica: per questo motivo la proclamazione regale di Gesù avrebbe fatto automaticamente di lui il capo della lotta anti-romana. Gesù invece spiegherà a Pilato che egli è veramente re, ma la sua regalità non consiste nell’esercizio del potere politico, bensì nel rendere testimonianza alla verità (v. Gv 18,37).
La cornice cronologica del miracolo evoca anche, come abbiamo visto, la Pasqua vicina, il pane è citato ben cinque volte, e i gesti di Gesù ricordano quelli dell'’ultima cena “prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti”.
L’evangelista vuole sicuramente farci capire che la celebrazione comunitaria non sarà solo un “ricordo” della morte e risurrezione di Gesù, ma metterà i discepoli, anche dopo la Sua scomparsa, direttamente a contatto con la persona viva del Maestro.
Si può dire ancora per concludere che il gesto di Gesù è anche segno di un’altra fame saziata, Cristo, in veste di pastore-profeta messianico, imbandisce con pienezza quella mensa che sazierà definitivamente la fame interiore dell’uomo, la sua antica e mai conclusa ricerca di Dio.

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“Il Vangelo di questa domenica presenta il grande segno della moltiplicazione dei pani, nella narrazione dell’evangelista Giovanni.
Gesù si trova sulla riva del lago di Galilea, ed è circondato da «una grande folla», attirata dai «segni che compiva sugli infermi». In Lui agisce la potenza misericordiosa di Dio, che guarisce da ogni male del corpo e dello spirito. Ma Gesù non è solo guaritore, è anche maestro: infatti sale sul monte e si siede, nel tipico atteggiamento del maestro quando insegna: sale su quella “cattedra” naturale creata dal suo Padre celeste.
A questo punto Gesù, che sa bene quello che sta per fare, mette alla prova i suoi discepoli. Che fare per sfamare tutta quella gente? Filippo, uno dei Dodici, fa un rapido calcolo: organizzando una colletta, si potranno raccogliere al massimo duecento denari per comperare del pane, che tuttavia non basterebbe per sfamare cinquemila persone.
I discepoli ragionano in termini di “mercato”, ma Gesù alla logica del comprare sostituisce quell’altra logica, la logica del dare.
Ed ecco che Andrea, un altro degli Apostoli, fratello di Simon Pietro, presenta un ragazzo che mette a disposizione tutto ciò che ha: cinque pani e due pesci; ma certo – dice Andrea – sono niente per quella folla.
Ma Gesù aspettava proprio questo. Ordina ai discepoli di far sedere la gente, poi prese quei pani e quei pesci, rese grazie al Padre e li distribuì
Questi gesti anticipano quelli dell’Ultima Cena, che danno al pane di Gesù il suo significato più vero. Il pane di Dio è Gesù stesso. Facendo la Comunione con Lui, riceviamo la sua vita in noi e diventiamo figli del Padre celeste e fratelli tra di noi. Facendo la comunione ci incontriamo con Gesù realmente vivo e risorto! Partecipare all’Eucaristia significa entrare nella logica di Gesù, la logica della gratuità, della condivisione. E per quanto siamo poveri, tutti possiamo donare qualcosa. “Fare la Comunione” significa anche attingere da Cristo la grazia che ci rende capaci di condividere con gli altri ciò che siamo e ciò che abbiamo.
La folla è colpita dal prodigio della moltiplicazione dei pani; ma il dono che Gesù offre è pienezza di vita per l’uomo affamato. Gesù sazia non solo la fame materiale, ma quella più profonda, la fame di senso della vita, la fame di Dio.
Di fronte alla sofferenza, alla solitudine, alla povertà e alle difficoltà di tanta gente, che cosa possiamo fare noi? Lamentarsi non risolve niente, ma possiamo offrire quel poco che abbiamo, come il ragazzo del Vangelo.
Abbiamo certamente qualche ora di tempo, qualche talento, qualche competenza... Chi di noi non ha i suoi “cinque pani e due pesci”? Tutti ne abbiamo! Se siamo disposti a metterli nelle mani del Signore, basteranno perché nel mondo ci sia un po’ più di amore, di pace, di giustizia e soprattutto di gioia. Quanta è necessaria la gioia nel mondo! Dio è capace di moltiplicare i nostri piccoli gesti di solidarietà e renderci partecipi del suo dono.
La nostra preghiera sostenga il comune impegno perché non manchi mai a nessuno il Pane del cielo che dona la vita eterna e il necessario per una vita dignitosa, e si affermi la logica della condivisione e dell’amore. La Vergine Maria ci accompagni con la sua materna intercessione.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 26 luglio 2015

Pubblicato in Liturgia

La liturgia di questa domenica ci illumina per conoscere meglio il cuore di Gesù, il cuore di Dio, la Sua umanità.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Geremia, il profeta denuncia apertamente i pastori malvagi che, sordi all’insegnamento del Signore, invece di curarsi delle pecore loro affidate le hanno disperse e scacciate. Il Signore, tramite il suo profeta annunzia che manderà un pastore che radunerà quel gregge disperso, lo raccoglierà in una terra sicura, e lo guiderà con giustizia e amore.
Nella seconda lettura, nella sua lettera agli Efesini, Paolo, contemplando il mistero della Croce di Gesù Cristo, annuncia che tutti i popoli possono unirsi e diventare così un solo popolo riconciliato con Dio.
Nel Vangelo, Marco ci dice che Gesù mentre si prende cura degli apostoli per formarli secondo il suo cuore, non trascura la folla, anzi si commuove perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

Dal Libro del profeta Geremia
«Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore.
Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io vi punirò per la malvagità delle vostre opere. Oracolo del Signore. Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho scacciate e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; non ne mancherà neppure una. Oracolo del Signore.
Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –
nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto,
che regnerà da vero re e sarà saggio
ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra.
Nei suoi giorni Giuda sarà salvato
e Israele vivrà tranquillo,
e lo chiameranno con questo nome:
Signore-nostra-giustizia».
Ger 23,1-6

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico.
In questo brano, tratto dal capitolo degli oracoli messianici, Geremia pronuncia parole durissime nei confronti dei pastori del suo tempo: “Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io vi punirò per la malvagità delle vostre opere.”
A distanza di 26 secoli, possiamo sentire quanto mai attuali queste parole. Se infatti la domenica entriamo nelle nostre chiese, vedendole spesso sempre più vuote, soprattutto di famiglie e di giovani, non possiamo non renderci conto del crescente disinteresse delle persone, non tanto nei confronti del fatto religioso che pure gode di una certa attrazione, quanto piuttosto nei confronti della Chiesa, intesa come Istituzione ecclesiale, considerata lontana non soltanto dal pensare comune, ma anche e soprattutto dalla vita reale e faticosa delle persone. In questo disinteresse (che non è, come si sente spesso affermare, causata solo dal processo di secolarizzazione in atto) c’è spesso, come sempre, un fondo di verità, che il Signore peraltro aveva previsto quando per bocca di Geremia aveva detto: Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho scacciate e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno… Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; non ne mancherà neppure una. ”
Queste parole dopo tanti secoli sono ancora rivolte a noi, ad ognuno di noi. Ma possiamo anche in coscienza riconoscere che non tutti i nostri pastori sono così. Quanti pastori, attraversano nel nascondimento nella povertà, nell’umiltà, la dura fatica dell’esistere, in compagnia dei poveri, degli emarginati dalla società e dalla Chiesa, sempre disposti ad accogliere, a perdonare, a fare comunione con loro, pastori che hanno assorbito con il tempo l’odore delle proprie pecore, come dice Papa Francesco, che vanno alla ricerca delle 99 pecore che si sono smarrite, e non restano nell’ovile a coccolare l’ultima pecora che non si è allontanata.

Salmo 22 - Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia.

Mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza.

Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.

Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni.

L’orante ha fatto l’esperienza di come il Signore lo guidi in mezzo a numerose difficoltà tesegli dai nemici. Egli dichiara che non manca di nulla perché Dio in tutto l’aiuta. Le premure del suo Pastore sono continue e si sente curato come un pastore cura il suo gregge conducendolo a pascoli erbosi e ad acque tranquille.
L’orante riconosce che tutto ciò viene dalla misericordia di Dio, che agisce “a motivo del suo nome”, ma egli corrisponde con amore all’iniziativa di Dio nei suoi confronti.
La consapevolezza che Dio lo ama per primo gli dà una grande fiducia in lui, cosicché se dovesse camminare nel buio notturno di una profonda valle non temerebbe le incursioni di briganti o persecutori, piombanti dall’alto su di lui.
La valle oscura è poi simbolo di ogni situazione difficile nella quale tutto sembra avverso. Dio, buon Pastore, lo difende con il suo bastone e lo guida dolcemente con il suo vincastro, che è quella piccola bacchetta con cui i pastori indirizzano il gregge con piccoli colpetti. Non solo lo guida in mezzo alle peripezie, ma anche gli dona accoglienza, proprio davanti ai suoi nemici, i quali pensano di averlo ridotto ad essere solo uno sconvolto e disperato fuggiasco. Egli, al contrario, è uno stabile ospite del Signore che gli prepara una mensa e gli unge il capo con olio per rendere lucenti i suoi capelli e quindi rendere bello e fresco il suo aspetto. E il calice che ha davanti è traboccante, ma non perché è pieno fino all’orlo, ma perché è traboccante d'amore. Quel calice di letizia è nel sensus plenior del salmo il calice del sangue di Cristo, mentre la mensa è la tavola Eucaristica, e l’olio è il vigore comunicato dallo Spirito Santo.
Il cristiano abita nella casa del Signore, l’edificio chiesa, dove c’è la mensa Eucaristica. Quella casa, giuridicamente, è della Diocesi, della Curia, ma è innanzi tutto del Signore, e quindi egli, per dono del Signore, vi è perenne legittimo abitante.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito.
Ef 2,13-18

Paolo continuando la lettera agli Efesini, dopo l’inno iniziale di lode, dedicato all'importanza di Cristo nella storia della salvezza, in questo brano dopo aver descritto, nei versetti precedenti con toni forti la situazione disperata in cui si trovavano i fedeli prima dell'unificazione attuata dalla morte liberatrice di Gesù, afferma: ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Questo avvicinamento si chiama Gesù Cristo. Nella Sua morte, nel Suo sangue, si attua questa alleanza nuova che fonde ebrei e pagani in una sola salvezza.
Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne.
Dio infatti per mezzo della croce di Cristo, ha annullato ogni inimicizia e divisione tra gli uomini, ha unito gli esclusi dall’alleanza e dalle promesse – i pagani convertiti – con i Giudei convertiti e ne ha fatto un popolo nuovo, la Chiesa.
Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace.
Il muro divisorio si può identificare nella Legge, in particolare nei 613 precetti della Torah, che regolavano i rapporti con gli altri e con il mondo estraneo dei pagani e faceva del popolo ebraico una specie di apartheid religiosa e sociale. In conclusionea questo non produceva altro che discriminazione e ostilità tra ebrei e i pagani.
e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. In senso positivo il sacrificio di Cristo, unisce due mondi, crea un nuovo organismo vitale, la comunità cristiana. Questo avviene grazie al loro inserimento vitale in Cristo, nella sua carne.
Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini..
C'è un vangelo, un annuncio di pace che quindi raggiunge i lontani, cioè i pagani, e i vicini, cioè gli ebrei. E' una realtà che porta ai beni salvifici, di cui la riconciliazione, l'unità, l'incontro con Dio sono gli effetti più sensibili.
Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito
In questo versetto è espressa la meta finale dell'opera pacificatrice di Gesù: l'incontro di tutti gli uomini con il Padre in un solo Spirito. Abbattute le barriere religiose e sociali che separavano gli ebrei dai pagani, nella persona di Gesù si apre la nuova via per accedere a Dio. Gesù è il nuovo tempio dove gli uomini senza discriminazioni possono incontrare Dio.
Accogliere questo messaggio anche oggi significa annullare ogni sentimento di razzismo e di lotta di classe e riconoscere che la riconciliazione con Dio passa attraverso la riconciliazione con tutti gli uomini, di ogni razza di ogni cultura.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.
Mc 6,30-34

Nel brano di domenica scorsa era iniziato il tema dell’espandersi dell’annunzio del regno di Dio, mediante l’opera dei dodici discepoli. Questa parte termina con il ritorno dei Dodici, riportata in questo brano. Tra l’invio dei discepoli e il loro ritorno, Marco ha inserito il racconto della morte del Battista, l’ultimo dei profeti inviati da Dio al Suo popolo, che simboleggia il destino di Gesù, profeta anch’egli rifiutato dal suo popolo.
Il brano inizia riferendo che “gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato.”
E’ da notare che per la prima volta Marco usa per i discepoli l’appellativo di “apostoli”. Attribuendo questo appellativo ai Dodici, Marco intende forse presentarli come modello dei futuri predicatori cristiani. Nell’espressione “avevano fatto e insegnato” emerge l’orientamento dell’evangelista, per il quale le opere hanno un primato rispetto alle parole.
Gesù allora invita i discepoli a recarsi con Lui “in un luogo deserto” e di riposarsi un po’”, perché la folla era talmente numerosa da impedire loro persino di mangiare. Questi dati servono da collegamento con il seguito del racconto, caratterizzato dalle due moltiplicazioni dei pani.
Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Il viaggio di Gesù con i suoi discepoli si svolge sulla riva occidentale del lago. Non è stata perciò una traversata vera e propria. Ciò è confermato dal fatto che molti, intuendo quale fosse il luogo verso cui erano diretti, vi si recano a piedi e giungono prima di loro. L’espressione “luogo deserto”, indica simbolicamente la liberazione e l’alleanza, in quanto evoca il deserto che Israele ha percorso al momento dell’esodo e del ritorno dall’esilio.
Al Suo arrivo nel luogo prescelto, Gesù vi trova una grande folla e ne ha compassione perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.
Questa folla proviene dai villaggi della Galilea e quindi è presumibilmente composta di giudei. Il verbo “avere compassione” (che è l ’equivalente dei vocaboli ebraici (specialmente rahamîm, riham e rahûm) con cui si indica la misericordia di Dio verso Israele, la sua elezione e il perdono dei suoi peccati (V. Es 34,6-7) usato per Gesù sta ad indicare che Lui agisce quindi come l’inviato di Dio che raduna Israele, Suo popolo e lo chiama alla salvezza escatologica. Il fatto che Gesù “si mise a insegnare” richiama il tema dell’alleanza e della legge, designata in ebraico con il termine Torah, che significa propriamente “istruzione, insegnamento”: mediante il Suo inviato DIO manifesta a Israele la Sua volontà.
In questo brano colpisce molto la compassione di Gesù che non può sottrarsi né restare indifferente di fronte a questo popolo sfruttato dai politici, disprezzato dagli intellettuali, ignorato dai sacerdoti. Sa benissimo che, ancor prima di pane per sfamarsi e di guarigioni, quella gente ha bisogno di una voce che li conforti, di una parola che li faccia sperare, di una persona che li ami!

