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S.Messe (settimana)
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Henryk

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Le letture che la liturgia di questa domenica ci propone hanno come filo conduttore la chiamata, e questa iniziativa è sempre di Dio. Come nella precedente domenica del battesimo del Signore alle rive del Giordano, anche in questa domenica il protagonista è Giovanni il Battista, ma le sue parole profetiche puntano verso un’altra meta: Gesù Cristo, l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo.

Nella prima lettura, tratta dal libro di Samuele, viene raccontata la storia della chiamata di Samuele, quando era ancora un bambino. Samuele all’inizio confonde la voce di Dio con quella di Eli, che lo aiuta a discernere la parola di Dio e lo educa ad coltivare atteggiamenti consoni ad ascoltarla e obbedirle. L’esperienza di Dio è sempre personale, ma abbiamo tutti bisogno di qualcuno che ci accompagni e ci aiuti a comprenderla .

Nella seconda lettura, nella sua lettera ai corinzi, l’apostolo Paolo invita i cristiani di Corinto, città famosa per la corruzione, a riflettere sulla dignità del proprio corpo, destinato alla gloria della risurrezione.

L’evangelista Giovanni, nel brano del suo Vangelo ci parla della chiamata dei primi discepoli, che incontrano Gesù. Andrea e il “suo compagno” vivono un incontro personale con Gesù, espresso con l’immagine stupenda del dimorare con lui nella stessa casa. Anche Pietro vive l’esperienza personale dello sguardo di Gesù che posandosi su di lui lo trasforma fino a capovolgerne la vita. La vocazione divina è l’ora solenne e definitiva che tutto modifica e sconvolge, che tutto trasforma nell’esistenza del chiamato.

Dal primo libro di Samuèle
In quei giorni, Samuèle dormiva nel tempio del Signore, dove si trovava l’arca di Dio. Allora il Signore chiamò: «Samuèle!» ed egli rispose: «Eccomi», poi corse da Eli e gli disse: «Mi hai chiamato, eccomi!». Egli rispose: «Non ti ho chiamato, torna a dormire!». Tornò e si mise a dormire.
Ma il Signore chiamò di nuovo: «Samuèle!»; Samuèle si alzò e corse da Eli dicendo: «Mi hai chiamato, eccomi!». Ma quello rispose di nuovo: «Non ti ho chiamato, figlio mio, torna a dormire!». In realtà Samuèle fino allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore.
Il Signore tornò a chiamare: «Samuèle!» per la terza volta; questi si alzò nuovamente e corse da Eli dicendo: «Mi hai chiamato, eccomi!». Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovane. Eli disse a Samuèle: «Vattene a dormire e, se ti chiamerà, dirai: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”». Samuèle andò a dormire al suo posto.
Venne il Signore, stette accanto a lui e lo chiamò come le altre volte: «Samuèle, Samuèle!». Samuèle rispose subito: «Parla, perché il tuo servo ti ascolta».
Samuèle crebbe e il Signore fu con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole.
1Sam 3,3b-10.19

I due libri di Samuele sono due testi contenuti anche nella Bibbia ebraica dove sono contati come un testo unico e costituiscono, con i successivi due Libri dei Re, un'opera continua. Sono stati scritti in ebraico e secondo molti studiosi, la loro redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Sia i libri di Samuele che quelli dei Re hanno come unico progetto, quello di tratteggiare la vicenda storica di Israele dalla fine dell'epoca dei Giudici fino alla fine della monarchia con l'invasione babilonese di Nabucodonosor: un arco di tempo che comprende ben sei secoli.

Il primo libro di Samuele, descrive l'abbandono dell'ordinamento giuridico dei Giudici, con cui spesso le tribù si governavano in modo indipendente l'una dall'altra, e la nascita dell'ordinamento monarchico. Esso abbraccia un periodo di tempo che va dal XII secolo fino al 1010 a.C. circa, anno presunto della morte di Saul.
Questo brano ci riporta la chiamata di Samuele quando era ancora un ragazzo. Egli era nato da Elkana e Anna, una donna che era sterile, ma che aveva ottenuto da Dio un figlio, dopo tante preghiere e suppliche. Anna, fedele alla promessa, aveva consacrato Samuele, il figlio tanto atteso, al Signore e Lui, il Signore, ne fece uno strumento di grande bene.
All’inizio del capitolo 3, da dove è tratto questo brano, viene narrato che il giovane Samuele continuava a servire il Signore sotto la guida del sacerdote Eli, come aveva cominciato a fare fin dalla sua infanzia (V.2,21.26). Poi chi scrive fa notare che la “parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti”. Questa annotazione sta a significare che l’assenza di voci profetiche è segno di sventura, in quanto significa che il popolo si è allontanato dal suo Dio. “In quel tempo Eli stava riposando in casa, perché i suoi occhi cominciavano a indebolirsi e non riusciva più a vedere”.

Da questo momento inizia il brano liturgico:
Samuèle dormiva nel tempio del Signore, dove si trovava l’arca di Dio. La situazione è quindi in apparenza critica: il sacerdote, a cui spetta la guida del popolo, è vecchio e cadente, Dio non fa sentire la sua voce, mentre l’arca dell’alleanza è affidata a un fanciullo. Unico segno di speranza sta nel fatto che la lampada di Dio continua a brillare.
In una situazione così disperata “il Signore chiamò: «Samuèle!»” Questo fatto avviene precisamente nel tempio, dove si trova l’arca dell’alleanza e la lampada continua a splendere ed ha come destinatario proprio quel giovinetto riposava nel tempio del Signore, dove si trovava l’arca. Dio si rivolge a lui chiamandolo tre volte. Dopo la prima e la seconda volta Samuele, pensando che fosse Eli a chiamarlo, corre da lui e si mette volenterosamente a sua disposizione, ma Eli lo rimanda a riposare.

A questo punto il narratore spiega che “Samuèle fino allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore” Questo non vuol dire che Samuele non conoscesse le tradizioni di Israele che parlavano delle azioni potenti compiute dal Signore in favore del suo popolo. Samuele sicuramente le conosceva, ma non aveva avuto un’esperienza personale di Dio. La sua situazione ricorda quella di Giobbe, uomo integro e retto, che temeva Dio (Gb 1,1), ma dopo l’apparizione del Signore riconosce che prima lo conosceva solo per sentito dire (Gb 42,5).

Quando Samuele si precipita per la terza volta da Eli chiedendogli se lo avesse chiamato, il sacerdote si rende conto che è il Signore lo sta chiamando, perciò gli dice di tornare a dormire e gli suggerisce, se dovesse sentire nuovamente la voce che lo chiama, di rispondere: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”».. Anche se con ritardo, Eli si rende conto che la voce sentita da Samuele è la voce di Dio. Forse Eli nella sua giovinezza, aveva fatto un’esperienza personale di Dio: la vecchiaia e l’infedeltà al suo ruolo di guida nei confronti dei figli e, di riflesso, anche nei confronti di tutto il popolo, non gli impediscono di riconoscere l’intervento divino. Il fatto che Dio si rivolga a Samuele e non a lui non gli suscita gelosia, si rende conto che è naturale ed anche giusto che Dio si rivolga non a lui, che porta su di sé il segno della disapprovazione divina, ma a uno che, proprio perché sta già servendo Dio, sarà capace di ascoltare la Sua voce. Nei versetti successivi, non riportati nel brano liturgico, si racconta che Samuele fa come gli aveva suggerito Eli, e il Signore gli affida un messaggio per lui e tutta la sua casa. Dio non gli spiega dettagliatamente che cosa capiterà, ma si limita a confermargli che tutto ciò che era stato preannunziato si compirà al più presto, perché Eli ha visto ciò che i suoi figli compivano e non li ha puniti (vv. 12-14) Il riferimento è senza dubbio al brano precedente (2,27-36), in cui vengono preannunziate le sventure che colpiranno la famiglia di Eli. Chi scrive ha preferito anticipare questo messaggio in modo da suggerire che Dio ha lasciato a Eli il tempo di cambiare comportamento e si è mosso solo quando è apparso chiaro che non c’era più nulla da fare. Da ciò si capisce come mai Dio affermi che “non sarà mai espiata l’iniquità della casa di Eli né con i sacrifici né con le offerte! (3,13)

Al mattino Samuele inizia il suo servizio quotidiano al tempio. Ma Eli gli chiede che cosa gli ha detto Dio nella notte, presagendo che si tratta di cose dolorose, Eli lo incoraggia e al tempo stesso lo minaccia: se non parla, potranno capitare a lui cose peggiori di quelle che, probabilmente, riguardano soltanto Eli e la sua casa. A malincuore Samuele gli dice tutto e Eli risponde:”Egli è il Signore! Faccia ciò che a lui pare bene”. Questa risposta ricorda quella di Giobbe dopo essere stato colpito dalla prova: “Il Signore ha dato, il Signore a tolto, sia benedetto il nome del Signore”(Gb 1,21). Con questa frase egli rivela, questa volta senza ambiguità, di essere un vero uomo di Dio, anche se sconvolto dal peccato.
Il brano liturgico termina con questi versetti : "Samuèle crebbe e il Signore fu con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole”.
Per la sua chiamata Samuele appare come il vero capo carismatico del popolo e saprà svolgere non solo il ruolo profetico, ma anche quello di sacerdote e di giudice perché il suo cuore e la sua volontà erano una cosa sola con il Signore a cui aveva consacrato tutto se stesso.

Il ruolo di guida di Samuele subirà un cambiamento con la richiesta da parte del popolo di un re. Questo evento implicherà la divisione dei compiti, che però non metterà in crisi il carattere teocratico del governo di Israele; anche il re infatti sarà un rappresentante di Dio e dovrà continuamente interagire con figure profetiche che gli indicheranno la strada da percorrere per essere fedele al Signore.

Salmo 40 (39) Ecco, io vengo, Signore, per fare la tua volontà.

Ho sperato, ho sperato nel Signore,
ed egli su di me si è chinato,
ha dato ascolto al mio grido.
Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo,
una lode al nostro Dio.

Ho sperato, ho sperato nel Signore,
ed egli su di me si è chinato,
ha dato ascolto al mio grido.
Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo,
una lode al nostro Dio.

«Nel rotolo del libro su di me è scritto
di fare la tua volontà:
mio Dio, questo io desidero;
la tua legge è nel mio intimo».

Il salmo inizia con una lode a Dio per la liberazione da grandi difficoltà. E’ una lode piena di giubilo, di forza, di annuncio della bontà del Signore. Il salmista è giunto ad una grande intimità con Dio, e Dio gli ha posto “sulla bocca un canto nuovo”. Egli con uno sguardo lieto verso il futuro afferma che “molti vedranno e avranno timore e confideranno nel Signore”. Egli crede che tutta la terra conoscerà il tempo della pace.

Egli presenta la beatitudine dell’uomo che rimane col Signore e “e non si volge verso chi segue gli idoli”, di coloro che si credono autosufficienti e seguono così la menzogna. Il salmista nel suo giubilo ricorda le opere del Signore fatte a favore del suo popolo: “Quante meraviglie hai fatto, tu, Signore, mio Dio, quanti progetti in nostro favore”.
Egli afferma che il culto a Dio non è una semplice ritualità, ma deve scaturire dal cuore, da un vero amore a Dio, che si esprime nell’obbedienza alla sua parola. Egli ha capito - “gli orecchi mi hai aperto” - come il culto al tempio, senza l’obbedienza del cuore, disgusta Dio: “Sacrificio e offerta non gradisci”. “Gli orecchi mi hai aperto”, è traduzione che legge l’ebraico “karatta”, “forato”, come “aperto”. Questa lettura si collega a 1Samuele 9,15 e a Isaia 50,5 ed è stata promossa da autorevoli esegeti (Podechard e Dorme).
Ha capito perché ha ascoltato la Scrittura (Il rotolo del libro), e quindi ha obbedito alla Parola la quale lo ha illuminato sul vero culto da rendere a Dio. L’orecchio è organo dell’ascoltare, ma qui è pure simbolo dell’obbedire.

L’espressione “gli orecchi mi hai aperto”, si trova con versione diversa nella traduzione greca detta dei LXX : “un corpo invece mi hai preparato”. Questa versione è poi entrata nella lettera agli Ebrei (10,5), che dipende quanto a citazioni del Vecchio Testamento dalla traduzione dei LXX. La spiegazione di questa diversità va ricercata in una deficienza introdotta da un copista nel manoscritto, o più manoscritti di derivazione, a disposizione dei LXX, i quali dovettero superare l’incertezza letteraria con un pensiero teologico, affermando che nell’adorazione a Dio, nel vero culto a Dio, tutto l’uomo entra in gioco; il corpo deve essere sottomesso con decisa volontà ai comandamenti di Dio. I sacrifici, gli olocausti del tempio, sono un appello “al sacrificio, all’olocausto”, di dominio del proprio corpo. Sulla base di questo pensiero teologico i LXX fecero la loro traduzione; e questa è entrata nella lettera agli Ebrei riguardo l’Incarnazione.

Il salmista ha letto che nella Legge (Il rotolo del libro) è comandato di fare la volontà di Dio, che è amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze; dunque non un culto dove sia assente il cuore, dove il senso non sia dominato, dove non ci sia obbedienza alla Parola, e non amore verso i fratelli. Egli dice: “su di me è scritto”; poiché “Il rotolo del libro” non chiede solo l’adesione della collettività, ma innanzi tutto l’adesione personale.

Fare la volontà di Dio è il desiderio intimo del salmista.
Egli nel giubilo non si dimentica del dovere di annunciare agli altri quanto Dio ha fatto per lui: “Non ho celato il tuo amore e la tua fedeltà alla grande assemblea”.
E il suo giubilo scaturisce dall’umiltà; perciò non è euforia. Egli, umile, si dichiara colpevole davanti a Dio, e chiede a lui sostegno per sostenere e uscire dai mali che lo circondano: “La tua fedeltà e la tua grazia mi proteggano sempre, poiché mi circondano mali senza numero”.
Anche se “povero e bisognoso”, il salmista non dubita affatto che Dio ha cura di lui e perciò termina il salmo con un grande atto di fiducia: “Tu sei mio aiuto e mio liberatore: mio Dio, non tardare”
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, il corpo non è per l’impurità, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. Dio, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza. Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?
Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito. State lontani dall’impurità! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà all’impurità, pecca contro il proprio corpo. Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi. Infatti siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo!
1Cor 6,13b-15a, 17-20

Paolo scrisse la prima lettera ai Corinzi durante la sua permanenza ad Efeso negli anni 54-55. E’ una delle più lunghe scritte dall’apostolo, paragonabile a quella dei Romani, ambedue infatti sono suddivise in 16 capitoli. Paolo si era deciso a scriverla dopo aver ricevuto notizie sulla comunità da parte di conoscenti della famiglia di Cloe e dopo che gli era anche pervenuta una lettera dagli stessi Corinzi. Corinto era un’importante grande città, (famosa per il suo porto), centro di cultura greca, dove si affrontavano correnti di pensiero e di religione molto differenti tra loro. Il contatto della fede cristiana con questa capitale del paganesimo, anche celebre per il rilassamento dei costumi, poneva nei neofiti numerosi e delicati problemi. Pur essendo passati solo pochi anni dalla sua fondazione, la comunità di Corinto si era dimostrata molto vivace e nello stesso tempo anche molto problematica.
Nella lettera, dopo la lunga analisi al problema dei partiti a Corinto (1,10–4,21) Paolo affronta nei cc. 5-6 tre abusi che si erano verificati nella comunità: un caso di incesto (c. 5); l’appello ai tribunali civili (6,1-11); la fornicazione (6,12-20) il cui testo viene ripreso quasi integralmente dal brano liturgico.

Dopo una breve introduzione, non riportata dalla liturgia, Paolo pone le premesse della sua argomentazione che inizia riprendendo e confutando alcune affermazioni, che certamente circolavano a Corinto e venivano utilizzate da alcuni per giustificare il loro permissivismo sessuale. La prima era che :”Tutto mi è lecito”. che forse poteva essere ricavata dalla tesi paolina secondo cui il cristiano è liberato dalla legge (Gal 5,1; Rm 8,2-4), ma in realtà ha le sue radici nella mentalità e nella cultura greca in cui sussisteva l’idea che al saggio è permesso fare tutto ciò che vuole, perché lui solo sa che cosa è giusto, buono e vantaggioso (Dione Crisostomo, Orazioni 64,13-17). Che questo fosse il modo di pensare dei corinzi è confermato dal fatto che lo stesso slogan era utilizzato anche per giustificare la libertà di mangiare carni sacrificate agli idoli (v 10,23). Paolo lo cita qui due volte senza negarne la validità, ma ponendo delle forti riserve.

La prima volta egli osserva che “Tutto mi è lecito!”. Ma non tutto giova. “Tutto mi è lecito!”. Ma io non mi lascerò dominare da nulla. “(6,12) Di questo concetto, Paolo si serve anche altrove per sottolineare che non tutto ciò che in teoria è lecito fare, è utile per il bene della persona e per l’edificazione della comunità (v 7,35; 10,33; 12,7) perchè la libertà non significa rendersi schiavo nei confronti di qualsiasi realtà terrena. In queste brevi risposte c’è in embrione tutta la morale cristiana, la quale da una parte esclude il legalismo e dall’altra si oppone nettamente a ogni forma di libertinismo.