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"Il Vangelo di oggi ci dice che gli Apostoli, dopo l’esperienza della missione, sono tornati contenti ma anche stanchi. E Gesù, pieno di comprensione, vuole dare loro un po’ di sollievo; e allora li porta in disparte, in un luogo appartato perché possano riposare un po’ .. «Molti però li videro partire e capirono… e li precedettero». E a questo punto l’evangelista ci offre un’immagine di Gesù di singolare intensità, “fotografando”, per così dire, i suoi occhi e cogliendo i sentimenti del suo cuore, e dice così l’evangelista: «Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose».
Riprendiamo i tre verbi di questo suggestivo fotogramma: vedere, avere compassione, insegnare. Li possiamo chiamare i verbi del Pastore. Vedere avere compassione, insegnare. Il primo e il secondo, vedere e avere compassione, sono sempre associati nell’atteggiamento di Gesù: infatti il suo sguardo non è lo sguardo di un sociologo o di un fotoreporter, perché egli guarda sempre con “gli occhi del cuore”. Questi due verbi, vedere e avere compassione, configurano Gesù come Buon Pastore. Anche la sua compassione, non è solamente un sentimento umano, ma è la commozione del Messia in cui si è fatta carne la tenerezza di Dio. E da questa compassione nasce il desiderio di Gesù di nutrire la folla con il pane della sua Parola, cioè di insegnare la Parola di Dio alla gente. Gesù vede, Gesù ha compassione, Gesù ci insegna. E’ bello questo!"

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 19 luglio 2015

Pubblicato in Liturgia

La liturgia di questa domenica ci ricorda che la Chiesa peregrinante è per sua natura missionaria ed ogni credente ha il dovere di diffondere la fede esaltando soprattutto la radice profonda, quella che affonda nel mistero stesso di Dio. Un antico proverbio rabbinico diceva: “l’inviato è come se fosse colui che lo invia”.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Amos, ci presenta il profeta che oppone un netto rifiuto all’imposizione del sacerdote di Betel di abbandonare la terra d’Israele, dove è stato mandato per predicare. Egli svolgerà la sua missione, anche se la sua parola potrà dispiacere a quelli che governano.
Nella seconda lettura, scrivendo ai cristiani di Efeso, Paolo inizia la sua lettera con una solenne benedizione e andando alla ricerca della sorgente di ogni vocazione cristiana la ritrova in un atto d’amore di Dio. Nel silenzio dell’essere, all’interno dell’infinito e dell’eterno di Dio, risuona quella voce suprema che crea e “predestina”, cioè definisce in anticipo il grande destino di gloria a cui è chiamato ogni uomo. Ogni uomo infatti è chiamato da Dio per nome e destinato ad entrare nella comunione divina fino a diventare membro di una famiglia celeste, quella dei figli adottivi di Dio e dei fratelli di Cristo.
Nel Vangelo, l’evangelista Marco ci parla degli apostoli inviati dal Signore Gesù ad annunciare la buona notizia della salvezza. Essi non vanno di propria iniziativa, e saranno ora accolti, ora contestati, ma sono fiduciosi che non mancherà loro la protezione del Signore.

Dal libro del profeta Amos
In quei giorni, Amasìa, [sacerdote di Betel,] disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno». Amos rispose ad Amasìa e disse:
«Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro.
Il Signore mi prese,
mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse:
Va’, profetizza al mio popolo Israele».
Am 7,12-15

Il profeta Amos vissuto nel VII secolo a. C., è il primo profeta la cui predicazione è stata riportata in un libro. Originario di Tekoa, una cittadina vicino Betlemme, il profeta Amos, benché fosse del Sud, esercitò il ministero profetico nel territorio del Nord dove, al suo tempo, dilagava l’idolatria e l’ingiustizia sociale. Lui stesso si presenta così: “Io non sono profeta, né figlio di profeta; sono un mandriano e coltivo i sicomori” (7:14), e così descrive la sua chiamata: “Il Signore mi prese mentre ero dietro al gregge e mi disse: ‘Va', profetizza al mio popolo, a Israele’” (7:15).
Amos denunciò il culto formale ed esteriore: I santuari erano sì frequentati e i riti erano eseguiti alla perfezione, ma non vi era un’autentica esperienza di Dio. Cercare il Signore, affermava il profeta, equivale a cercare la persona umana e a prendersene cura.
La predicazione del profeta Amos riprendeva i temi del Deuteronomio, soprattutto quelli che proponevano una società equa, che non ammetteva sfruttamento e oppressione. La situazione sociale che Amos descriveva è desolante. La rottura dell’alleanza di Dio con il popolo avvenuta sul Sinai, che garantiva a tutti gli israeliti uguale dignità, provocava una catena di situazioni sociali peccaminose.
Amos predicava il diritto e la giustizia che consistono nei rapporti sociali fondati sulla misericordia che genera la solidarietà e la promozione dell’altro.
La profezia di Amos può essere ricondotta intorno a quattro verbi fondamentali, intorno ai quali si sviluppa il suo messaggio:
Dire: il Signore parla; ascoltare: il popolo deve ascoltare;
vedere: il profeta vede la situazione nella sua realtà di peccato;
ricostruire e piantare: il Signore dopo il castigo per il peccato farà ritornare gli esuli, le città saranno ricostruite e la terra sarà piantata e coltivata.
Questo brano narra l’incontro tra Amasìa, sacerdote del santuario reale di Betel e Amos, proveniente da un paese straniero. Amasìa si rivolge ad Amos con modi duri: “Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno”.
La replica di Amos, a questo freddo e interessato burocrate del culto, è tagliente: egli è consapevole che alla radice della sua vocazione profetica non c’è una sua scelta personale, né un gusto particolare, né un interesse di carriera, né di guadagno, ma la sorpresa di Dio, l’efficacia della Sua voce che chiama. Dio può chiamare chiunque, anche il meno adatto umanamente, lo ha sempre fatto e lo farà, e chi sceglie non può fare a meno di obbedire. Ricordiamo l’accorato lamento di Geremia: Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso. Ger 20,7

Salmo 84 Mostraci, Signore, la tua misericordia.
Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore:
egli annuncia la pace
per il suo popolo, per i suoi fedeli.
Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme,
perché la sua gloria abiti la nostra terra.

Amore e verità s’incontreranno,
giustizia e pace si baceranno.
Verità germoglierà dalla terra
e giustizia si affaccerà dal cielo.

Certo, il Signore donerà il suo bene
e la nostra terra darà il suo frutto;
giustizia camminerà davanti a lui:
i suoi passi tracceranno il cammino.

Il salmista ricorda come Dio ha ricondotto "hai ristabilito la sorte di Giacobbe" da Babilonia. I peccati commessi Dio li ha perdonati, mettendo fine alla sua grande ira.
Questa memoria del perdono di Dio alimenta nel salmista la fiducia che Dio perdonerà le mancanze del popolo, che, ritornato nella Giudea, dimostra tiepidezza nei confronti di Dio e per questo incontra sofferenze (Cf. Ag 1,7).
Il salmista, fortificato dal ricordo della misericordia di Dio, innalza quindi la sua supplica: ”Ritorna a noi, Dio nostra salvezza, e placa il tuo sdegno verso di noi".
Il salmista passa a considerare le profezie, ad ascoltare “cosa dice Dio”, e conclude che Dio presenta un futuro di pace “per chi ritorna a lui con fiducia”. Egli guarda ai tempi messianici, e può dire che “la sua gloria abiti la nostra terra” (Is 60,1s); e che “amore e verità s'incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. “Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo”, quando verrà il Messia. La sua presenza farà si che “la nostra terra darà il suo frutto”, cioè il frutto di santità per il quale Israele è stato creato. Davanti al “bene” che Dio elargirà, cioè il Messia, “giustizia camminerà davanti a lui: i suoi passi tracceranno il cammino”.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo agli Efesini
Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo
per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità,
predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo,
secondo il disegno d’amore della sua volontà,
a lode dello splendore della sua grazia,
di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
In lui, mediante il suo sangue,
abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe,
secondo la ricchezza della sua grazia.
Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi
con ogni sapienza e intelligenza,
facendoci conoscere il mistero della sua volontà,
secondo la benevolenza che in lui si era proposto
per il governo della pienezza dei tempi:
ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose,
quelle nei cieli e quelle sulla terra.
In lui siamo stati fatti anche eredi,
predestinati – secondo il progetto di colui
che tutto opera secondo la sua volontà –
a essere lode della sua gloria,
noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
In lui anche voi, dopo avere ascoltato la parola della verità,
il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto,
avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo
che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità,
in attesa della completa redenzione
di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria.
Ef 1,3-14

La Lettera agli Efesini è una delle lettere che la tradizione cristiana attribuisce a S.Paolo, che l'avrebbe scritta durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62. Gli studiosi moderni però sono divisi su questa attribuzione e la maggioranza ritiene più probabile che la lettera sia stata composta da un altro autore appartenente alla scuola paolina, forse basandosi sulla lettera ai Colossesi, ma in questo caso la datazione della composizione può oscillare, tra l'anno 80 e il 100. La lettera agli Efesini si può dire che è la” lettera della Chiesa” del suo mistero e vita, tanto che anche il Concilio Vaticano II se ne è ampiamente ispirato.
Questo brano, conosciuto anche come Inno cristologico, sotto forma di preghiera e di inno, offre una sintesi dottrinale di tutta la lettera.
Nel primo versetto di introduzione “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo” riassume tutto ciò che Dio Padre ha fatto per noi mediante Cristo e che si realizza nello spirito.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato”. Viene qui descritta la nostra nuova situazione: Dio ci ha prescelti e predestinati fin dall’eternità ad essere Suoi figli per la santità e per l’amore (vv. Rm 8,29; Gv 1,12)
Nella seconda parte “In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia….” viene presentata la genesi della nostra identità di figli, spiegando i nostri privilegi cristiani: quelli della redenzione, della conoscenza “facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi:ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra
e dell’eredità “In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
L’inno si conclude con la dichiarazione: “In lui anche voi, dopo avere ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria” Questi privilegi perciò sono di tutti, giudei e pagani ( “noi e voi” ) avendo tutti ricevuto, quale pegno dell’eredità, il dono dello Spirito.
L’uomo è dunque chiamato per nome e destinato ad entrare nella comunione divina fino a diventare membro di una famiglia celeste, quella dei figli adottivi di Dio e dei fratelli di Cristo.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri.
E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.
E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».
Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.
Mc 6,7-13

Il capitolo del Vangelo di Marco, da dove è preso questo brano, apre con la visita di Gesù a Nazareth e tratta il tema dell’espandersi dell’annunzio del regno di Dio, mediante l’opera dei dodici discepoli, nella Galilea e, in prospettiva, al di fuori di Israele, in tutto il mondo.
Dopo essersi meravigliato per l'incredulità dei suoi compaesani, come abbiamo visto nella scorsa domenica, Gesù non si ferma, ma allarga l'orizzonte del suo insegnamento ai villaggi circostanti. Abbiamo notato che Marco dice che Gesù insegna senza precisare il contenuto dell'insegnamento: forse ciò che vuole far capire è che Gesù stesso, la sua persona, è l'insegnamento.
Il brano inizia dicendo che “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri”. I discepoli non possono andare da soli, devono andare due a due, perché due persone rappresentano la comunità meglio di una sola e si possono aiutare a vicenda. Ricevono potere sugli spiriti immondi, cioè devono essere di sollievo agli altri nella sofferenza e, attraverso la purificazione, devono aprire le porte di accesso diretto a Dio.
Le raccomandazioni che Gesù dà sono semplici: “E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.
Poi aggiunge: Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Il brano termina riferendo che essi partirono.
La missione a cui Gesù invia i suoi discepoli conosce innanzitutto la donazione totale, le mani non devono essere impacciate da borse e denaro; la grandezza della figura dell’apostolo non si misura su programmi ufficiali e su vari abiti da cambiare; il viaggio non è una solenne e raffinata missione diplomatica. Gesù mette anche in conto il rifiuto, con porte che si chiudono, con orecchi che ignorano, con labbra che deridono.
Questo brano ci ricorda che alla radice della nostra storia di credenti e di testimoni c’è un atto di Dio. E’ Dio stesso che rompe il silenzio del Suo mistero con la Sua parola e la Sua azione.
Suggestive sono alcune espressioni dell’apostolo Paolo in alcuni suoi scritti quando dice che si sente “conquistato da Gesù Cristo” (Fil 3,12) e in Galati afferma come elemento fondamentale è “essere conosciuti dal Cristo” prima ancora di “conoscerlo” (4,9)
La vocazione è quindi un lasciarsi afferrare, cercare e trovare da Dio che passa per le strade delle nostre città e delle nostre campagne e bussa alle porte delle nostre case. Sta a noi aprire la nostra porta quando riconosciamo la sua voce per permettergli di venire da noi, cenare con noi e noi con Lui
(Ap 3,20)