Un altro motto che presenta è: “I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi!” (v. 13a). Anche questo motto può essere stato una male interpretazione di ciò che sosteneva Paolo quando diceva che ogni cibo è puro (v. 1Cor 8,8; Rm 14,14). I corinzi invece lo avevano interpretato nel senso che i bisogni naturali del corpo, e tra questi anche quello sessuale, devono essere soddisfatti senza problemi; la sessualità era così ridotta ad una naturale funzione fisiologica, di conseguenza non era considerato biasimevole aver rapporti con qualsiasi persona.

Inizia qui il brano liturgico. Anzitutto l’Apostolo osserva : “il corpo non è per l’impurità, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo” ossia il corpo è stato creato da Dio non per “l’impurità” cioè in funzione di un piacere egoistico, ma “per il Signore”. Il corpo non è uno strumento da usare a proprio piacimento, ma è parte integrante della persona stessa, che le permette di entrare in rapporto con gli altri, e prima di tutto con “il Signore”, poi aggiunge: Dio, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza”.Tutto l’essere umano, e non solo la sua anima, come forse i corinzi erano portati a pensare (v 1Cor 15), parteciperà alla risurrezione di Cristo, ed è in questa prospettiva che la dimensione fisica dell’essere umano viene totalmente valorizzata.

La profonda solidarietà che lega il credente a Cristo l’Apostolo la presentata in questi termini: “Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?” L’idea che i corpi dei credenti, cioè tutta la loro personalità da cui non è separabile l’aspetto fisico, siano membra di Cristo è ispirata a Paolo sia dall’esperienza battesimale (v. 12,12-13.27), sia da quella eucaristica (v. 10,17).

Paolo fa poi questa affermazione: “Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito”.Con queste parole conclude l’argomento e prosegue poi con l’esortazione: “State lontani dall’impurità! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà all’impurità, pecca contro il proprio corpo”.
Questa affermazione si basa sul fatto che, mentre negli altri peccati il corpo è usato solo come strumento di azioni illecite, nella fornicazione è il corpo stesso, in quanto simboleggia tutta la persona, che viene direttamente coinvolto in un rapporto immorale.

Due ulteriori domande servono ad approfondire questo argomento: Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi. Il termine “tempio” indica la parte interna del santuario, dove era localizzata la presenza di Dio. La comunità era già stata presentata come tempio di Dio e dello Spirito santo; in modo analogo anche il singolo cristiano, proprio in forza del suo rapporto con Cristo e con la Chiesa, rappresenta il luogo in cui Dio abita. Lo Spirito è il dono di Dio e in forza dello Spirito che opera in loro, i credenti appartengono a Lui, e non più a se stessi.

L’accenno allo Spirito suscita un’ultima considerazione: siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo! Paolo usa qui il verbo “comprare” sicuramente come sinonimo di un altro verbo, che indica il riscatto (redenzione) e siccome il riscatto avviene mediante la morte di Cristo, si può dire che a Lui la salvezza dell’umanità è costata un “caro prezzo” il prezzo del suo sangue. I credenti di conseguenza devono glorificare Dio ”nei loro corpi”, vivendo cioè in un profondo rapporto con Dio che coinvolge tutta intera la loro persona.

Per concludere si può dire che la risposta di Paolo alle tendenze lassiste dei corinzi mette in luce una concezione della persona umana in forza della quale la dimensione spirituale e quella fisica formano un’unità inseparabile. Per Paolo il corpo del credente non è una realtà separata dal resto della persona perchè anche il corpo un giorno entrerà nel regno di Dio, ma già fin d’ora esso è unito, mediante l’eucaristia, al corpo di Cristo, e quindi porta con sé il germe della risurrezione. Il sesso fa parte delle attività profonde della persona, e deve essere subordinato al rapporto che, mediante il battesimo, si è instaurato con Cristo.

In questo campo Paolo dimostra di essere un uomo del suo tempo, legato a una certa cultura e a una particolare visione dell’uomo e del mondo. Ma al di là di questo bisogna però riconoscere che ha ragione quando indica nella sessualità uno dei campi più importanti in cui si vive la fedeltà al vangelo.

Dal vangelo secondo Giovanni :
In quel tempo Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù.
Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio.
Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.
Gv 1,35-42

Il Vangelo di Giovanni, ossia il quarto Vangelo, fu scritto in greco, ed è alquanto differente dai tre Vangeli sinottici che riportano racconti, miracoli, parole di Gesù fino a darcene un aspetto familiare che tutti conosciamo. Si presenta come il frutto della testimonianza del "discepolo che Gesù amava”, ma oggi molti studiosi fanno spesso riferimento ad una scuola giovannea nella quale sarebbe maturata la redazione del vangelo tra il 60 ed il 100 e delle lettere attribuite all'apostolo. E’ composto da 21 capitoli e come gli altri vangeli narra il ministero di Gesù. Anche se è notevolmente diverso dagli altri tre vangeli sinottici, sembra presupporre la conoscenza almeno del Vangelo di Marco, di cui riproduce talvolta espressioni particolari. Mentre i Vangeli sinottici sono più orientati sulla predicazione del Regno di Dio da parte di Gesù, il quarto vangelo approfondisce la questione dell'identità del Cristo, inserendo ampie parentesi teologiche.

Sin dal prologo l’Evangelista accenna alla testimonianza di Giovanni il Battista e all’esperienza fatta dai discepoli a contatto con Gesù. Descrive poi la testimonianza di Giovanni nel brano che segue immediatamente il prologo e subito dopo racconta l’esperienza dei primi tre discepoli che hanno incontrato Gesù.
All’inizio di questo brano l’evangelista riporta una nuova testimonianza di Giovanni in favore di Gesù. Questa seconda testimonianza, che ha luogo il giorno dopo, nello stesso posto, si distingue dalla precedente per alcuni dettagli. Mentre si suppone che la prima volta Giovanni parlasse alla folla di coloro che andavano a farsi battezzare, adesso Giovanni è solo con due discepoli. Gesù non va direttamente verso di lui, come era accaduto la volta precedente ma si trova, quasi casualmente, a passare di lì.

Giovanni lo “fissa intensamente” ! Questo sguardo fa pensare ad un sentimento particolarmente intenso nei confronti di Gesù e al tempo steso è un segnale rivolto ai discepoli.
Il brano inizia riferendo che Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio”. La testimonianza di Giovanni è veramente di poche parole: “Ecco l’agnello di Dio!”. Questa volta non si tratta più di spiegare chi è Gesù, ma di suggerire ai discepoli le conseguenze che devono trarre dalle indicazioni del maestro. In questa breve introduzione si vuole far comprendere che Giovanni non solo ha indicato Gesù alle folle, ma gli ha messo a disposizione i suoi discepoli.
I due discepoli di Giovanni, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Il verbo “seguire” è quello normalmente usato per indicare l’atteggiamento dei discepoli nei confronti del maestro. Il verbo all’aoristo indica una decisione definitiva, che i due non metteranno più in discussione. A prima vista sono loro che, indirizzati da Giovanni, prendono la decisione di mettersi al seguito di Gesù. Invece non è così: è Gesù che, quando si accorge che essi lo seguono, si rivolge a loro chiedendo: “Che cosa cercate?”. Essi sebbene lo seguano , danno l’impressione di essere ancora in cerca di qualcosa che non possiedono. È Gesù per primo che stabilisce con loro un rapporto personale. Alla domanda di Gesù rispondono con un’altra domanda: : “Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?”.

Essi dimostrano così di sapere che Gesù è il vero Maestro (e l’evangelista lo sottolinea dando il termine in ebraico e traducendolo poi in greco) e sanno che quanto cercano può essere dato solo da lui.
La risposta di Gesù è molto significativa: “Venite e vedrete”. E’ Gesù che li invita ad andare da lui affinché possano “vedere”. In queste due parole è contenuto il senso profondo della loro vocazione. L’evangelista conclude bruscamente il dialogo dicendo che i due “Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio”.

È strano che l’evangelista, che sembra conoscere i particolari che possono venire solo da un testimone oculare, non riporti quello che Gesù ha detto a quelli che saranno i suoi primi discepoli. Ciò non deve stupire: quella conversazione conteneva in germe tutto quello che egli riferirà nel seguito del suo vangelo. Ora però l’evangelista non sembra tanto interessato a quello che Gesù ha detto, ma al fatto che i due hanno fatto una profonda esperienza personale di Lui. La sequela sta precisamente nel rapporto che si instaura tra maestro e discepolo, in forza del quale il secondo si unisce al primo e fa proprie la sua mentalità e le sue scelte, fino a formare una cosa sola con lui.
Solo a questo punto l’evangelista rivela l’identità dei primi due discepoli che lo avevano seguito: Andrea, fratello di Simon Pietro. Del suo compagno non si dice il nome, ma è corretto pensare che fosse il discepolo a cui è attribuito il quarto vangelo: di lui infatti non si dice mai il nome, ma si sottolinea il rapporto privilegiato che aveva con Gesù (“Il discepolo che Gesù amava”) che la tradizione lo identificherà con l’apostolo Giovanni.