*****

"I dodici, sebbene in totale dipendenza da Cristo, da Lui sono designati, accanto a Lui sono stati plasmati e preparati; da Lui sono stati inviati; da Lui hanno ricevuto il potere sugli spiriti immondi; il Suo modo di fare si riflette sul loro; da Lui è stabilito il loro equipaggiamento, povero ed essenziale, affinché si manifesti unicamente la ricchezza ricevuta da Lui e che devono comunicare agli altri; da Lui è proposto il comportamento disinteressato e libero, non soggetto ai condizionamenti dell’alloggio, ma pronto e disponibile all’annuncio.
Uniti saldamente a Cristo, non possono distaccarsene. Per questo, finito il loro compito, torneranno a Lui, per raccontare ciò che hanno fatto e proclamato.
Vi è come un filo conduttore che descrive tutto il percorso missionario dal suo inizio, al suo svolgimento, alla sua fine. Quel filo è costituito da Gesù, propriamente dalla Sua persona e dalla Sua Parola. Gli apostoli non se ne possono allontanare, ne sono coinvolti e travolti totalmente; in Lui, da Lui, per Lui, con Lui vivono, si muovono, annunciano, operano. Niente di più incisivo per rivelare che la fonte, il centro, il culmine, la finalità dell’evangelizzazione si assommano in Cristo. Al di fuori della Sua persona, della Sua Parola, del Suo potere, non può sussistere alcuno spazio, o alcun senso valido per i dodici che intendono portare la salvezza concreta là dove gli uomini esistono e soffrono."
Commento tratto da: Marco I-Interrogativi e sorprese su Gesù” di Renzo Lavatori e Luciano Sole

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica hanno come filo conduttore del rifiuto della parola di Dio.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Ezechiele, vediamo che Dio affida al profeta la missione di andare dagli Israeliti, definiti popolo di ribelli, pur sapendo che non sarà ascoltato. Il fine per cui Dio lo manda è uno solo far sapere che in mezzo a loro c’è un profeta e Dio, che è fedele, non li ha abbandonati.
Nella seconda lettura, scrivendo ai cristiani di Corinto, Paolo contro i suoi calunniatori, rivendica con forza la sua dignità d apostolo. L’autenticità del suo ministero è confermata dalle persecuzione e dalla “spina nella carne” permessa da Dio per rendere fecondo il suo servizio al Vangelo, e afferma che proprio quando è debole, è allora che è forte.
Nel Vangelo, Marco ci racconta che gli abitanti di Nazareth rifiutano di riconoscere in Gesù Cristo il Messia atteso: l’incredulità, l’indifferenza, l’ostilità di fronte alla Parola, la presa di posizione nei suoi confronti appartengono quanto mai al mistero della libertà umana. Gesù suggella tutto questo con l’espressione «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua».

Dal libro del profeta Ezechièle
In quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava. Mi disse:
«Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi.
Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”. Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».
Ez 2,2-5

Ezechiele era di stirpe sacerdotale e fu fra i primi deportati dopo il primo assedio di Gerusalemme conclusosi nel 596 a.C. Il suo ministero ha due fasi ben distinte, prima dell'esilio e durante l'esilio.
Inizia il suo ministero nel 593 a.C., quinto anno dell'esilio del re Ioiachin, e prosegue certamente fino al 571 a.C. anno della presa di Tiro da parte di Nabucodonosor, (avvenimento esplicitamente citato in 29,18).
Il ministero di Ezechiele è segnato da un unico drammatico avvenimento, lasciando il resto degli eventi storici al ruolo di contorno: la profanazione e la distruzione del Tempio nel corso del secondo e definitivo assedio di Gerusalemme ad opera di Nabucodonosor, nel 586 a.C.. Tale avvenimento segna la fine del regno di Giuda e uno spartiacque fra due epoche per la storia degli ebrei.
Il suo libro è diviso in due da questo evento: la prima parte contiene quasi esclusivamente oracoli che minacciano l'inevitabile punizione delle gravi colpe di Giuda, mentre la seconda parte, accaduto l'irreparabile, lascia filtrare bagliori di speranza in un futuro riscatto non troppo lontano, concludendosi con la visione della nuova Gerusalemme e del suo nuovo Tempio.
Rispetto agli altri due grandi profeti scrittori, Isaia e Geremia, Ezechiele introduce alcuni elementi nuovi, accanto agli oracoli, fra cui la “visione” ed il “mimo”.
La visione è uno dei mezzi con cui DIO comunica con il profeta, che di solito esce sconvolto dall'esperienza, senza però mai abbandonare la sua missione. Come in un sogno o un delirio, Ezechiele vede l'aspetto visibile della gloria del Signore. È da notare come questi elementi non vengano mai legati fra loro a dare un'immagine antropomorfa di Dio, che rimane ineffabile come il Suo nome.
Il mimo è invece un mezzo che DIO stesso suggerisce al profeta per trasmettere il proprio messaggio ai suoi compagni di esilio: di volta in volta, Ezechiele mette in scena complesse rappresentazioni che però, per quanto comprese dai suoi compagni, vengono di regola ignorate o prese con sufficienza, quando non con disprezzo e scherno. Ezechiele, comunque, non si perde d'animo e porta avanti la missione affidatagli.
Ezechiele fu certamente un profeta di un rinnovamento profondo che fa presentire l’annuncio del Mistero di Gesù, specialmente come lo vede S.Giovanni. Si comprende come il IV Vangelo e l’Apocalisse utilizzino abbondantemente le immagini e le formule di Ezechiele.
Il brano che abbiamo, tratto dalla seconda relazione della chiamata profetica di Ezechiele, con l’espressione “Figlio dell’uomo” cara al profeta, viene svelato già il destino sconcertante del chiamato. Infatti intorno a lui si stringerà solo un popolo ostinato e peccatore, una vera e propria razza di ribelli, desiderosa solo di segni comodi e di parole inoffensive e neutre. Eppure anche se “Ascoltino o non ascoltino” – non potranno far tacere o ignorare la voce scomoda del profeta. La parola infatti che il profeta comunica non è sua, ma quella di Dio stesso: Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio…” La fermezza nell’ostilità e nell’isolamento sarà, infatti, la caratteristica di questo profeta, “pastore degli esuli” a Babilonia, lontano dalla sua terra in mezzo a connazionali ottusi e incattiviti dalla schiavitù. Egli sa che la sua predicazione non sarà accettata, ma lui nonostante tutto deve parlare ugualmente affinché sappiano che Dio non li ha abbandonati. Egli è un Dio fedele per questo è sempre presente!

Salmo 122 I nostri occhi sono rivolti al Signore.
A te alzo i miei occhi,
a te che siedi nei cieli.
Ecco, come gli occhi dei servi
alla mano dei loro padroni.

Come gli occhi di una schiava
alla mano della sua padrona,
così i nostri occhi al Signore nostro Dio,
finché abbia pietà di noi.

Pietà di noi, Signore, pietà di noi,
siamo già troppo sazi di disprezzo,
troppo sazi noi siamo dello scherno dei gaudenti,
del disprezzo dei superbi.

Il salmo riflette una situazione di dolore e di smarrimento alla quale l'orante reagisce con una grande fiducia in Dio.
Molto probabilmente si tratta di eventi dell'epoca Maccabaica. Quando venne ucciso Giuda Maccabeo i rinnegati di Israele, quelli passati ai costumi ellenistici, ripresero forza con Bacchide, che perseguitò coloro che si erano uniti nella fedeltà all'alleanza (1Mac 9,22-26). Stessa situazione si ebbe dopo la morte del successore di Giuda Maccabeo, Gionata (1Mac 12,52).
In quel tempo mancavano profeti e i fedeli in attesa di una guida che li conducesse alla vittoria guardavano a Dio per sapere come muoversi, come reagire.
Commento di P. Paolo Berti

Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia.
A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.”
Cor 12,7-10

Paolo continuando la sua seconda lettera al Corinzi, dopo aver percorso nei primi capitoli la sua vocazione di predicatore del Vangelo e della situazione che si era creata con la comunità di Corinto, ed aver esortati gli abitanti di Corinto alla generosità, si vede costretto anche a fare, nei versetti precedenti questo brano, il proprio elogio e parla del suo rapimento al terzo cielo. – “Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa - se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio - fu rapito fino al terzo cielo” (12,2…) Paolo qui offre una testimonianza straordinaria. Il suo spirito fu elevato alla più alta contemplazione dei misteri divini, che nessuna parola umana può descrivere. Fu rapito al terzo cielo, cioè nel più alto dei cieli, fu tirato come fuori di sé, fino a perdere ogni sentimento della propria vita corporea, tanto il suo spirito era stato investito in questa esperienza. Questo avvenne intorno all’anno 42, a cinque anni quindi dalla conversione. Paolo era allora in Siria o in Cilicia, e mancavano ancora alcuni anni all’inizio delle sue grandi missioni.
Il brano liturgico, che è uno dei più discussi a causa di certe particolari espressioni, inizia riportando una situazione molto tormentata: “affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia
Non si sa molto bene cosa fosse questa spina nella carne, probabilmente una malattia – dalla quale Cristo non ha voluto guarirlo e che moltiplica le difficoltà della sua vita apostolica. Altri esperti pensano non tanto ad una malattia quanto che l’inviato di satana potrebbe essere un oppositore dell’apostolato di Paolo, inviato appunto da satana: quindi, qualcuno che gli sta creando problemi nell’apostolato.
Paolo non esita a presentarsi come uomo, soggetto agli attacchi di Satana nella carne. E' salito al terzo cielo, ha avuto rivelazioni luminosissime, avrebbe desiderato rimanere in quello stato di estasi, ma ecco che gli attacchi del nemico gli ricordano che è ancora in cammino e che ha una carne contro la quale combattere con volontà decisa e preghiera incessante affinché il Signore lo allontani da questo nemico. “Ma il Signore gli risponde: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza»”, cioè “ti deve bastare la mia forza, che agisce in te. Sono io che opero in te perché sei in comunione con me, ed essere in comunione con me è un mio dono d’amore”.
Il Signore perciò gli fa capire che la spina nella carne (questa afflizione) è parte di quella debolezza che rientra nel disegno mirabile di salvezza e permette alla potenza di Dio di manifestarsi pienamente.
Paolo così può affermare: “perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.
Mc 6, 1-6

L’evangelista Marco ci narra in questo brano la visita di Gesù nella Sua patria che riprende il tema della mancanza di fede del popolo ebraico.
Appena arrivato di sabato a Nazareth con i suoi discepoli, Gesù si reca subito alla sinagoga per poter insegnare. Anche se non si conosce il contenuto del suo discorso si può immaginare che cerca di educare i Suoi concittadini prima di compiere miracoli e guarigioni. Marco ci riferisce subito la reazione dei numerosi uditori che stupiti commentano: “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?
Gli abitanti di Nazareth credono di conoscere Gesù meglio di chiunque altro perchè lo hanno visto crescere ed esercitare il suo mestiere. Incontrano ogni giorno sua madre e i membri della sua famiglia di cui conoscono nomi, vita e miracoli. Di fronte a Gesù si sentono turbati, imbarazzati, persino irritati. Rifiutano di lasciar mettere in discussione il loro piccolo mondo e la valutazione che si erano fatta sulla sua persona. Non sanno aprirsi al Gesù reale, perché restano caparbiamente attaccati al ritratto che si erano fatto di lui.
Questo episodio naturalmente va al di là del rifiuto di un piccolo paese della Galilea, prefigura infatti il rifiuto dell'intero Israele (Gv 1,11). Che un profeta poi sia rifiutato dal suo popolo non è una novità, se perfino un proverbio, nato da una lunga esperienza che ha accompagnato tutta la storia d'Israele, lo afferma, e trova la sua più clamorosa dimostrazione nella storia del Figlio di Dio e che continuerà a ripetersi continuamente nella storia umana.
Marco riporta con un tono di tristezza il commento di Gesù quando dichiara: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”.
E conclude che Gesù “lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
Da questo particolare vediamo che Gesù si rende disponibile anche per quei pochi malati, guarendoli. Il Signore guarda sempre l’umile e l’oppresso anche se fa parte di una comunità che non lo accetta: Lui guarda nei cuori e non giudica per sentito dire.

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In che cosa consiste l’incredulità dei nazaretani?
Di solito si dice che è difficile credere in Gesù per coloro che non lo hanno visto, né sentito o accostato, diversamente da come è accaduto ai suoi contemporanei e concittadini: Questi lo hanno ben osservato e sono vissuti con lui. Il loro disappunto non deriva dunque dal non aver sperimentato concretamente la sua presenza e la sua azione.
Si tratta di un’incredulità più profondamente marcata, che sgorga dall’interno dell’animo, nascosta in quell’angolo interiore dove l’uomo ritrova il senso radicale di sé e di Dio. Là dove si depositano le aspirazioni, i risentimenti, le passioni più sincere. E’ l’incredulità di colui che non vuol decifrare, capire, meditare, approfondire le realtà divine che si rivelano attraverso la semplicità e la naturalezza che si fa immanente e si inserisce nell’esistenza quotidiana. Un Dio che si fa vicino e accanto all’uomo esiste in quell’uomo, Gesù di Nazareth, il figlio di Maria.