Andrea incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù.
La definizione di Gesù come “Messia” contiene già un’esplicita professione di fede. È strano che in così poco tempo il discepolo abbia scoperto l’identità profonda di Gesù. Secondo il vangelo di Marco (il più antico) la dignità messianica di Gesù è stata nascosta durante la Sua vita pubblica ed è stata rivelata solo nel processo davanti al sommo sacerdote (v. Mc 14,61).

Secondo il quarto vangelo invece Gesù la manifesta subito all’inizio e i suoi la riconoscono senza difficoltà.
Andrea conduce poi Simone da Gesù, che “ Fissando lo sguardo su di lui, …disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro”. Sia lo sguardo che il cambiamento di nome indicano dunque la vocazione di Pietro e sottolineano il fatto che, tra i discepoli, egli sarà un punto di riferimento a quella roccia che è Dio, rappresentato ora da Gesù, la sua Parola fatta carne.

E’ interessante notare che il gioco degli occhi, particolarmente importante nel Vangelo di Giovanni, percorre tutto il racconto ed è pieno di allusioni interiori e di rimandi spirituali. Il Battista “fissa lo sguardo su Gesù”, “Gesù si volta ed osserva”, i due che lo seguono “sono invitati a venire e vedere” ed essi “videro dove egli dimorava” e da ultimo Gesù “fissa lo sguardo su Pietro”, cambiandogli completamente l’esistenza. Non si tratta quindi di un semplice intrecciarsi di sguardi, è un dialogo profondo che porta alla pienezza dell’incontro e della vocazione. L’incontro con Dio sconvolge sempre i piani modesti che l’uomo ha progettato, travolge le resistenze e coinvolge la vita in un impegno gioioso e totale.

 

Domenica, 07 Gennaio 2018 17:06

Viva La Befana - 6 gennaio 2018

Corteo storico con l'imagine della Sacra Famiglia della nostra chiesa

 

Un altro filmato

Feraiuolo

Sabato, 06 Gennaio 2018 15:29

EPIFANIA DEL SIGNORE - 07 Gennaio 2018

1. Domenica prossima, 14 gennaio si celebrerà la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, per questo celebreremo la Santa Messa alle ore 11,30 insieme con la comunità filippina che ogni domenica celebra la Messa nella cappella della Casa Generalizia. Dopo la messa alla sala s. Giuseppe posiamo assaggiare un spuntino tipico delle Filippine.

2. Le Sante Messe quotidiane saranno celebrate alle ore 8.00 e 18,30.

3. Il 14 Gennaio  alle ore 17,00 vi invitiamo al spettacolo TOTO' a prescindere al nostro teatro sotto la chiesa.

 

Con questa domenica, in cui si conclude il tempo di Natale, la Chiesa celebra il Battesimo del Signore invitandoci a fare memoria del nostro Battesimo. Dopo trent’anni di vita nascosta, Gesù prende un’iniziativa impensabile: giunge al fiume Giordano, si unisce alle folle desiderose di perdono, e riceve anche Lui il Battesimo amministrato da Giovanni.

Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia, Dio offre la nuova alleanza al suo popolo, invita tutti a rendersi depositari delle promesse, ma esige però che il ritorno dall’esilio sia segno di una vera ricerca del perdono.

Nella seconda lettura, tratta dalla prima lettera di S.Giovanni, l’apostolo afferma che grazie all’acqua del battesimo e allo Spirito Santo rinasciamo alla fede e all’amore di Dio, che sono la base dell’amore verso i fratelli e per la vittoria sul male presente nel mondo.

Il Vangelo di Marco ci racconta del battesimo di Gesù sulle rive del Giordano. Il cuore del suo racconto è nella solenne proclamazione divina: “«Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» che costruisce quasi un dialogo diretto tra il Padre e il Figlio Gesù.
Con oggi celebriamo la grande svolta della vita di ogni credente, ma anche di quella dell’intera umanità perchè in Cristo, “Figlio di Dio”, lo Spirito di Dio è effuso su tutti gli uomini.

Dal libro del profeta Isaia
Così dice il Signore: «O voi tutti assetati, venite all’acqua,
voi che non avete denaro, venite; comprate e mangiate;
venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte.
Perché spendete denaro per ciò che non è pane,
il vostro guadagno per ciò che non sazia?
Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti.
Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete.
Io stabilirò per voi un’alleanza eterna, i favori assicurati a Davide.
Ecco, l’ho costituito testimone fra i popoli, principe e sovrano sulle nazioni.
Ecco, tu chiamerai gente che non conoscevi;
accorreranno a te nazioni che non ti conoscevano
a causa del Signore, tuo Dio,
del Santo d’Israele, che ti onora.
Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino.
L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri;
ritorni al Signore che avrà misericordia di lui
e al nostro Dio che largamente perdona.
Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri,
le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore.
Quanto il cielo sovrasta la terra,
tanto le mie vie sovrastano le vostre vie,
i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.
Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo
e non vi ritornano senza avere irrigato la terra,
senza averla fecondata e fatta germogliare,
perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia,
così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca:
non ritornerà a me senza effetto,
senza aver operato ciò che desidero
e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata».
Is 55,1-11

Questo brano fa parte dei testi (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “deutero Isaia ”. Forse era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che, dalla sue profezie prendono speranza. La sua predicazione si colloca, infatti, tra il 550 e il 539 a.C., anni in cui cresce e si afferma sulla scena la potenza persiana, grazie a Ciro il Grande che, dopo una serie di campagne militari tese a consolidare il proprio potere all'interno, ne consegue una grande vittoria su Babilonia (539 a.C. ). Israele vede così la fine dell'esilio e della diaspora in cui si trovava dal 587.

Il brano si apre con un invito: “O voi tutti assetati, venite all’acqua,voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte”. Acqua, vino e latte sono simboli del dono della salvezza , che si è concretizzato specialmente nel cammino dell’esodo. L'invito a mangiare rievoca i temi biblici della Pasqua (Es 12,1-14), della manna (Es 16; Nm 11), del banchetto ai piedi del Sinai, tramite il quale è stata conclusa l’alleanza (24,5.11; Sal 23,5) e infine il banchetto escatologico (Is 25,6-9).
Nel versetto successivo il profeta chiede: “Perché spendete denaro per ciò che non è pane,il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti”.

Con la domanda il profeta allude forse alle preoccupazioni di alcuni esuli, i quali subordinavano la ricerca del pane, dono di Dio e simbolo dell’alleanza, al possesso di beni materiali con cui garantire la propria sicurezza sia nella terra d’esilio che in quella in cui stanno per ritornare. Perciò il profeta ripete la sua esortazione, e l’invito ad “ascoltare” .
Una terza volta l’invito viene ripetuto: “Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete”.

L’ascolto della parola di Dio pronunziata dal profeta ha lo scopo di unire gli esuli per farne un popolo e di garantire loro la vera vita che si attua pienamente nel rapporto con Dio.
Infine il profeta fa una promessa: “Io stabilirò per voi un’alleanza eterna, i favori assicurati a Davide.” L’alleanza escatologica era stata preannunziata dai profeti nell’imminenza dell’esilio. Geremia aveva parlato di una “nuova alleanza”, che avrebbe comportato, come caratteristica, l’incisione della legge sul cuore del popolo (Ger 31,31-33) ed anche di una “alleanza eterna” (Ger 33,40). Il profeta fa riferimento alla promessa fatta a Davide mediante il profeta Natan (2Sm 7,12-16), con la quale Dio si impegnava a mantenere la dinastia davidica sul trono di Gerusalemme, ma qui il profeta non prevede la restaurazione della dinastia davidica, ma l’attuazione dell'alleanza conclusa con David in favore di tutto il popolo. e in questo modo tutto Israele diventa beneficiario dei doni promessi.

E infatti è tutto il popolo che viene “costituito testimone fra i popoli,principe e sovrano sulle nazioni”
e chiamerà gente che non conosceva, “accorreranno a te nazioni che non ti conoscevano a causa del Signore, tuo Dio,del Santo d’Israele, che ti onora.”
La seconda parte del brano inizia con queste parole: Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. Il concetto di “cercare” Dio nasce dalla consuetudine diffusa in tutte le religioni di visitare il santuario di una divinità per poterla incontrare nella statua che la rappresenta e ottenere da essa doni e grazie. Anche in Israele c’era la consuetudine di far visita al santuario per richiedere un responso per mezzo di un oracolo (Dt 17,9). L’esigenza di cercare Dio comporta quindi un impegno preciso:”L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona”.