Commento tratto da: Marco I-Interrogativi e sorprese su Gesù” di Renzo Lavatori e Luciano Sole

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica hanno come filo conduttore la fede, la vita e la morte.
Nella prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, troviamo una riflessione sul perchè Dio ci ha creati: per la vita sicuramente, e la morte non può venire da Lui, infatti viene affermato: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi”.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo esorta i cristiani di Corinto a dare un significato spirituale cristiano alla generosità materiale della colletta fatta per soccorrere la povertà della chiesa-madre di Gerusalemme.
Nel Vangelo, l’evangelista Marco descrivendoci i due miracoli intende presentarci diversi livelli della fede: quella imperfetta, come quella della donna che vuole toccare il mantello di Gesù per essere guarita e quella disperata di chi nella disperazione più completa è sicuro che Gesù potrà intervenire a favore della sua figlioletta, ormai moribonda. Di fronte alla sua fede, scatta il miracolo: il Signore Gesù compie ciò che è umanamente impossibile: ridona la vita.
I miracoli di Gesù non sono solo segni della Sua potenza, prova della Sua natura divina, sono atti di compassione e d’amore. Lo possiamo notare con quale dolcezza si rivolge all’emorroissa chiamandola: “Figlia…” e all’umanissima premura perchè alla bambina appena risuscitata si dia da mangiare.
Si allega anche il commento alle letture della Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, che la Chiesa di Roma li festeggia come santi Patroni.

Dal Libro della Sapienza
Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi.
Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano;
le creature del mondo sono portatrici di salvezza,
in esse non c’è veleno di morte,
né il regno dei morti è sulla terra.
La giustizia infatti è immortale.
Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità,
lo ha fatto immagine della propria natura.
Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo
e ne fanno esperienza coloro che le appartengono.
Sa 1,13-15; 2,23-24

Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico.
È stato composto ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. da Filone o da un suo discepolo, e si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”). L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, per mettere questo scritto, come del resto il Qoelet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele. Il libro è stato scritto tutto in greco e si compone di 19 capitoli che si possono ricondurre a tre parti principali:
Nella Prima parte (cap. 1-5), da dove viene tratto il brano che la liturgia ci presenta, viene presentata la possibilità di due diversi atteggiamenti che derivano dal senso che si dà all’esistenza e cioè:
- o siamo nati per caso, per cui dopo questa vita non esiste niente;
- oppure veniamo da Dio e a Lui ritorniamo conducendo una vita santa, restando saldi nel Suo amore.
Al di fuori di tale sapienza vi è la morte, ma Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi, poiché il Signore non vuole la morte ma la vita.
La Seconda parte (cap. 6,1-11,3) ci invita a ricercare la Sapienza di Dio, “amica degli uomini”, così da farne “la compagna della nostra vita”, lasciandoci attirare dalla sua bellezza. Il re Salomone tesse un elogio alla Sapienza con parole che di fatto non sono sue. L’autore del libro, infatti, per sviluppare il tema, usa la storia del re così come viene riferita nel 1 libro dei Re al cap. 3 e dal secondo libro delle Cronache. In base ai due racconti, Salomone trascorse la notte in preghiera nel santuario in cima al monte Gabon, per chiedere al Signore la saggezza necessaria per governare il suo popolo. In questa seconda parte la Sapienza si rivela come presenza di Dio nel mondo e nell’uomo, per condurre quest’ultimo sulle vie di Dio.
Nella Terza parte (cap. 11,4 - 19,22) la Sapienza sembra quasi scomparire dalla storia del popolo israelita. L’autore allora tenta di dimostrare la grandezza di Dio e la missione del popolo in un momento in cui nuove culture lo stanno seducendo. Secondo l’autore l’uomo saggio è l’uomo giusto chiamato a vivere nell’eternità di Dio. E poiché la Sapienza è una realtà misteriosa nascosta nel cuore del mondo, essa si rivela a chi la ricerca con tutto il cuore ed è concessa proprio come dono di Dio.
Dio partecipa all’uomo la Sapienza con cui ha creato il mondo, ma per riceverla in dono è necessario che l’uomo stia lontano dal male allontanandosi dalle cose terrene effimere, e troppo superficiali. La Sapienza non è dunque una filosofia che insegna l’arte del vivere, piuttosto indica una scelta di fede che permette di entrare in contatto con Dio e rimanere in relazione con Lui.

Salmo 29 - Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato
Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato,
non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi,
mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.

Cantate inni al Signore, o suoi fedeli,
della sua santità celebrate il ricordo,
perché la sua collera dura un istante,
la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera ospite è il pianto
e al mattino la gioia.

Ascolta, Signore, abbi pietà di me,
Signore, vieni in mio aiuto!
Hai mutato il mio lamento in danza,
Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre.

L’autore del salmo riconosce di essere stato nel passato ampiamente beneficato da Dio, ma aveva peccato di presunzione dicendo tra sé: “Mai potrò vacillare!”.
Per questo Dio l’aveva abbandonato e gli aveva nascosto per “un istante” il suo volto. Per “un istante” l’aveva esposto ai suoi nemici, i quali giunsero ad un sol passo dal prevalere su di lui, ma Dio gli diede “vita” e così poté sfuggire alla morte. Per questo egli è diventato un testimone della bontà del Signore: “Cantate inni al Signore, o suoi fedeli”.
Permane però nelle insidie ed egli si rivolge a Dio chiedendo di conservarlo in vita, perché non ne trarrebbe nessun vantaggio dalla sua morte: “Quale guadagno dalla mia morte, dalla mia discesa nella fossa? Potrà ringraziarti la polvere e proclamare la tua fedeltà?”. La sua missione, il suo proclamare la fedeltà di Dio, sarebbe interrotta anzitempo. Umile, invoca misericordia, e lascia il lamento sperimentando ancora una volta la fedeltà del Signore. Conclude confermandosi nell’amore per il Signore: “Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre”.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti

Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa.
Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».
2Cor 8,7,9,13-15

Paolo continuando la sua seconda lettera al Corinzi, dopo aver percorso nei primi 6 capitoli la sua vocazione di predicatore del Vangelo e della situazione che si era creata con la comunità di Corinto, nel capitolo ottavo esorta gli abitanti di Corinto alla generosità con temi che gli sono cari: la povertà, fonte di arricchimento per gli altri, l’esempio di Cristo, il dono di Dio, che suscita il dono dei cristiani.
Il brano liturgico inizia con l’esortazione:
Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa.
Paolo riconosce nella comunità di Corinto una fede viva che travalica i confini della città e si riversa nel mondo circostante perché la comunità ha saputo fondare la propria vita di credenti sulla parola, sulla fede, sulla scienza, sullo zelo, sulla carità. Questa modo di vivere è l’essenza del Vangelo ed è stata insegnata loro da Paolo!
Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
Con questa espressione Paolo passa ad un esame vero e proprio sulla consistenza dell’essere cristiani, perchè tramite l’opera di carità si saprà chi veramente cammina dietro Cristo per imitarlo, e chi invece va dietro di Lui solo per qualche interesse umano. Il cristianesimo è prima di ogni altra cosa sequela di Cristo, imitazione di Lui. Chi vuole essere cristiano non solo deve camminare dietro Cristo, deve anche imitarlo, poiché è nell’imitazione di Cristo che si raggiunge la perfezione morale, si raggiunge la pienezza nella fede, nella speranza, nella carità.
Poi nel versetto seguente è più esplicito: Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. La chiesa di Gerusalemme ha dato ai Corinzi i beni spirituali, la verità e la grazia di nostro Signore Gesù Cristo, è ben giusto che la comunità dei Corinzi doni alla chiesa di Gerusalemme quanto può perché sopravviva in un momento di così grave carestia.
Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».
L’abbondanza e l’indigenza sono su due piani differenti, si tratta di abbondanza spirituale e di indigenza materiale. La chiesa di Gerusalemme è sempre nell’abbondanza spirituale e questa abbondanza viene riversata sull’indigenza spirituale che accompagna la comunità di Corinto.
Paolo domanda infondo agli abitanti di Corinto solo il loro superfluo, mentre i cristiani di Macedonia (citati nei versetti 2-3 non riportati nel brano liturgico) nella loro “estrema povertà” hanno saputo dare “al di là dei loro mezzi”. Ma Paolo, proponendo l’esempio di Cristo, li invita discretamente a imitare la generosità dei loro fratelli macedoni.
Il messaggio che arriva a noi oggi è che solo con la condivisione può esserci la vera comunità che ci salva. Ogni uomo, per piccolo e povero che sia, ha qualcosa da dare agli altri e nessuno è così ricco da non poter più ricevere niente dagli altri.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina.
Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
Mc 5,21-43

L’evangelista Marco in questo brano ci presenta due miracoli di Gesù intrecciati tra loro, quello della donna colpita da emorragia e la resurrezione della figlia di Giàiro, capo della sinagoga di Cafarnao. Gesù si trova nella cornice vociante e affollata di una località intorno al lago di Tiberiade, punto centrale della prima fase della sua missione. Negli episodi raccontanti precedentemente Marco aveva narrato la tempesta sedata dove i discepoli avevano commentato”, e subito dopo la guarigione dell’indemoniato. sbalorditi Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?
Questo brano dopo aver precisato che “Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, e la molta folla che si era radunata intorno a lui, ci riporta che “venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.”
Ora l’evangelista sposta la nostra attenzione su di un nuovo personaggio rappresentativo nel quale ognuno di noi si può immedesimare: “una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio,
Il sangue è la vita, e perdere sangue significa perdere la vita. Una donna in queste condizioni, secondo il Libro del Levitico (15,25), è una donna in perenne condizione di impurità. Se non è sposata non trova nessuno che la sposa, se è sposata non può avere rapporto con il marito, quindi è destinata alla sterilità, anzi il marito la può perfino ripudiare. Quindi una donna che non ha nessuna speranza; è impura, non può entrare nel tempio, è equiparata a un lebbroso. Allora, per la donna non ci sono speranze; se continua ad osservare la legge va incontro alla morte, ma lei, che “aveva sentito “parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata»”.
Ci prova di nascosto perché una donna che, nelle sue condizioni, pubblicamente e volontariamente, toccava un uomo, era passibile di morte, perché lo rendeva impuro. “E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male”.
Gesù avverte che una “forza era uscita da lui”, una forza di vita e “si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Il commento che fanno i suoi discepoli è quello di considerare Gesù quasi un insensato. I discepoli sono accanto a Gesù, ma non gli sono vicini, loro lo accompagnano, ma non lo seguono. Non basta stare accanto a Gesù per percepirne e riceverne la forza della vita.
Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto” Impaurita perché sapeva di aver compiuto una trasgressione e quindi si aspettava sicuramente una punizione, “venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità”. Ecco, quello che, agli occhi della religione, è considerato un sacrilegio, agli occhi di Gesù invece … “Egli le disse “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”.
La donna sparisce dalla scena, è subito risucchiata dalla folla e scompare, lasciando viva la sua immagine in questa pagina evangelica.
Ora l’attenzione si sposta di nuovo su Gesù che aveva appena finito di parlare “quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Sicuramente lo sconforto invase l'animo del povero Giàiro e forse anche la sua fede divenne più debole. “Ma Gesù, udito quanto dicevano, gli disse “Non temere, soltanto abbi fede!”. E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo”, ossia i tre discepoli che in seguito saranno presenti alla sua trasfigurazione e alla sua angoscia mortale nel Getsemani. Dopo la risurrezione, essi potranno narrare queste cose, e allora anche la risurrezione della figlia di Giàiro apparirà sotto una nuova luce.
L’evangelista: annota: Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano.
Gli atti che Gesù compie una volta entrato in quella camera, dove giaceva il corpo esamine della bambina, nel silenzio e nella solitudine, dopo aver sicuramente allontanato il gruppo delle lamentatrici, dei musici, dei parenti afflitti, hanno le sue radici nel divino eterno. Cerchiamo di immaginare la scena: Egli stende la Sua mano, la stessa mano di Dio, e alla mano si aggiunge la parola efficace e creatrice. Bastano solo due parole pronunziate in una lingua umana, quella parlata da Gesù, l’aramaico: "Talita kum", Fanciulla, io ti dico: àlzati!» e la bambina si alzò e si mise a camminare. Davanti alla morte, nemica di Dio e dell’uomo, si è levata la voce di Cristo che ridona la vita. In questa bambina si anticipa simbolicamente il mistero della Pasqua in cui la morte è solo un “sonno”, come l’aveva chiamata Gesù, in attesa dell’incontro con l’eterno di Dio.
Da questi due racconti di miracolo esce un grande richiamo che ci invita ad avere una fede pura e totale, libera da magie e superstizioni, fiduciosa solo nel Dio della vita. Da imperfetta come quella della donna, persino da disperata come quella di Giàiro, la fede può crescere, maturare e diventare totale. E’ questo l’impegno fondamentale del cammino spirituale del cristiano, che tanto auspica Papa Francesco.

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“Il Vangelo di oggi presenta il racconto della risurrezione di una ragazzina di dodici anni, figlia di uno dei capi della sinagoga, il quale si getta ai piedi di Gesù e lo supplica: «La mia figlioletta sta morendo; vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva».
In questa preghiera sentiamo la preoccupazione di ogni padre per la vita e per il bene dei suoi figli. Ma sentiamo anche la grande fede che quell’uomo ha in Gesù. E quando arriva la notizia che la fanciulla è morta, Gesù gli dice: «Non temere, soltanto abbi fede!». Dà coraggio questa parola di Gesù! E la dice anche a noi, tante volte: “Non temere, soltanto abbi fede!”. Entrato nella casa, il Signore manda via tutta la gente che piange e grida e si rivolge alla bambina morta, dicendo: «Fanciulla, io ti dico: alzati!». E subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare. Qui si vede il potere assoluto di Gesù sulla morte, che per Lui è come un sonno dal quale ci può risvegliare.
All’interno di questo racconto, l’Evangelista inserisce un altro episodio: la guarigione di una donna che da dodici anni soffriva di perdite di sangue. A causa di questa malattia che, secondo la cultura del tempo, la rendeva “impura”, ella doveva evitare ogni contatto umano: poverina, era condannata ad una morte civile. Questa donna anonima, in mezzo alla folla che segue Gesù, dice tra sé: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E così avviene: il bisogno di essere liberata la spinge ad osare e la fede “strappa”, per così dire, al Signore la guarigione.
Chi crede “tocca” Gesù e attinge da Lui la Grazia che salva. La fede è questo: toccare Gesù e attingere da Lui la grazia che salva. Ci salva, ci salva la vita spirituale, ci salva da tanti problemi. Gesù se ne accorge e, in mezzo alla gente, cerca il volto di quella donna. Lei si fa avanti tremante e Lui le dice: «Figlia, la tua fede ti ha salvata». E’ la voce del Padre celeste che parla in Gesù: “Figlia, non sei maledetta, non sei esclusa, sei mia figlia!”.
E ogni volta che Gesù si avvicina a noi, quando noi andiamo da Lui con la fede, sentiamo questo dal Padre: “Figlio, tu sei mio figlio, tu sei mia figlia! Tu sei guarito, tu sei guarita. Io perdono tutti, tutto. Io guarisco tutti e tutto”.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 28 giugno 2015

Pubblicato in Liturgia

Questa domenica ricordiamo la figura di S. Giovanni Battista. Solo di lui, oltre di Gesù e di Sua Madre Maria, si fa memoria della sua nascita nella liturgia cristiana. Questo conferma il suo legame con Gesù, al punto che non si può pensare l’uno senza pensare all’altro.
La festa è talmente grande che la liturgia dedica al Battista due celebrazione oltre alla messa del giorno anche la messa vespertina nella Vigilia.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Geremia, possiamo considerare che Geremia, prima del Battista, ha ricevuto la missione di essere portavoce di Dio presso il popolo d’Israele per guidarlo verso la salvezza.
Nella seconda lettura, nella sua prima lettera l’apostolo Pietro esorta i credenti in Cristo ad esultare di gioia indicibile in attesa di raggiungere la mèta della propria fede: la salvezza delle anime.
Nel Vangelo di Luca, troviamo il racconto dell’annuncio a Zaccaria della nascita straordinaria di un figlio. Per la sua incredulità Zaccaria resterà muto, ma Dio non si ferma di fronte alla incredulità umana, anche se a dubitare è un Suo sacerdote, ma per Sua misericordia, realizzerà ciò che ha promesso.
Nella Messa del giorno, nella prima lettura, il profeta Isaia sembra illustrare nella presentazione della sua chiamata, la figura del Battista, in quanto anch’egli è stato scelto da Dio fin dal seno materno, per la restaurazione morale e spirituale del popolo d’Israele, nell’attesa del Cristo.
Nella seconda lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, l’Apostolo Paolo, afferma che Giovanni Battista, predicando il battesimo di penitenza preparò i figli di Abramo e tutti i timorati di Dio alla venuta del Salvatore.
Nel Vangelo di Luca, viene raccontata la gioia della nascita di Giovanni Battista, la conferma del nome da parte di suo padre Zaccaria e la sua vita austera in vista della missione.

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Messa vespertina della vigilia 23 maggio

Dal Libro del Profeta Geremia
Nei giorni del re Giosia
mi fu rivolta questa parola del Signore:
Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,
prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni».
Risposi: «Ahimè, Signore Dio!
Ecco, io non so parlare, perché sono giovane».
Ma il Signore mi disse: «Non dire: “Sono giovane”.
Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò
e dirai tutto quello che io ti ordinerò.
Non aver paura di fronte a loro,
perché io sono con te per proteggerti».
Oracolo del Signore.
Il Signore stese la mano
e mi toccò la bocca,
e il Signore mi disse:
«Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca.
Vedi, oggi ti do autorità
sopra le nazioni e sopra i regni
per sradicare e demolire,
per distruggere e abbattere,
per edificare e piantare».
Ger 1,4-10

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T. a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico.
Questo brano è tratto dal racconto che si trova all’inizio della prima sezione del libro di Geremia e che contiene una serie di oracoli appartenenti alla fase più antica del suo ministero, cioè al tempo del re Giosia, famoso per la sua riforma religiosa. Molti di questi oracoli infatti sono rivolti al regno di Israele, già conquistato dagli assiri nel 722 a.C., e risentono i toni della predicazione di Amos e Osea.
Il racconto è autobiografico è lui stesso il profeta, che ricorda che il Signore gli ha rivolto la Sua parola, senza specificare il tempo e il luogo in cui ciò è avvenuto.
Geremia racconta che il Signore lo ha conosciuto prima di formarlo nel grembo materno, lo ha consacrato prima che uscisse alla luce e lo ha costituito profeta per le genti.
I due verbi “conoscere” e “consacrare” indicano il rapporto specialissimo che il Signore stabilisce con lui. Il fatto che Geremia sia stato conosciuto e consacrato da Dio prima della nascita, anzi addirittura prima del suo concepimento nel seno materno indica la particolarità della sua vocazione.
Di sua iniziativa Dio lo ha scelto e lo ha costituito “profeta delle nazioni”; egli sarà dunque il suo portavoce, inviato non solo a Israele, ma anche alle altre nazioni.
Ciò non vuol dire che Geremia sia stato inviato ad annunziare i messaggi divini anche alle nazioni straniere, ma che egli si è interessato anche di loro, descrivendo il loro ruolo nel piano di Dio e rivolgendo ad esse minacce e promesse. Testimoni di questa missione sono soprattutto gli oracoli da lui composti contro le nazioni (vv. Ger 46-51).
Alla chiamata divina, Geremia oppone come ostacolo il fatto di essere giovane e di non saper parlare: in altre parole la sua giovane età gli impedirebbe la possibilità stessa di prendere la parola in pubblico.
Nell’antichità infatti solo l’anziano aveva diritto di parola e di decisione.
Questa obiezione richiama, anche se con particolari diversi, quella avanzata da Mosè al momento della sua vocazione (vv. Es 4,10); essa sottolinea la totale inadeguatezza del prescelto di fronte al compito che gli viene affidato.
Per tutta risposta Dio lo esorta a non temere e gli promette la Sua assistenza e protezione.
Poi il Signore tocca la bocca di Geremia e dichiara: “Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca…” quanto più lo strumento è inadeguato, tanto più si manifesta la potenza divina che opera in lui!
Infine Dio gli dà potere su Israele e “autorità sopra le nazioni e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare”.
Il fatto che, per indicare la parte negativa della sua missione, sono usati quattro verbi e due soltanto per quella positiva, mostra già chiaramente che egli è mandato agli israeliti soprattutto per annunziare la sventura che li sovrasta.
La chiamata di Dio per Geremia avviene in un momento estremamente difficile della storia di Israele, per meglio dire del sopravvissuto regno di Giuda. Ormai si sta avvicinando la catastrofe, presto i babilonesi conquisteranno la Giudea, Gerusalemme sarà distrutta e la popolazione deportata. Il compito di Geremia sarà quello di mostrare come questa sventura sia stata provocata dal peccato del popolo, il quale potrà salvarsi in extremis solo sottomettendosi agli invasori. Ma proprio questa direttiva di carattere religioso-politico non sarà gradita dalla classe dirigente di Giuda, perché significa la perdita del suo potere e dei suoi privilegi. Geremia non potrà fare a meno di annunziare terribili sventure a persone che, rifiutando il messaggio divino, faranno di tutto per rendergli difficile la vita. Il suo compito sarà dunque estremamente gravoso e drammatico, in quanto i suoi avversari arriveranno al punto di accusarlo di essere un disertore e di collaborare con i nemici.
Egli verrà quindi colpito in prima persona da prove terribili che preannunzieranno e anticiperanno la tragedia del suo popolo. Si può da qui capire come la vita di Geremia non è stata certo facile.
Geremia fu il profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù. Egli fu anche l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà

Salmo 70              Dal grembo di mia madre sei tu il mio sostegno
In te, Signore, mi sono rifugiato,
mai sarò deluso.
Per la tua giustizia, liberami e difendimi,
tendi a me il tuo orecchio e salvami.

Sii tu la mia roccia,
una dimora sempre accessibile;
hai deciso di darmi salvezza:
davvero mia rupe e mia fortezza tu sei!
Mio Dio, liberami dalle mani del malvagio.

Sei tu, mio Signore, la mia speranza,
la mia fiducia, Signore, fin dalla mia giovinezza.
Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno,
dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno.

In te, Signore, mi sono rifugiato,
mai sarò deluso.
Per la tua giustizia, liberami e difendimi,
tendi a me il tuo orecchio e salvami.

Il salmista vive in un tempo di gravi contrasti nei quali si trova coinvolto per la sua fedeltà a Dio. Probabilmente si è al tempo immediatamente precedente la presa di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia. Le sofferenze di questo giusto avvengono in patria, per mano di suoi connazionali, che sono ormai ribelli a Dio e guardano ai culti idolatrici introdotti nel tempio (Cf. 2Re 21,4). Questo giusto si adopera per una riforma dei costumi che può vedersi nell’esito felice della riforma di Giosia.
Il salmista per rafforzare la sua fiducia in Dio non evoca le grandi opere di Dio verso la nazione, ma guarda alla sua storia. Egli è stato educato alla fede in Dio fin da quando la madre lo teneva stretto sul grembo: “Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno” E Dio lo ha accompagnato, lo ha istruito con la sua grazia, fin dalla giovinezza: “Fin dalla giovinezza, o Dio, mi hai istruito”. Il salmista trova motivo alla sua fedeltà proprio alla fedeltà di Dio su di lui…
Egli, pur anziano e debole, e in pericolo, si dà forza, con l’aiuto di Dio, di annunciare la giustizia di Dio, la sua fedeltà alle promesse fatte, l’immutabilità della sua parola: “La mia bocca racconterà la tua giustizia, ogni giorno la tua salvezza, che io non so misurare”; “Venuta la vecchiaia e i capelli bianchi, o Dio, non abbandonarmi, fino a che io annunci la tua potenza, a tutte le generazioni le tue imprese".
La giustizia di Dio, dice il salmista, “è alta come il cielo”; cioè non è come quella umana, cedevole, imperfetta, ed esposta ai cedimenti.
Le angosce che Dio ha permesso si abbattessero su di lui sono state veramente grandi poiché dice: “Molte angosce e sventure mi hai fatto vedere: tu mi darai ancora vita, mi farai risalire dagli abissi della terra”. Dagli “abissi della terra”, per dire che la sua situazione è di un finito, di un morto, di cui nessuno più si preoccupa.
Ma la fede in Dio sostiene il salmista e pieno di ferma speranza dice: “Allora io ti renderò grazie al suono dell’arpa, per la tua fedeltà, o mio Dio; a te canterò sulla cetra, o Santo d’Israele”.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di san Pietro apostolo
Carissimi, voi amate Gesù Cristo, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime.
Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti, che preannunciavano la grazia a voi destinata; essi cercavano di sapere quale momento o quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che le avrebbero seguite.
A loro fu rivelato che, non per se stessi, ma per voi erano servitori di quelle cose che ora vi sono annunciate per mezzo di coloro che vi hanno portato il Vangelo mediante lo Spirito Santo, mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo.
1Pt 1,8-12

La Prima lettera di Pietro è un testo scritto alla fine del I secolo che si presenta come opera del grande apostolo di cui porta il nome, ma secondo gli esperti è una raccolta di tradizioni che al massimo potrebbero risalire a Pietro o al suo ambiente. Non è una lettera vera e propria, ma un’omelia a sfondo battesimale, che si apre con l’indirizzo e una benedizione iniziale (1,1-5) a cui fa seguito il corpo della lettera che si divide in tre parti: 1) Identità e responsabilità dei rigenerati (1,6 - 2,10); 2) I cristiani nella società civile (2,11 - 4,11); 3) Presente e futuro della Chiesa (4,12 - 5,11).
Nella prima di queste parti vengono affrontati i seguenti temi: la salvezza mediante Cristo (1,6-12); la santità dei credenti (1,13-21); la rigenerazione mediante la parola (1,22 - 2,3); il sacerdozio dei credenti (2,4-10).
Il brano liturgico è ricavato dalla prima di queste parti e tratta dell’Amore e fedeltà nei confronti del Cristo ed inizia con l’esortazione: ”Carissimi, voi amate Gesù Cristo, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime”.
Credere senza pretendere di vedere è beatitudine, poiché ciò è frutto di un cuore convertito e colmato dalla fede in Cristo. Ciò è a fondamento della perfetta letizia, che è “indicibile”, cioè che non può essere espressa a parole né con paragoni umani.
Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti, che preannunciavano la grazia a voi destinata;” La salvezza che già ora opera nei credenti in Cristo è un dono sul quale “indagarono e scrutarono i profeti“ sulla base delle parole loro date da Dio, ma non la poterono vedere attuarsi in essi: solo l’attesero, la desiderarono. Pietro dice che l’Antico Testamento non dava la salvezza che ora opera nei credenti in Cristo. Anche se essi erano nella salvezza per mezzo del futuro donarsi di Cristo fino alla morte di croce, non ne poterono però gustare la sua forza trasformante.
essi cercavano di sapere quale momento o quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che le avrebbero seguite”.
Pietro allude probabilmente alla ricerca sulle settanta settimane del profeta Daniele (Dn 9,24s), ma la cosa viene generalizzata ed esprime la viva attesa degli eventi della salvezza, che presentavano le sofferenze di Cristo (Is 53,4s). Pietro ribadisce che le sofferenze di Gesù morto sulla croce erano state annunciate e che perciò i Giudei sbagliavano quando asserivano che Gesù non poteva essere il Messia perché crocifisso. Ma accanto alle sofferenze di Cristo i profeti avevano annunciato la gloria della risurrezione, la gloria della nuova ed eterna alleanza.
Lo Spirito di Cristo che era in loro”, non era in loro come lo fu nei discepoli per la Pentecoste, ma era in loro in quanto parte essenziale del loro essere profeti. Pietro dice pure che quello era “Lo Spirito di Cristo”, cioè lo Spirito Santo agiva in virtù di Cristo. Anche le grazie concesse agli uomini prima di Cristo scaturiscono dal sacrificio di Cristo.
ora vi sono annunciate per mezzo di coloro che vi hanno portato il Vangelo mediante lo Spirito Santo, mandato dal cielo”. Le verità annunciate dai profeti si ritrovano negli evangelizzatori, che agiscono mediante l’azione dello Spirito Santo inviato dal cielo.
cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo.” I credenti in Cristo devono ben rendersi conto di quanto sia grande il dono di essere in Cristo, dal momento che gli angeli “desiderano fissare lo sguardo” sul mistero di Cristo capo della Chiesa e centro del disegno del Padre (v. 1Cor 4,9).
Fissare lo sguardo” non vuol dire certo che i credenti in Cristo devono indagare per scoprire, ma illuminati dalla potenza dello Spirito Santo gioire nella contemplazione delle grandi opere di Dio.