Il termine “empio” o “iniquo” indica colui che non si preoccupa di compiere il volere di Dio nella sua vita quotidiana. In questo contesto riguarda quei giudei che si erano stabiliti nella terra d’esilio integrandosi nella società in cui si trovavano senza più pensare alla possibilità di un ritorno nella loro terra. “L’empio e l’iniquo” sono quindi invitati ad abbandonare rispettivamente la loro via e i loro pensieri. Per ritornare al Signore è indispensabile mutare la mentalità, il cuore delle persone- Il verbo “ritornare” qui indica la “conversione”, che consiste in un cambiamento di rotta per ritornare sul proprio cammino e incontrare nuovamente il Signore. Per colui che è andato fuori strada non è facile convertirsi, soprattutto se ha di Dio un’immagine distorta, vendicativa e crudele. Perciò il profeta sottolinea che il Signore avrà misericordia di lui perchè è un Dio misericordioso e disponibile al perdono.

Per cogliere fino in fondo la misericordia infinita di Dio bisogna superare la tendenza spontanea a immaginare Dio con categorie umane, e questo è un problema di ogni pratica religiosa e il profeta lo affronta in questi termini:
“Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri,le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri”

Anche Dio ha i Suoi pensieri e le Sue vie, che sono totalmente diversi da quelli dell’uomo. I pensieri di Dio sono i Suoi progetti in favore dell’universo e dell’uomo e le Sue vie sono i Suoi interventi nella storia. Ciò che Dio pensa e per cui agisce è solo la salvezza del Suo popolo e in prospettiva di tutta l’umanità. I pensieri e le vie di Dio non solo sono diversi, ma “sovrastano” quelli dell’uomo, sono più alti di essi come è più alto il cielo rispetto alla terra. I piani di Dio sono quindi sconosciuti all’uomo, e questo non solo perché Dio è un Dio misterioso (Is 45,15), ma anche e soprattutto perché l’uomo è rivolto alle cose terrene che gli interessano, mentre Dio cerca il vero bene di tutti.

Infine il profeta mette in luce l’efficacia della parola di Dio, cioè del Suo operare nella storia e lo fa ricorrendo a due termini: “Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra,senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia,”
In questa descrizione, ricavata dall’esperienza agricola, quello su cui si fa leva è l’efficacia dell’acqua che, sotto forma di pioggia o di neve, non scende mai sulla terra senza fecondarla, facendole produrre il frumento che l’agricoltore utilizzerà sia come seme sia per la semina dell’anno successivo, sia per fare il pane che serve al nutrimento della sua famiglia.

Il secondo termine è così raffigurato: così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca:non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata,
La parola divina avrà dunque la stessa efficacia dell’acqua che scende sui campi: una volta che è pronunziata essa non può rimanere senza effetto, cioè senza attuare la volontà divina in essa formulata.
Il profeta presenta Dio come Colui che è immensamente superiore all’uomo, che ha pensieri e comportamenti totalmente opposti ai suoi, ma nello stesso tempo come Colui che è vicino e si lascia trovare dall’uomo.

In forza della Sua trascendenza, Dio non può essere definito, perché inevitabilmente sarebbe ridotto a categorie umane, di Lui si può dire con più sicurezza quello che non è che non quello che è. Tutto quanto si dice di Lui non può essere che una metafora, un’analogia totalmente inadeguata al Suo vero essere. Tuttavia questo Dio inaccessibile si fa vicino all’uomo e gli parla attraverso gli eventi della storia, interpretati dai Suoi profeti che sanno leggere i segni dei tempi e indicare la strada da percorrere. La Sua Parola è luce e guida per tutto il popolo, specialmente nei momenti più critici.

 

 

 

Dalla prima letterta di S.Giovanni apostolo
Carissimi, chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato. In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti. In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi. Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede.
E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità. Poiché tre sono quelli che danno testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono concordi. Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è superiore: e questa è la testimonianza di Dio, che egli ha dato riguardo al proprio Figlio.
1Gv 5,1-9
La Prima lettera di Giovanni è considerata la quarta delle cosiddette “lettere cattoliche”. Il contenuto, la terminologia e lo stile della lettera presentano delle evidenti affinità con il Vangelo secondo Giovanni, per cui alcuni studiosi moderni ritengono che l'autore della Prima lettera e del "quarto vangelo“, siano la stessa persona. La lettera nella sua stesura finale potrebbe essere stata scritta verso la fine del 1^secolo probabilmente ad Efeso. I destinatari della lettera sono i pagani delle comunità dell'Asia Minore che si sono convertiti al Cristianesimo. Nella lettera l'autore si sofferma molto sul modo in cui si manifesta la comunione con Dio e come sia possibile rimanervi per sempre.
Questo brano è tratto dalla parte finale della lettera e come tutti i finali è un po’ riassuntivo e sottolinea le caratteristiche di colui che ama Dio ed è in comunione con Lui. E' stato scelto per questa festa del battesimo di Gesù poiché parla della sua venuta con acqua, sangue e Spirito, tre elementi che ritornano nel racconto del battesimo e nell'esperienza di donazione di Cristo stesso.

Carissimi, chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio;e chi ama colui che ha generato,ama anche chi da lui è stato generato.
Chiunque crede in Gesù figlio di Dio, diviene a sua volta figlio di Dio. In forza di questa adozione diviene anche un fratello nei confronti di tutti coloro che amano Dio, perché non si può pretendere di amare Dio senza amare coloro di cui Egli è Padre.
In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti.
Possiamo dire perciò di amare veramente i fratelli se amiamo Dio e osserviamo i comandamenti. C’è uno stretto legame tra la dimensione orizzontale (verso i fratelli) e quella verticale (verso Dio) dell'amore.

In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti;e i suoi comandamenti non sono gravosi.
Nell’osservare i comandamenti di Dio si distingue ogni vero credente. I fedeli di Giovanni devono crescere in questa osservanza, in questa fede operativa. Egli li rassicura ricordando loro che i comandamenti di Dio non sono troppo pesanti da osservare.
Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo;e questa è la vittoria che ha vinto il mondo:
la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?
Per “mondo” qui si intendono i falsi profeti che avevano diffuso dottrine erronee facendo deviare alcuni cristiani della comunità a cui è rivolta questa lettera. In virtù della loro fede essi hanno potuto vincere i falsi profeti e le loro false dottrine.
E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?
Questa vittoria è assicurata a quanti credono che Gesù è Figlio di Dio, quindi capace di donare la salvezza.
Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo;non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. L'acqua ricorda il battesimo di Gesù e il sangue la Sua morte sulla croce, ma rammenta anche l'acqua e il sangue sgorgati dal costato di Gesù a seguito del colpo di lancia del soldato (Gv 19,34). Essi sono anche segno dei sacramenti della Chiesa.

Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità.
Riguardo alla testimonianza interiore dello Spirito, essa consiste nel manifestare al credente il suo potere salvifico, la verità dei fatti qui ricordati, e condurlo alla conoscenza di Gesù Cristo. Lo Spirito è la verità perché noi sappiamo che proprio dallo Spirito è resa presente e attiva nella Chiesa la verità portata da Gesù.
Poiché tre sono quelli che danno testimonianza:lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono concordi. Gesù è venuto con il sangue e l’acqua nel passato; ora il sangue, l'acqua e lo Spirito danno una testimonianza duratura nella vita della Chiesa. Si possono interpretare anche come il simbolo del battesimo (acqua) e dell'Eucaristia (sangue). Nel diritto ebraico erano necessari due testimoni perché la loro deposizione fosse ritenuta valida, qui ce ne sono tre, che portano ad un’unica testimonianza.
Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è superiore: e questa è la testimonianza di Dio, che egli ha dato riguardo al proprio Figlio.
La nostra fede ha delle basi incrollabili. Non solo si fonda sulla testimonianza degli uomini e delle donne che ci hanno trasmesso la fede e l'hanno vissuta fino in fondo, ma si basa su una testimonianza di Dio, che è di gran lunga superiore. Dio Padre ha testimoniato riguardo al Figlio. Questa testimonianza anzitutto è quella della risurrezione, però ci sono vari esempi all'interno del Vangelo, in cui Dio Padre dichiara Gesù il Suo figlio amato. Una di queste dichiarazioni è quella che è avvenuta al Giordano dopo il battesimo e di cui ci parla anche il Vangelo di Marco.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».
Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
Mc 1, 7-11

Il tempo di Natale si chiude col Battesimo del Signore, ma in realtà, nella storia di Gesù di Nazareth, il tempo che passa tra la Sua nascita e il battesimo nel Giordano è di circa 30 anni e di questi decenni poco dicono i Vangeli e poco la tradizione.
Col Battesimo inizia la "vita pubblica" di Gesù per le strade di Palestina fino a quel triduo di Pasqua, presumibilmente all'inizio di aprile dell'anno 30. I tre vangeli sinottici hanno in comune la narrazione del battesimo di Gesù, ma ogni evangelista legge la solenne scena di apertura del mistero pubblico di Gesù da una prospettiva diversa cogliendo aspetti particolari.