Dal Vangelo secondo Luca
Al tempo di Erode, re della Giudea, vi era un sacerdote di nome Zaccaria, della classe di Abia, che aveva in moglie una discendente di Aronne, di nome Elisabetta. Ambedue erano giusti davanti a Dio e osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore. Essi non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni.
Avvenne che, mentre Zaccaria svolgeva le sue funzioni sacerdotali davanti al Signore durante il turno della sua classe, gli toccò in sorte, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, di entrare nel tempio del Signore per fare l’offerta dell’incenso. Fuori, tutta l’assemblea del popolo stava pregando nell’ora dell’incenso.
Apparve a lui un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. Ma l’angelo gli disse: «Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, e tu lo chiamerai Giovanni. Avrai gioia ed esultanza, e molti si rallegreranno della sua nascita, perché egli sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà colmato di Spirito Santo fin dal seno di sua madre e ricondurrà molti figli d’Israele al Signore loro Dio. Egli camminerà innanzi a lui con lo spirito e la potenza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto».
Lc 1,5-17

L’evangelista Luca presenta il suo vangelo dell’infanzia prima con gli annunzi (1,5-56) e poi con le nascite di Giovanni il Battista e poi di Gesù.
Il primo annunzio inizia riportando che “Al tempo di Erode, re della Giudea, vi era un sacerdote di nome Zaccaria, della classe di Abia, che aveva in moglie una discendente di Aronne, di nome Elisabetta. Una coppia, Zaccaria ed Elisabetta, immagine di un popolo che osserva scrupolosamente tutte le leggi del Signore, infatti l’evangelista precisa: “Ambedue erano giusti davanti a Dio e osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore. Essi non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni”. Per gli ebrei la sterilità era una grave disgrazia, tanto che c’era la possibilità di ripudiare la moglie e di fare figli con le schiave, perchè la discendenza era molto importante.
L’evangelista descrive l’ambiente poco prima dell’intervento del messaggero di Dio che entra nella vita di quella coppia ormai stanca di attendere: Avvenne che, mentre Zaccaria svolgeva le sue funzioni sacerdotali davanti al Signore durante il turno della sua classe, gli toccò in sorte, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, di entrare nel tempio del Signore per fare l’offerta dell’incenso. E proprio mentre Zaccaria, nella sua veste di sacerdote officiava nel tempio con l’offerta dell’incenso che “Apparve a lui un angelo del Signore”… Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. Ma l’angelo gli disse: «Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, e tu lo chiamerai Giovanni…
Il brano liturgico termina con la descrizione di come sarà grande questo bambino, ma sappiamo dell’incredulità di Zaccaria, forse lui non attendeva più nulla dalla vita e come reazione dice all’angelo: “Io sono vecchio e mia moglie è avanzata negli anni”. (1,18). L’attesa è stata troppo lacerante da spegnere ogni speranza umana! L’intervento di Dio turba e sorprende, ma non smuove una fede irrigidita e messa molto alla prova. Ma Dio non ha regole, viene quando vuole ed apre nuovi orizzonti, a volte imprevedibili.
La storia della salvezza inizia con l’incredulità del sacerdote: proprio lui, che più degli altri, aveva confidenza con il Mistero, si trova spiazzato. Dio lo raggiunge quando si trova nel luogo più sacro della Santa Dimora, dove pochi avevano il privilegio di entrare. E tuttavia, la mancanza di fede, anche momentanea, gli impedisce di accogliere la Parola dell’angelo. Si trova dentro la casa di Dio ma non è pronto ad entrare nella storia di Dio. Questo fatto deve servire come un ammonimento anche per tutti noi oggi!
L’angelo gli annuncia che Dio non si ferma però alla sua incredulità e, per Sua misericordia, realizzerà ciò che ha promesso. Dobbiamo riconoscere che la storia della salvezza è il frutto dell’ostinata fedeltà di Dio.

 

Messa del giorno

Dal libro del profeta Isaia
Ascoltatemi, o isole,
udite attentamente, nazioni lontane;
il Signore dal seno materno mi ha chiamato,
fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome.
Ha reso la mia bocca come spada affilata,
mi ha nascosto all’ombra della sua mano,
mi ha reso freccia appuntita,
mi ha riposto nella sua faretra.
Mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele,
sul quale manifesterò la mia gloria».
Io ho risposto: «Invano ho faticato,
per nulla e invano ho consumato le mie forze.
Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore,
la mia ricompensa presso il mio Dio».
Ora ha parlato il Signore,
che mi ha plasmato suo servo dal seno materno
per ricondurre a lui Giacobbe
e a lui riunire Israele
– poiché ero stato onorato dal Signore
e Dio era stato la mia forza –
e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo
per restaurare le tribù di Giacobbe
e ricondurre i superstiti d’Israele.
Io ti renderò luce delle nazioni,
perché porti la mia salvezza
fino all’estremità della terra».
Is 49,1-6

Il libro del Deuteroisaia (probabilmente discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia intorno al 550 a.C. insieme agli altri esiliati) si apre con il lieto annunzio del ritorno degli esuli a Gerusalemme (40,1-11) e termina con un poema sulla parola di Dio. Il libro contiene una raccolta di oracoli, alcuni composti prima della conquista di Babilonia da parte di Ciro (Is 41,12 - 48,22) e quelli che invece hanno visto la luce dopo questo evento (Is 49,1-54,17).
Il brano liturgico riporta l’introduzione del carme, in cui il Servo si rivolge alle isole, alle nazioni lontane, che ora vengono chiamate metaforicamente a dare un giudizio oggettivo su quanto è accaduto.
Anzitutto il Servo presenta la sua vocazione: “Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome…”. Come Geremia, egli è stato scelto da Dio fin dal seno materno (Ger 1,5), cioè quando non poteva avere ancora alcun merito che motivasse la sua chiamata, e anche a lui, come ai profeti che lo hanno preceduto, è assegnato il compito di combattere contro i nemici di Dio.
Il Servo ricorda anzitutto a Dio le sue promesse: “Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”. Nel Servo e mediante la sua opera, Dio vuole manifestare la Sua gloria, cioè il Suo progetto di salvezza. Nella sua risposta, il Servo dice che, pur essendo stato scelto e preparato, è andato incontro a un fallimento: la sua fatica e il suo impegno non hanno portato i frutti sperati. Ciò è dovuto al fatto che il popolo non è preparato ad accettare la proposta di Dio riguardante il ritorno nella terra dei padri. Il Servo non ha colpa di tale insuccesso e il Signore non potrà non riconoscere la sua innocenza e gli conferirà la ricompensa promessa. Il Servo riferisce allora che Dio interviene una seconda volta e prima di riferire il suo messaggio, il Servo lo introduce con queste parole: “Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza”. In questa introduzione il Servo riprende per la seconda volta il tema della sua vocazione, e il suo compito specifico di riportare a Dio il popolo di Israele. Questo compito rappresenta per lui un grande onore e gli garantisce l’assistenza divina. Dopo questa introduzione vengono riportate le parole di Dio: “È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”.
Nonostante il suo insuccesso, Dio lo ha tanto apprezzato e stimato da ritenere troppo piccolo per lui il compito di radunare Israele e di ricondurlo a lui. Il Signore vuole conferirgli una missione ancora più grande, che riguarda tutta l’umanità. Egli dovrà essere “luce delle nazioni”, cioè far risplendere anche su di loro la rivelazione della Sua gloria e far giungere così la salvezza “fino all’estremità della terra”.
Questa estensione della missione del Servo, non significa certo che egli dovrà svolgere un'attività missionaria presso i pagani, ma piuttosto che, dopo il suo momentaneo fallimento, porterà a termine la sua opera con tale successo da suscitare lo stupore e l'ammirazione anche delle altre nazioni, coinvolgendole nella salvezza offerta prima a Israele (45,14-25).

Salmo 138/139 - Io ti rendo grazie: hai fatto di me una meraviglia stupenda.
Signore, tu mi scruti e mi conosci
Tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo.
Intendi da lontano i miei pensieri,
Osservi il mio cmamino e il mio riposo,
Ti sono note tutte le mie vie

Sei tu che hai formato i miei reni
E mi hai tessuto nel grembo di mia madre
Io ti rendo grazie:
Hai fatto di me una meraviglia stupenda.

Meravigliose sono le tue opere,
Le riconosce pienamente l’anima mia.
Non ti erano nascoste le mie ossa
Quando venivo formato nel segreto,
Ricamato nelle profondità della terra.

La tradizione vuole che questo salmo sia stato scritto da Davide. Alcuni aramaismi, invece, indicherebbero che il salmo sia stato scritto nel tardo postesilio, ma non con conclusione certa.
Il salmista sa di essere alla presenza di Dio e sa che a lui nulla sfugge: “Tu mi scruti e mi conosci, tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo...”. Egli sa che Dio coglie il suo pensiero prima che trovi espressione vocale: “Intendi da lontano i miei pensieri”; “La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta”. Dio circonda l'uomo con la sua presenza, e su di lui esercita la sua sovranità: “Poni su di me la tua mano”. Il salmista vede questo non come un'oppressione, ma come l'esercizio di un disegno ricolmo di saggezza che non sa comprendere, cioè esaurire nella sua ricchezza infinita: “Meravigliosa per me la tua conoscenza, troppo alta, per me inaccessibile"; “Quanto profondi per me i tuoi pensieri...”.
Se egli volesse allontanarsi dallo “spirito” di Dio, sottrarsi alla conoscenza di Dio e alla sua sovranità non potrebbe. Il tema del fuggire dalla presenza di Dio non è soltanto un espediente per dire l'onnipresenza e onniscienza di Dio, ma è connesso al peccato, alla volontà di fare senza Dio. Adamo si nascose dalla presenza di Dio (Gn 3,8).
Il salmista attinge all'immaginazione: “Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti”. Egli immagina di volare con la velocità del chiarore dell'aurora e di giungere all'estremità del mare per abitarci. Egli in tal modo dovrebbe far perdere le sue tracce allo sguardo di Dio, ma sarebbe solo un'illusione: “anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra”; Dio sarebbe sua guida anche là, pur afferrandolo, cioè pur esercitando la sua sovranità. Si deve notare che Dio non solamente afferra, perché sarebbe solo un punire, ma anche guida con la sua mano, cioè orienta nuovamente l'uomo verso di lui e lo guida nel cammino della salvezza.
Il peccatore vorrebbe non avere limiti, essere come Dio. Vorrebbe salire in cielo; scendere nelle profondità degli inferi; raggiungere un punto e l'altro della terra con la velocità del chiarore dell'aurora. Ma anche se potesse far ciò non si potrebbe sottrarre a Dio.
Può solo restare sulla terra, e allora vorrebbe che Dio non lo scrutasse, che le tenebre gli impedissero di vederlo, ma continua a vederlo: “"Almeno le tenebre mi avvolgano e la luce intorno a me sia notte"; nemmeno le tenebre per te sono tenebre...”.
Il salmista, terminata la sequenza dei tentativi immaginari del sottrarsi dalla presenza di Dio, passa a vedersi come creatura di Dio: “Sei tu che hai formato i miei reni...”. Egli loda Dio che l'ha fatto come “una meraviglia stupenda”; con capacità di conoscere, di dominare le cose, di costruire, di inventare, di ordinare, di amare, di cantare, di comunicare il suo pensiero mediante la parola, di creare mediante l'arte, di procreare. Il salmista però non sosta sulle sue opere, ma su quelle grandi di Dio: "le riconosce pienamente l'anima mia". Il salmista è stupito del disegno di Dio sull'uomo, tanto alto che sorpassa le sue capacità di intendere: “Quanto profondi per me i tuoi pensieri...”. “erano tutti scritti nel tuo libro i giorni che furono fissati". Dio conosce da sempre tutto ciò che l'uomo liberamente farà nei suoi giorni, e conosce anche quanti saranno i suoi giorni.
Il salmista passa a guardare la terra compromessa dalla presenza dei peccatori, che odiano Dio: “Parlano contro di te con inganno, contro di te si alzano invano”, e pronuncia il desiderio della loro distruzione: “Se tu, Dio, uccidessi i malvagi!
La parte finale del salmo non fa parte della recitazione cristiana. Dio colpirà i peccatori nel giudizio particolare, al termine della vita di ciascuno, e universale alla fine del mondo, ma ora lascia che il grano cresca con l'erba cattiva.
Cristo, via, verità e vita, è il disegno del Padre sull'uomo.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, (nella sinagoga di Antiòchia di Pisidia) Paolo diceva: Dio suscitò per i nostri padri Davide come re, al quale rese questa testimonianza: “Ho trovato Davide, figlio di Iesse, uomo secondo il mio cuore; egli adempirà tutti i miei voleri”.
Dalla discendenza di lui, secondo la promessa, Dio inviò, come salvatore per Israele, Gesù. Giovanni aveva preparato la sua venuta predicando un battesimo di conversione a tutto il popolo d’Israele. Diceva Giovanni sul finire della sua missione: “Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali”.
Fratelli, figli della stirpe di Abramo, e quanti fra voi siete timorati di Dio, a noi è stata mandata la parola di questa salvezza.
At 13,22-26