Il vangelo di Marco si apre con una introduzione in cui l’evangelista, dopo aver dato alcune notizie riguardati Giovanni il Battista, racconta brevemente il Battesimo di Gesù.
Il brano inizia presentando il Battista e ciò che lui proclama: Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali
L’attività del Battista viene qui definita come un annunzio fatto da un araldo. Marco non riporta la sua predicazione penitenziale (riferita da Matteo e Luca), ma si limita a riportare il suo annunzio messianico, di fronte al quale tutto il resto scompare. Il Battista parla di uno che viene “dopo” di lui, e lo descrive come “più forte”di lui. Nei confronti di colui che viene, il Battista assume un atteggiamento di grandissimo rispetto e sottomissione, ritenendosi addirittura indegno di sciogliere i legacci dei suoi sandali (questo gesto esprime l'umile servizio degli schiavi, considerato così degradante che il padrone non poteva pretenderlo da schiavi ebrei). Giovanni aggiunge poi: “Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo”. Egli presenta la sua attività di battezzatore come una parentesi che sta per essere conclusa In questa affermazione si può trovare un richiamo alla fede cristiana, che considera il battesimo di Giovanni come una pratica che appartiene ormai al passato, mentre è in uso il battesimo amministrato nello Spirito santo (v. 1Cor 12,13). Comunque nella frase attribuita al Battista si vuol dire che, mentre egli amministrava un battesimo solo di acqua, cioè prefigurativo, il vero battesimo, amministrato nel nome di Gesù (il più forte) avrebbe comportato il dono pieno dello Spirito (senza però escludere l’impiego dell’acqua).

L’arrivo di Gesù viene descritta da Marco con poche e concise parole: “Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni”.
L’indicazione del tempo “in quei giorni” è alquanto vaga e il verbo “venne” si richiama chiaramente al più forte di cui il Battista ha annunziato la venuta . Qui si viene a sapere per la prima volta che Gesù è originario di un paesino della Galilea chiamato Nazareth. La Galilea, una regione abitata in gran parte da pagani, veniva considerata dai giudei poco importante dal punto di vista della salvezza (v. Gv 7,42.52); ed anche il villaggio di Nazareth era considerato ancora meno (Gv 1,46) infatti non è stato mai
menzionato nell’AT. Sembrerebbe che Gesù sia stato l’unico della Galilea ad andare da Giovanni, con l’unico scopo di ricevere il battesimo, nel racconto di Marco tra l’altro non si dice nulla del rapporto di parentela di Gesù con il Battista.

Marco si limita solo a dire che egli “fu battezzato” nel Giordano da Giovanni e descrive il seguito dell’evento con queste parole: “E, subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba.”
Marco pone l’accento non sul battesimo di Gesù, ma sul fatto che in concomitanza con esso egli ha avuto una profonda esperienza interiore, e diversamente da quanto riportano gli altri evangelisti, la scena non è stata vista dai presenti. L’immagine dei cieli aperti è tipica della letteratura apocalittica (Is 63,19; Gv 1,51; At 7,56; Ap 4,1) e sta ad indicare la ripresa dei contatti diretti tra Dio e l’umanità, interrotti dal peccato, e quindi l’inizio degli ultimi tempi. L’apertura dei cieli consente a Gesù di vedere “lo Spirito discendere verso di lui”. La venuta dello Spirito, caratteristica anch’essa degli ultimi tempi (Ez 36,26-27), ha lo scopo di consacrare Gesù come il mediatore finale della salvezza, sia sulla linea messianica (v. Is 11,2), sia su quella profetica, per questo i primi cristiani hanno interpretato la discesa dello Spirito su Gesù come una “unzione” messianica (v. At 10,38).
Lo Spirito discende su Gesù “come una colomba”… non è facile spiegare come mai lo Spirito sia stato raffigurato come una colomba. Forse sullo sfondo vi è la concezione rabbinica, secondo la quale lo Spirito di Dio all’inizio della creazione aleggiava sulle acque (v. Gen 1,2) come fa una colomba con i suoi piccoli: in questo caso la discesa dello Spirito su Gesù sarebbe presentata come un segno della nuova creazione da Lui inaugurata. Ma è più probabile che lo Spirito sia raffigurato come una colomba anzitutto perché questa era simbolo di Israele in quanto popolo eletto.

Lo Spirito dunque assume la forma di colomba per indicare che viene conferita a Gesù la missione di portare a termine il raduno escatologico del popolo di Dio. Nello stesso modo lo Spirito assumerà a Pentecoste l’aspetto di lingue di fuoco (v At 2,3), in quanto dovrà guidare e sostenere gli apostoli nell’annunzio della salvezza.
Insieme alla visione dello Spirito si fa sentire dal cielo una voce che proclama: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”, e questa “voce” è senza alcun dubbio quella di Dio.

Per concludere si può dire che nell’espressione “Tu sei il Figlio mio, l’amato” possiamo scoprire la Verità che dobbiamo continuamente ricercare nella nostra esistenza: noi siamo generati nell’amore eterno, un amore così grande che l’uomo non comprenderà mai appieno su questa terra.
Innamorarci di Gesù è il senso stesso della nostra ricerca; l’innamoramento di Gesù è qualcosa che va al di là del tempo e dello spazio, è quell’innamoramento che ci fa esistere, che ci rende persone “libere” davanti agli eventi storici E’ con Lui e in Lui che con gioia e fiducia possiamo risentire rivolto ad ognuno di noi, “Tu sei il Figlio mio, l’amato! Perché è in Gesù che la nostra ricerca di senso della vita ritrova il suo compimento.

 

Le parole di Papa Francesco
Oggi celebriamo la festa del Battesimo del Signore, che conclude il tempo di Natale. Il Vangelo descrive ciò che avvenne sulla riva del Giordano. Nel momento in cui Giovanni Battista conferisce il battesimo a Gesù, il cielo si apre. «Subito – dice san Marco – uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli». Torna alla mente la drammatica supplica del profeta Isaia: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (Is 63,19). Questa invocazione è stata esaudita nell’evento del Battesimo di Gesù. È così finito il tempo dei "cieli chiusi", che stanno ad indicare la separazione tra Dio e l’uomo, conseguenza del peccato. Il peccato ci allontana da Dio e interrompe il legame tra la terra e il cielo, determinando così la nostra miseria e il fallimento della nostra vita. I cieli aperti indicano che Dio ha donato la sua grazia perché la terra dia il suo frutto (cfr Sal 85,13). Così la terra è diventata la dimora di Dio fra gli uomini e ciascuno di noi ha la possibilità di incontrare il Figlio di Dio, sperimentandone tutto l’amore e l’infinita misericordia.

Lo possiamo incontrare realmente presente nei Sacramenti, specialmente nell’Eucaristia. Lo possiamo riconoscere nel volto dei nostri fratelli, in particolare nei poveri, nei malati, nei carcerati, nei profughi: essi sono carne viva del Cristo sofferente e immagine visibile del Dio invisibile.
Con il Battesimo di Gesù non solo si squarciano i cieli, ma Dio parla nuovamente facendo risuonare la sua voce: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento». La voce del Padre proclama il mistero che si nasconde nell’Uomo battezzato dal Precursore.
E poi la discesa dello Spirito Santo, in forma di colomba: questo consente al Cristo, il Consacrato del Signore, di inaugurare la sua missione, che è la nostra salvezza. Lo Spirito Santo: il grande dimenticato nelle nostre preghiere. Noi spesso preghiamo Gesù; preghiamo il Padre, specialmente nel "Padre Nostro"; ma non tanto frequentemente preghiamo lo Spirito Santo, è vero? E’ il dimenticato. E abbiamo bisogno di chiedere il suo aiuto, la sua fortezza, la sua ispirazione.

Lo Spirito Santo che ha animato interamente la vita e il ministero di Gesù, è il medesimo Spirito che oggi guida l’esistenza cristiana, l’esistenza di uomo e di una donna che si dicono e vogliono essere cristiani.
Porre sotto l’azione dello Spirito Santo la nostra vita di cristiani e la missione, che tutti abbiamo ricevuto in virtù del Battesimo, significa ritrovare coraggio apostolico necessario per superare facili accomodamenti mondani.
Invece, un cristiano e una comunità "sordi" alla voce dello Spirito Santo, che spinge a portare il Vangelo agli estremi confini della terra e della società, diventano anche un cristiano e una comunità "muti" che non parlano e non evangelizzano.

Ma ricordatevi questo: pregare spesso lo Spirito Santo perché ci aiuti, ci dia la forza, ci dia l’ispirazione e ci faccia andare avanti.

Maria, Madre di Dio e della Chiesa, accompagni il cammino di tutti noi battezzati; ci aiuti a crescere nell’amore verso Dio e nella gioia di servire il Vangelo, per dare così senso pieno alla nostra vita.
Papa Francesco
Angelus dell’11 gennaio 2015

 

Venerdì, 05 Gennaio 2018 11:57

Epifania del Signore – 6 gennaio 2018

 

Nel giorno dell’Epifania, o manifestazione del Signore, la Chiesa continua a contemplare il mistero della nascita di Gesù. Se a Natale, Dio ha vissuto il Suo pellegrinaggio, venendo ad abitare in mezzo a noi, nell’Epifania assistiamo al movimento corrispondete: gli uomini attratti dalla rivelazione del Suo mistero, si dirigono verso di Lui.

Nella prima lettura il profeta Isaia profetizza il giorno in cui “cammineranno le genti alla tua luce”. E’ un invito gioioso anche per noi. E’ il Signore che ci invita a lasciarci rivestire dalla volontà di bene che sprigiona la nascita del Suo Messia.

Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Efesini, San Paolo afferma che tutte le genti sono chiamati “in Cristo Gesù” a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo..

Nel Vangelo, Matteo ci parla dei Magi che si lasciano guidare dalla stella cometa dall’Oriente verso Betlemme. I magi sono il simbolo del mondo che va in cerca di Dio, è la festa della scienza che si fa guidare dalla stella della fede. E’ la festa della manifestazione della gloria di Dio che si rivela nell’umiltà, in un bambino appena nato. E’ sorprendente come questi uomini sapienti, non rimasero delusi quando videro il bambino; l’evangelista Matteo infatti dice “Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono …” La scienza quando è illuminata dalla fede può raggiungere mete ancora più alte di quelle umanamente sperate.

Dal libro del profeta Isaìa
Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce,
la gloria del Signore brilla sopra di te.
Poiché, ecco, la tenebra ricopre la terra,
nebbia fitta avvolge i popoli;
ma su di te risplende il Signore,
la sua gloria appare su di te.
Cammineranno le genti alla tua luce,
i re allo splendore del tuo sorgere.
Alza gli occhi intorno e guarda:
tutti costoro si sono radunati, vengono a te.
I tuoi figli vengono da lontano,
le tue figlie sono portate in braccio.
Allora guarderai e sarai raggiante,
palpiterà e si dilaterà il tuo cuore,
perché l’abbondanza del mare si riverserà su di te,
verrà a te la ricchezza delle genti.
Uno stuolo di cammelli ti invaderà,
dromedari di Màdian e di Efa,
tutti verranno da Saba, portando oro e incenso
e proclamando le glorie del Signore.
Is 60,1-6

La terza parte del libro di Isaia (capitoli 56-66), chiamata comunemente Terzo (o Trito) Isaia, il profeta della situazione successiva al ritorno dall'esilio, dopo l’editto di Ciro (538 a.C), contiene una raccolta di oracoli che si differenziano da quelli che compongono non solo la prima, ma anche la seconda parte del libro. In essi infatti il profeta si rivolge non più agli esiliati, ma ai giudei ritornati da Babilonia a Gerusalemme; il suo maggiore interesse non è più il nuovo esodo, ma il ristabilimento delle istituzioni teocratiche, le quali sono minacciate non da influenze esterne, ma dalla infedeltà del popolo. I temi principali trattati sono l’universalismo della salvezza (56,1-9), la fedeltà al Signore (56,10-59,21), la rinascita di Gerusalemme (cc. 60-62), prospettive escatologiche (cc. 63-66).

I capitoli dal 60 al 62, da dove è tratto questo brano liturgico, contengono tre poemi riguardanti la gloria futura di Gerusalemme, al centro dei quali si trova un brano che narra la vocazione di un profeta che ha tratti molto simili a quelli del Servo di JHWH del Deuteroisaia.
Il brano che abbiamo si i apre con due imperativi:
“Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché, ecco, la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te”.
La luce, associata al concetto di gloria, è simbolo della presenza di Dio che aveva posto la Sua dimora nel tempio fatto costruire da Salomone in Gerusalemme. Quando però il peccato degli abitanti di Giuda era giunto al culmine, la gloria di Dio aveva abbandonato il tempio e la stessa città di Gerusalemme, ma aveva seguito gli esuli per stare accanto a loro in Mesopotamia (v. Ez 10,18-22; 11,22-25). In seguito all’editto di Ciro è Dio stesso che si mette a capo degli esuli e li riconduce nella terra promessa (Is 40,1-5). Ora la gloria del Signore è ritornata nella città santa, la quale perciò si riempie di luce. La luminosità della città santa provoca un contrasto stridente con tutte le altre regioni della terra, nelle quali invece dominano le tenebre.

Questa nuova situazione pone le premesse del movimento che viene descritto in questi termini: Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere. Alza gli occhi intorno e guarda:tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio.
Coloro che si muovono attratti dalla luce che risplende a Gerusalemme sono anzitutto gli appartenenti a nazioni lontane, i quali giungono accompagnate dai loro re. Con questi stranieri vi sono anche i giudei dispersi tra di loro, i quali sono portati in braccio, quasi a indicare la stima e la protezione che le nazioni hanno verso di essi.
La descrizione qui riportata è ricavata dal pellegrinaggio annuale che tutti gli israeliti dovevano fare al santuario centrale, portando al Signore loro doni. Ora però coloro che salgono in pellegrinaggio a Gerusalemme non sono più i giudei, ma le popolazioni straniere che portano con sé i giudei residenti in mezzo ad esse, quasi come un’offerta al Signore.
Portano anche i loro doni come oro e incenso, ossia un metallo prezioso e una pregiata resina, entrambi utilizzati per la costruzione del tempio e per l’esercizio del culto. Il tema del pellegrinaggio dei popoli al monte Sion era già stato menzionato all’inizio del libro di Isaia ( Is 2,2-5), e qui è ripreso e ampliato per incoraggiare i giudei che stavano ricostruendo Gerusalemme: Dio ha grandi progetti sulla città, alla quale darà una luce tale da illuminare e attrarre tutti i popoli. Il trionfo di Gerusalemme sarà anche il trionfo del popolo eletto, che dominerà su tutte le nazioni.

Il profeta prosegue affermando che tutte queste nazioni esprimeranno la loro fede nel Signore mettendosi al servizio del popolo giudaico e ricostruendo le mura della città, mentre altri nuovi popoli giungeranno portando i loro doni.
La glorificazione di Gerusalemme è presentata dal Terzo Isaia come un fenomeno escatologico che mette in luce la vittoria di Dio contro le potenze del male che dominano in questo mondo. Nonostante la Sua apparente sconfitta, Dio è il vincitore, e ciò apparirà chiaramente alla fine della storia. Allora Dio creerà un mondo nuovo, nel quale prevarranno la giustizia e la pace. Di ciò beneficeranno non solo gli israeliti, ma tutte le nazioni della terra: il progetto di Dio infatti è universale e riguarda tutti gli uomini, nessuno escluso.

C’è da riconoscere che questa riflessione doveva essere alquanto importante in un periodo in cui le forze dell’intolleranza e settarismo erano sempre in agguato.
La prospettiva escatologica di questa profezia non deve condurci però ad una fuga della realtà di oggi. Quello che Dio un giorno farà deve diventare il punto di riferimento, la meta a cui tendere giorno per giorno sia sul piano individuale che su quello sociale. Per gli israeliti è soprattutto importante sottolineare il ruolo storicamente assegnato da Dio al Suo popolo. La luce che un giorno brillerà nella città santa deve essere anticipata mediante un’esistenza conforme alla volontà di Dio e la venuta delle nazioni non deve rappresentare un privilegio di cui ci si possa vantare, ma piuttosto fa parte di una visione migliore del mondo che deve essere tenuta viva anche a costo di grossi sacrifici, sapendo che essa un giorno è destinata a prevalere.

Salmo 72 (71) Ti adoreranno, Signore, tutti i popoli della terra.
Dio, affida al re il tuo diritto,
al figlio di re la tua giustizia;
egli giudichi il tuo popolo secondo giustizia
e i tuoi poveri secondo il diritto.

Nei suoi giorni fiorisca il giusto
e abbondi la pace,
finché non si spenga la luna.
E domini da mare a mare,
dal fiume sino ai confini della terra.