Questo brano tratto dalla terza parte degli Atti, riporta parte dell'annuncio che Paolo fece di Cristo nel suo primo viaggio missionario insieme a Barnaba, mentre si trovava nella sinagoga di Antiochia di Pisidia, una zona dell'attuale Turchia.
Rivolgendosi ai Giudei nella sinagoga, Paolo, come Stefano, ricorda la storia d’Israele, ripercorrendo le varie tappe fino ad arrivare a presentare Gesù come il compimento delle promesse di Dio. In questa ripresa della storia della salvezza un ruolo importante è riconosciuto a Giovanni Battista, e mostra come Dio ha compiuto in Gesù le promesse fatte a Davide.
Dio suscitò per i nostri padri Davide come re, al quale rese questa testimonianza: “Ho trovato Davide, figlio di Iesse, uomo secondo il mio cuore; egli adempirà tutti i miei voleri”.
Paolo sottolinea il fatto che Davide era gradito a Dio, a differenza di Saul. Si cita qui il Salmo 89,21 e 1Sam 13,14, il passo in cui Samuele annuncia a Saul che non era stato fedele a Dio e che quindi Dio avrebbe scelto un altro re (Davide appunto) al suo posto.
Dalla discendenza di lui, secondo la promessa, Dio inviò, come salvatore per Israele, Gesù. Giovanni aveva preparato la sua venuta predicando un battesimo di conversione a tutto il popolo d’Israele.”
Qui Giovanni viene ricordato però in modo sintetico, ripetendo di fatto ciò che di lui si dice nei quattro vangeli. Egli aveva preparato la venuta di Cristo (come aveva predetto il profeta Malachia 3,1-2), attraverso un battesimo di conversione, proposto al solo popolo di Israele.
Si può notare che Paolo nelle sue lettere non parla mai di Giovanni Battista, questo perchè lui si rivolgeva per lo più a cristiani provenienti dal paganesimo, per i quali Giovanni Battista non aveva molta importanza.
Diceva Giovanni sul finire della sua missione: “Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali”.
Qui viene riportato ciò che affermava Giovanni alla fine della propria missione, a quanti pensavano fosse lui il Messia, di non essere colui che loro supponevano e precisava che dopo di lui sarebbe venuto uno al quale lui (Giovanni) non era degno di slacciare i sandali.
Giovanni afferma in modo deciso la superiorità assoluta del Messia: egli ne è solo il testimone e di fronte a Lui si sente meno di uno schiavo. Giovanni non rivendica nulla per se stesso e dichiara di essere solo "una voce che grida" al servizio del Messia. Il Precursore è stato soltanto un dito puntato verso il Messia, lo ha indicato presente e poi si è ritirato.
Fratelli, figli della stirpe di Abramo, e quanti fra voi siete timorati di Dio, a noi è stata mandata la parola di questa salvezza
Con i versetti finali del brano, Paolo si rivolge direttamente al suo pubblico perché sta per parlare direttamente di Gesù e della sua azione. I suoi uditori sono i figli della stirpe di Abramo, cioè gli ebrei, coloro che attendevano la realizzazione della promessa, e anche coloro che erano timorati di Dio, i simpatizzanti del giudaismo, quanti si interrogavano profondamente sull'esistenza di Dio. Per tutti loro è stata mandata questa parola, una parola che salva, che guarisce!

Dal Vangelo secondo Luca
Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei.
Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome».
Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose.
Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui.
Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele.
Lc 1, 57-66.80

L’evangelista Luca presenta nel suo vangelo dell’infanzia prima gli annunzi (1,5-56) e poi le nascite, prima di Giovanni il Battista e poi di Gesù.
In questo brano liturgico viene ricordata in modo molto sintetico la nascita di Giovanni.
Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei”.
Anche per il parto di Rebecca (Gen 25,24) si usa la stessa formula “si compì il tempo del parto”. Il parto viene appena accennato per aggiungere subito dopo che in questa nascita tutti hanno riconosciuto una manifestazione straordinaria della misericordia di Dio e per sottolineare la gioia che essa ha provocato nei vicini e nei parenti, esattamente come l’angelo aveva preannunciato a Zaccaria (1,14).
Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria.” Nel giorno fissato dalla Legge, l’ottavo dopo la nascita (Lv 12,3) parenti e amici vennero da Zaccaria per la circoncisione del bambino che, secondo l’evangelista, comportava anche l’imposizione del nome. Anche se per gli israeliti di solito il nome si assegnava al momento della nascita, Luca ha fatto coincidere circoncisione ed imposizione del nome, ma ha anche semplificato le cose dicendo che gli amici “volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria”.
Elisabetta invece interviene ed esige che sia dato al bambino il nome “Giovanni”, cosa che desta la meraviglia di molti. Normalmente dare il nome spettava al padre e solo qualche volta alla madre; spesso era assegnato il nome del nonno, raramente quello del padre. Il nome “Giovanni” dato da Elisabetta era quindi non adatto, oltre che inaspettato, come appare dalla reazione di alcuni dei presenti, i quali commentano: “Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome”.
Dato che Zaccaria era rimasto sordomuto, i presenti gli “domandavano con cenni come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome»”.
Così il padre e la madre concordano perfettamente sul nome da dare al bambino. Stando al racconto, non appare che Elisabetta e Giovanni abbiano potuto mettersi d’accordo prima. Per Luca il nome di Giovanni è di origine divina e tutto avviene sotto il segno della Provvidenza.
L’atto di fede e di obbedienza fatto da Zaccaria imponendo il none al proprio figlio ha unna rispondenza dall’alto perchè “All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio.
Il racconto termina con una reazione di timore da parte dei presenti, che “furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose” e alla fine commentano” «Che sarà mai questo bambino?».
Il brano liturgico non riporta i versetti del Benedictus, il salmo profetico di Zaccaria, che ripieno anch’egli di Spirito santo come Elisabetta, rende grazie a Dio
Luca conclude il racconto con una espressione tipica della crescita: “Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele.”
Qui troviamo l’eco di alcune espressioni prese dai racconti dell’infanzia di Isacco e di Ismaele (Gn 21,8.20), di Sansone (Gdc 13,24-25) e di Samuele (1Sam 2,21-26; 3,19).
Parlando della presenza di Giovanni “in regioni deserte”, Luca preannuncia direttamente l’attività del Battista, per lui tutto è compimento dell’antica profezia, tutto è annunzio e preparazione dell’avvenire, Luca è l’uomo della storia e soprattutto dei tempi della salvezza!
Possiamo riconoscere che il racconto è tutto un inno alla fedeltà del Signore. La nascita di Giovanni viene accolta da tutti come un segno della Sua misericordia per Israele. Il nome stesso di Giovanni viene presentato come un nome inatteso, la cui scelta avviene per un’ispirazione divina. Il nome infatti significa “JHWH fa grazia” e indica in sintesi la grazia di Dio che, dopo essersi rivelata nell’Antico Testamento, giunge ora a compimento con la nascita del precursore.

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"Oggi, 24 giugno, celebriamo la solennità della Nascita di San Giovanni Battista. Se si eccettua la Vergine Maria, il Battista è l’unico santo di cui la liturgia festeggia la nascita, e lo fa perché essa è strettamente connessa al mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio. Fin dal grembo materno, infatti, Giovanni è precursore di Gesù: il suo prodigioso concepimento è annunciato dall’Angelo a Maria come segno che «nulla è impossibile a Dio», sei mesi prima del grande prodigio che ci dà salvezza, l’unione di Dio con l’uomo per opera dello Spirito Santo. I quattro Vangeli danno grande risalto alla figura di Giovanni il Battista, quale profeta che conclude l’Antico Testamento e inaugura il Nuovo, indicando in Gesù di Nazaret il Messia, il Consacrato del Signore. In effetti, sarà lo stesso Gesù a parlare di Giovanni in questi termini: «Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, / davanti a te egli preparerà la via. In verità io vi dico: fra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (Mt 11,10-11).
Il padre di Giovanni, Zaccaria – marito di Elisabetta, parente di Maria –, era sacerdote del culto dell’Antico Testamento. Egli non credette subito all’annuncio di una paternità ormai insperata, e per questo rimase muto fino al giorno della circoncisione del bambino, al quale lui e la moglie dettero il nome indicato da Dio, cioè Giovanni, che significa «il Signore fa grazia».
Animato dallo Spirito Santo, Zaccaria così parlò della missione del figlio: «E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo / perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, / per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza / nella remissione dei suoi peccati»
Tutto questo si manifestò trent’anni dopo, quando Giovanni si mise a battezzare nel fiume Giordano, chiamando la gente a prepararsi, con quel gesto di penitenza, all’imminente venuta del Messia, che Dio gli aveva rivelato durante la sua permanenza nel deserto della Giudea. Per questo egli venne chiamato «Battista», cioè «Battezzatore» (cfr Mt 3,1-6). Quando un giorno, da Nazaret, venne Gesù stesso a farsi battezzare, Giovanni dapprima rifiutò, ma poi acconsentì, e vide lo Spirito Santo posarsi su Gesù e udì la voce del Padre celeste che lo proclamava suo Figlio (cfr Mt 3,13-17). Ma la missione del Battista non era ancora compiuta: poco tempo dopo, gli fu chiesto di precedere Gesù anche nella morte violenta: Giovanni fu decapitato nel carcere del re Erode, e così rese piena testimonianza all’Agnello di Dio, che per primo aveva riconosciuto e indicato pubblicamente.
Cari amici, la Vergine Maria aiutò l’anziana parente Elisabetta a portare a termine la gravidanza di Giovanni. Ella aiuti tutti a seguire Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio, che il Battista annunciò con grande umiltà e ardore profetico."
Benedetto XVI Parte dell’Angelus del 24 giugno 2012

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica per parlarci del Regno di Dio prendono spunto dalla parabola del seme: la Parola di Dio si diffonde tra gli uomini non per la capacità o la bravura degli uomini, che restano solo collaboratori per l’avvento del Regno di Dio, ma l’azione dello Spirito Santo che fa germogliare e crescere il seme, che guida e anima la Chiesa.
Nella prima lettura il profeta Ezechiele si rivolge al popolo ebreo sfiduciato e scoraggiato, deportato in esilio a Babilonia e adopera l’immagine della cima del cedro reciso e trapiantato sul di un altro terreno. Il popolo ebreo teme di essere stato abbandonato da Dio, teme di essere destinato alla dispersione, di essere votato allo sterminio. Solo pochi rimangono fedeli e radicati nella speranza, fedeli alle promesse.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, ci esorta ad avere fiducia in Dio ed essere sicuri che Dio non dimentica nulla di quanto facciamo di bene nel suo amore.
Nel Vangelo di Marco, Gesù con le parabole del piccolo seme che germoglia e cresce e del granello di senape che si sviluppa fino a diventare un grande arbusto, mette in evidenza la sproporzione tra gli umili inizi e il grandioso risultato del Regno di Dio che Egli annuncia.

Dal libro del profeta Ezechièle
Così dice il Signore Dio:
«Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro,
dalle punte dei suoi rami lo coglierò
e lo pianterò sopra un monte alto, imponente;
lo pianterò sul monte alto d’Israele.
Metterà rami e farà frutti
e diventerà un cedro magnifico.
Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno,
ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà.
Sapranno tutti gli alberi della foresta
che io sono il Signore,
che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso,
faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco.
Io, il Signore, ho parlato e lo farò».
Ez 17,22-24

Il profeta Ezechiele nacque intorno al 620 a.C. verso la fine del regno di Giuda. Fu deportato in Babilonia nel 597 a.C. assieme al re Ioiachin, stabilendosi nel villaggio di Tel Aviv sul fiume Chebar. Cinque anni più tardi ricevette la chiamata alla missione di profeta, con il compito di rincuorare i Giudei in esilio e quelli rimasti a Gerusalemme. Ezechiele anche se non fu un profeta all'altezza di Isaia o Geremia, ebbe una sua originalità, che in certi casi può averlo fatto apparire ingenuo.
Centro del messaggio di Ezechiele è la trascendenza di Dio, caratteristica condivisa con gli altri grandi profeti. Nella grande teofania iniziale e nella seconda grande teofania, evita accuratamente di dare una rappresentazione della divinità, e descrive in termini fantasticamente antropomorfici 'la corte divina', e non la divinità in sé. Ezechiele aveva fatto proprio anche un messaggio di giudizio. Giuda aveva disobbedito alle leggi di Dio, trascurato il sabato, profanato il Tempio, praticato l'impurità, stretto legami con popoli stranieri e per tutto questo doveva essere punito. Ma Ezechiele si fece portatore anche di un messaggio di speranza, perché Giuda si sarebbe risollevato dalla sua caduta come un morto che risuscita dalla tomba.
Questo brano ci porta all’anno 597 a.C. quando Nabucodonosor deportò in Babilonia il re Ioiachin e mise al suo posto Sedecia, il quale non solo ruppe l’alleanza con il re di Babilonia, ma anche con Dio.
Il Signore allora lo castiga, ma senza però interrompere con il popolo di Israele l’opera di salvezza promessa. Infatti tramite Ezechiele annuncia la restaurazione del regno ricorrendo a delle allegorie, (nei versetti precedenti questo brano c’è l’allegoria dell’Aquila che richiamava Nabucodonosor) ora con l’allegoria dell’agricoltore dichiara:
“Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico”.
Ezechiele paragona la storia del suo popolo a un grande cedro nato e cresciuto per iniziativa di Dio. L'albero è divenuto infruttuoso a causa dell'infedeltà, perciò Dio reciderà un ramoscello dalla sua cima per trapiantarlo in un altro terreno (simbolo della deportazione in Babilonia).
In mezzo all'infedeltà generale, però, un "piccolo resto" è rimasto fedele a Dio e alla Sua alleanza e, grazie ad esso, il piano di Dio giungerà a compimento.
Questo "resto fedele”, simboleggiato nel ramoscello che Dio stesso ha reciso “dalla cima del cedro”, e piantato di nuovo sul monte alto d’Israele, metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico” alla cui ombra ogni volatile riposerà.
E’ l’albero messianico, simbolo di vita, di speranza e di protezione, un segno verso il quale volgeranno lo sguardo gli altri popoli per arrivare al culto del vero Dio.
In questa interpretazione dell'esilio babilonese si sente l'eco dell'esodo dall'Egitto: due esperienze distanti nel tempo, ma che hanno aiutato Israele a crescere nella coscienza di popolo di Dio; un Dio che tra le complesse vicende umane è sempre capace di costruire e tracciare una nuova storia per il Suo popolo. E'Dio il garante del futuro soprattutto per chi è debole, piccolo e senza speranza.
Il versetto finale: Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco” che possiamo collegare alle parole di Maria nel Magnificat: "Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili..” ci presentano un Dio che vuole anche oggi un futuro, una dignità, per ogni persona anche piccola, per ogni popolo povero e oppresso. Nessuno nella vita può considerarsi un fallito, perché veglia su di lui il Dio della vita che si fa solidale con l'uomo.

Salmo 91 È bello rendere grazie al Signore.
È bello rendere grazie al Signore
e cantare al tuo nome, o Altissimo,
annunciare al mattino il tuo amore,
la tua fedeltà lungo la notte.
Il giusto fiorirà come palma
crescerà come cedro del Libano;
piantati nella casa del Signore
fioriranno negli atri del nostro Dio

Nella vecchiaia daranno ancora frutti
saranno verdi e rigogliosi
per annunciare quanto è retto il Signore:
mia roccia, in lui non c’è malvagità.

Il salmo esordisce presentando la bellezza del dar lode a Dio, della preghiera che canta contemplando ciò che Dio è: “Al tuo nome, o Altissimo”.
Il salmo è individuale, ma celebra la preghiera liturgica del tempio, dove erano in uso gli strumenti musicali e dove si lodava Dio anche durante veglie notturne. A questa preghiera nel tempio egli partecipava.
Il salmista, probabilmente un levita, riflette sulla grandezza delle opere di Dio: la liberazione dall'Egitto, l'alleanza del Sinai, la conquista della Terra Promessa, la costruzione del tempio.
Egli osserva che i pensieri di Dio hanno una profondità tale che gli uomini non possono esaurirne la comprensione (Cf. Ps 35,7; 39,6).
Gli uomini insensati non sono umili, per questo non possono intendere le cose di Dio, e scelgono i loro vaneggiamenti che li conducono alla rovina eterna, che come tale è irreversibile. Il loro fiorire e affermarsi “è solo per la loro eterna rovina”.
Il salmista ha molti nemici, che sono anche e principalmente nemici di Dio, ma riceve da Dio la forza per la lotta: “Tu mi doni la forza di un bufalo, mi hai cosparso di olio splendete”.
Noi in Cristo la forza la riceviamo dallo Spirito Santo, e l'olio che abbiamo ricevuto è quello del crisma del sacramento della Confermazione.
La forza e la sicurezza che il salmista sente nella fede lo porta a non temere gli uomini, gli avversari: “I miei occhi disprezzeranno i miei nemici”. Per noi cristiani non c'è il disprezzo dei nemici in quanto persone, ma solo disprezzo delle loro lusinghe per travolgerci, delle loro intimidazioni per fiaccarci.
E' certo che gli empi non potranno prosperare che per un attimo, ma poi cadranno in rovina: “Contro quelli che mi assalgono, i miei orecchi udranno sventure”.
Il contrario avverrà per i giusti, che si radicano nella frequentazione del tempio, e per questo fioriranno “negli atri del nostro Dio”, e nella vecchiaia “daranno ancora frutti”. Esempi perfetti di questo sono Simeone ed Anna (Lc 2,25s.36s).
Commento di P.Paolo Berti

Dalla Seconda Lettera di S.Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore.
Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi.
Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male.
2Cor 5,6-10

Paolo sente la necessità di scrivere una seconda lettera ai Corinzi perchè aveva saputo che a Corinto erano arrivati in quel periodo degli evangelizzatori che avevano, non soltanto preso le loro distanze dalla persona di Paolo (anziché riconoscerne l'autorità e il suo ruolo di privilegio nei confronti dei Corinzi, essendo egli il fondatore di quella comunità), ma addirittura erano giunti a contestare la sua autorità di apostolo e di padre della comunità. Erano con tutta probabilità giudeo-cristiani venuti da fuori regione, con delle lettere credenziali che avevano lo scopo di "raccomandarli" presso la comunità di Corinto, e presentandosi, si definivano "servitori di Cristo e suoi apostoli”. Con tutta probabilità si facevano mantenere dalle comunità stesse (per questa ragione Paolo, polemicamente, insiste sul suo lavoro con cui ha provveduto personalmente al proprio mantenimento senza pesare sugli altri). Paolo si mostra dunque molto duro e severo anche con la comunità di Corinto che li ha accettati e seguiti, anziché metterli al bando e restare fedele al suo fondatore.
In questo brano l’Apostolo, continua ad approfondire il tema, già iniziato, di tenere sempre lo sguardo rivolto ai beni eterni, e presenta il desiderio di lasciare il corpo per abitare presso il Signore, cioè giungere alla visione beatifica. Queste parole ci dicono come l'anima fedele dopo la morte salirà a Dio vedendolo così come egli è (Fil 1,23; 1Gv 3,2). La visione beatifica non sarà dunque solo alla risurrezione dei corpi, ma dopo la morte per quelli che sono morti in Cristo. Non si dà assolutamente una sospensione dell'attività dell'anima, (come ad esempio si vede nella parabola del ricco epulone), ma anzi essa è superattiva nella carità perché non cammina più nella fede, ma è nella visione di Dio. (Ap 4,4). Dio inoltre darà all'anima, con una suprema luce, la possibilità di vederlo faccia a faccia (1Cor 13,12). Inoltre, quando l'anima si separerà dal corpo per la morte, c'è subito un giudizio per ciascuno, il giudizio particolare: Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male.
Fa un po’ timore leggere: “comparire davanti al tribunale di Cristo”, ma dobbiamo pensare che la nostra salvezza è garantita. Noi non compariremo in giudizio, ma tutta la nostra vita sarà ripercorsa, come in un film, rivelando tutto ciò che avremo fatto, “di bene o di male”, e riceveremo o un guadagno o una perdita. Ma, nello stesso tempo, il Signore mostrerà come la sua grazia abbia saputo trarre il suo fulgore anche dai nostri peccati.
Ciò che conta è di essere fin da oggi graditi a Dio rendendosi docili alla Sua volontà, svolgendo sempre bene le proprie azioni quotidiane, per essere pronti a sostenere vittoriosi il giudizio davanti al tribunale di Cristo. L’invito è a vivere quaggiù con la speranza fondata su Cristo e non sulle proprie forze.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura». Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.
Mc 4,26-34

Su questo brano tratto dal vangelo di Marco meditiamo su due parabole: la prima, è quella del “seme” che germoglia e cresce da solo, tipica di Marco, la seconda è quella della senape, narrata anche da Matteo e Luca, ma con minor apporto di particolari.
La prima parabola inizia parlando di un uomo che getta il seme nella terra “dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura”.
Con questo paragone Gesù ci vuole far comprendere come l'agricoltore che semina il buon seme deve anche saper attendere pazientemente il raccolto. Nello stesso modo dobbiamo fare anche noi: dobbiamo cioè seminare il bene attorno a noi e, a suo tempo, raccoglieremo questo bene, moltiplicato, anche se, il più delle volte, saranno gli altri, che verranno dopo di noi, a vedere i frutti.
La seconda parabola Gesù la fa iniziare con una domanda: “A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra”.
Nella Terra Santa, ai tempi di Gesù, con il nome di senapa chiamavano, oltre alla pianta che noi conosciamo, anche un albero che raggiunge diversi metri di altezza. Questa parabola ci insegna come il Signore, per diffondere il bene nel mondo, si serve di strumenti umili e semplici. Sono queste le Sue preferenze, e così ha fatto anche quando ha scelto gli Apostoli, umili e semplici pescatori, e li ha fatti diventare evangelizzatori del mondo.
Gesù con le Sue parabole cerca di dare soprattutto una risposta alle idee e alle aspettative messianiche degli Ebrei del Suo tempo. C'erano i Farisei, i quali pensavano che si potesse affrettare l'avvento del Regno di Dio con la penitenza, con i digiuni, con l'osservanza, in genere, della Legge e delle tradizioni. C'erano poi gli Zeloti, che cercavano di impiantare il Regno ricorrendo alla violenza e alla resistenza armata contro i conquistatori romani. C'erano infine gli Apocalittici, che erano convinti di stabilire con precisione, attraverso i loro calcoli complicati, l'ora e il luogo della gloriosa manifestazione del Messia.
Gesù corregge queste varie attese e afferma solennemente che il Regno dei cieli è opera di Dio e non degli uomini. Entrambe le parabole, infatti, mettono in evidenza la inadeguatezza e l'assoluta irrilevanza degli strumenti umani, che Dio usa per realizzare il suo Regno.
La parola di Dio è come il seme, una volta entrata nel cuore non rimane senza effetto, ma germoglia e cresce anche quando tutto sembra spento e morto. Non dobbiamo mai dimenticare che è Dio che lo fa crescere, quando e come vuole.


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“Il Vangelo di oggi è formato da due parabole molto brevi: quella del seme che germoglia e cresce da solo, e quella del granello di senape. Attraverso queste immagini tratte dal mondo rurale, Gesù presenta l’efficacia della Parola di Dio e le esigenze del suo Regno, mostrando le ragioni della nostra speranza e del nostro impegno nella storia.
Nella prima parabola l’attenzione è posta sul fatto che il seme, gettato nella terra, attecchisce e si sviluppa da solo, sia che il contadino dorma sia che vegli. Egli è fiducioso nella potenza interna al seme stesso e nella fertilità del terreno.
Nel linguaggio evangelico, il seme è simbolo della Parola di Dio, la cui fecondità è richiamata da questa parabola. Come l’umile seme si sviluppa nella terra, così la Parola opera con la potenza di Dio nel cuore di chi la ascolta. Dio ha affidato la sua Parola alla nostra terra, cioè a ciascuno di noi con la nostra concreta umanità. Possiamo essere fiduciosi, perché la Parola di Dio è parola creatrice, destinata a diventare «il chicco pieno nella spiga».
Questa Parola, se viene accolta, porta certamente i suoi frutti, perché Dio stesso la fa germogliare e maturare attraverso vie che non sempre possiamo verificare e in un modo che noi non sappiamo. Tutto ciò ci fa capire che è sempre Dio, è sempre Dio a far crescere il suo Regno - per questo preghiamo tanto che “venga il tuo Regno” - è Lui che lo fa crescere, l’uomo è suo umile collaboratore, che contempla e gioisce dell’azione creatrice divina e ne attende con pazienza i frutti.
La Parola di Dio fa crescere, dà vita. E qui vorrei ricordarvi un’altra volta l’importanza di avere il Vangelo, la Bibbia, a portata di mano - il Vangelo piccolo nella borsa, in tasca - e di nutrirci ogni giorno con questa Parola viva di Dio: leggere ogni giorno un brano del Vangelo, un brano della Bibbia. Non dimenticare mai questo, per favore. Perché questa è la forza che fa germogliare in noi la vita del Regno di Dio.
La seconda parabola utilizza l’immagine del granello di senape. Pur essendo il più piccolo di tutti i semi, è pieno di vita e cresce fino a diventare «più grande di tutte le piante dell’orto». E così è il Regno di Dio: una realtà umanamente piccola e apparentemente irrilevante. Per entrare a farne parte bisogna essere poveri nel cuore; non confidare nelle proprie capacità, ma nella potenza dell’amore di Dio; non agire per essere importanti agli occhi del mondo, ma preziosi agli occhi di Dio, che predilige i semplici e gli umili. Quando viviamo così, attraverso di noi irrompe la forza di Cristo e trasforma ciò che è piccolo e modesto in una realtà che fa fermentare l’intera massa del mondo e della storia.
Da queste due parabole ci viene un insegnamento importante: il Regno di Dio richiede la nostra collaborazione, ma è soprattutto iniziativa e dono del Signore. La nostra debole opera, apparentemente piccola di fronte alla complessità dei problemi del mondo, se inserita in quella di Dio non ha paura delle difficoltà. La vittoria del Signore è sicura: il suo amore farà spuntare e farà crescere ogni seme di bene presente sulla terra. Questo ci apre alla fiducia e alla speranza, nonostante i drammi, le ingiustizie, le sofferenze che incontriamo. Il seme del bene e della pace germoglia e si sviluppa, perché lo fa maturare l’amore misericordioso di Dio.
La Vergine Santa, che ha accolto come «terra feconda» il seme della divina Parola, ci sostenga in questa speranza che non ci delude mai.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 14 giugno 2015

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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