I re di Tarsis e delle isole portino tributi,
i re di Saba e di Seba offrano doni.
Tutti i re si prostrino a lui,
lo servano tutte le genti.

Perché egli libererà il misero che invoca
e il povero che non trova aiuto.
Abbia pietà del debole e del misero
e salvi la vita dei miseri.

Un re giusto è fonte di pace per questo il salmista invoca per il futuro re - “il figlio del re” - giustizia e rettitudine. Il salmo ha un’indubbia tensione messianica poiché non si possono che applicare al Messia alcuni passi fondamentali: “Ti faccia durare quanto il sole, come la luna, di generazione in generazione”; “Nei suoi giorni fiorisca il giusto e abbondi la pace, finché non si spenga la luna. E domini da mare a mare, dal fiume sino ai confini della terra”; “A lui si pieghino le tribù del deserto, mordano la polvere i suoi nemici ”; “In lui siano benedette tutte le stirpi della terra e tutte le genti lo dicano beato”. Il re è indubbiamente Davide, e il figlio del re è Salomone, ma la figura del re e i risultati del suo governo sono tanto alti e ampi da tratteggiare il futuro Messia, il figlio del re per eccellenza; certo, secondo la carne (Rm 1,3;Gal 3,16).

La giustizia e la rettitudine costruiscono la pace e così le montagne e le colline, cioè le frontiere di Israele, porteranno pace al popolo che ha un re di giustizia e di pace: “Le montagne portino pace al popolo e le colline giustizia”. I popoli confinanti cercheranno la pace con Israele. Grande nelle relazioni con le nazioni il re futuro avrà attenzione all’interno per i deboli contro gli oppressori. Un regno fondato sulla giustizia e sull’amore non potrà mai venire meno: “Ti faccia durare quanto il sole, come la luna, di generazione in generazione". I regni fondati sulla guerra e sull’oppressione non possono durare, prima o poi i popoli si ribellano; ma il regno del Messia fondato sulla giustizia che viene da Dio rimarrà per sempre. La giustizia si eserciterà nel Cristo con l’obbedienza al Padre, con l’espiazione delle colpe del genere umano.

La sua azione sarà benefica come l’acqua che scende sulla terra permettendo cibo e vita: “Scenda come pioggia sull’erba, come acqua che irrora la terra”.
Egli Principe della pace, farà fiorire la pace finché “non si spenga la luna”; questo perché la sua pace, presente nella Chiesa e trasmessa dalla Chiesa, rimarrà sempre, La pace, poi, è l’essere riconciliati con Dio e con i fratelli.

Il suo regno sarà immenso. Non ha precedenti nei regni già esistiti, poiché :”E domini da mare a mare, dal fiume (ndr. l’Eufrate, il fiume per eccellenza) sino ai confini della terra”.
Il Messia non solo avrà i territori, ma l’omaggio delle genti: “A lui si pieghino le tribù del deserto, mordano la polvere i suoi nemici”, sottoposti al suo giudizio. I popoli si sottometteranno al suo giogo: “I re di Tarsis e delle isole porteranno tributi; i re di Saba e di Seba offrrano doni” (Tarsis è comunemente identificata con Tartessos in Spagna; Saba con la zona del golfo Arabico). Si noti che offriranno tributi e porteranno offerte, il che vuol dire che non saranno nella costrizione dei vinti.

Ancora il salmista fa vedere come il futuro Messia non trascurerà i poveri e i miseri, anzi saranno pensiero costante della sua azione: “Li riscatti dalla violenza e dal sopruso, sia prezioso ai suoi occhi il loro sangue”.
“Vivrà”, dice il salmista, cioè anche se colpito dai suoi avversari vivrà, perché conoscerà la risurrezione gloriosa.
“Si preghi sempre per lui”, cioè per mezzo della sua azione sacerdotale, con la quale ha sacrificato se stesso.
“Sia benedetto ogni giorno” perché perenne salvatore di bontà infinita.

Il salmista passa ad un’invocazione a Dio per la grandezza del “figlio di re” su tutta la terra; ciò significa che l’estendersi del regno del Messia sarà dovuto anche all’azione, completamente subordinata alla salvezza operata da Cristo e con la forza data da lui, di coloro che lo amano: “Il suo nome duri in eterno, davanti al sole germogli il suo nome”.
Di nuovo il salmista passa al futuro: “In lui siano benedette tutte le stirpi della terra”. Cioè per mezzo del suo sacrificio riconciliatore il Padre benedirà tutte le genti della terra. “Tutte le genti lo dicano beato”, perché otterrà dal Padre onore e gloria per la sua obbedienza a lui, fino alla morte di croce.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni
Fratelli, penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro favore: per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero.
Esso non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito: che le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo.
Ef 3,2-3.5-6

La Lettera agli Efesini è una delle lettere che la tradizione cristiana attribuisce a S.Paolo, che l'avrebbe scritta durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62. Gli studiosi moderni però sono divisi su questa attribuzione e la maggioranza ritiene più probabile che la lettera sia stata composta da un altro autore appartenente alla scuola paolina,forse basandosi sulla lettera ai Colossesi, ma in questo caso la datazione della composizione può oscillare, tra l'anno 80 e il 100.

Nella prima parte della lettera è stato delineato il progetto salvifico che Dio ha realizzato mediante Cristo (Ef 1,2-2,22). Ora, giunto al centro della sua riflessione, l’apostolo si qualifica come “il prigioniero di Cristo per voi pagani” e prosegue “: “penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro favore: per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero.”. Nel capitolo precede aveva detto che i cristiani provenienti dal paganesimo sono inseriti, a pari diritto dei giudei, nella comunità ecclesiale, di cui gli apostoli sono fondamento, ora qui viene evidenziato il ministero ricevuto da Paolo in favore dei pagani. L'espressione “ministero della grazia di Dio” indica con precisione l'oggetto della conoscenza degli efesini e il compito concreto di amministratore. Il fatto che viene aggiunto “della grazia di Dio” si spiega con il desiderio di ricordare come la grazia divina, dimensione essenziale del processo salvifico (Ef 1,6.7; 2,5.7.8), sia comunicata all'Apostolo proprio nell'esercizio del suo ministero.

Paolo sottolinea inoltre che questo ministero ha per oggetto un mistero che gli è stato fatto conoscere come effetto di un processo di rivelazione, e il contenuto del mistero è la partecipazione delle genti al corpo della Chiesa.

Nei versetti 3b-4 (omessi dalla liturgia) l‘apostolo passa ad esporre il contenuto di questo mistero, e poi osserva; : Esso non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito” Il processo di rivelazione del mistero presuppone il suo occultamento nel tempo precedente a quello in cui è stato rivelato ai destinatari (apostoli e profeti agli uomini in generale). La congiunzione “come”, che lega le due frasi, non significa il grado di intensità (con maggiore chiarezza), ma di alterità assoluta (il mistero rivelato ora e non come al passato, in cui non è stato manifestato). Questo stesso concetto sarà ripreso ancora nei versetti successivi (vv. 9-10).

A questo punto l'apostolo arriva a definire l' oggetto del mistero che consiste nel fatto che “le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo”. Il mistero è dunque la compartecipazione delle genti al corpo ecclesiale, all'eredità e alle promesse salvifiche. Già precedentemente era stata sottolineata la partecipazione dei pagani con i giudei all'unico corpo ecclesiale (2,13-19) e questo fa capire che anche qui si intende l'unità dei pagani con i giudeo-cristiani. Tutto questo infatti, avviene in forza della mediazione di Cristo (Ef 1,10) che implica non solo l'aspetto della strumentalità, ma anche quello dell'associazione a Lui. L’apostolo in questo brano dà un grande rilievo al progetto salvifico di Dio, che consiste per lui nell’unità di tutti gli esseri umani, al di là delle differenze di razza e di cultura. Egli mostra come solo eliminando le divisioni sia possibile trovare una pace vera. Per lui soprattutto è importante il superamento della divisione tra giudei e pagani, alla quale attribuisce un significato simbolico rispetto a tutte le barriere che dividono l’umanità. Egli vede realizzato l’incontro fra popoli e culture, oggetto primario del progetto di Dio, nella persona di Cristo, il quale perciò è presentato come l’espressione suprema dell’agire di Dio in questo mondo.
La novità di questo annunzio non consiste quindi nella manifestazione di qualcosa di mentalmente sconosciuto, ma in un’irruzione particolarmente potente della grazia di Dio in Cristo, a cui Paolo ha dato una risonanza universale. Queste potenzialità, che si sono manifestate all’inizio del cristianesimo, devono essere continuamente riscoperte nell’impegno dei cristiani, in unione con tutti gli altri credenti, per la pace nel mondo.

Dal vangelo secondo Matteo
Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta:
“E tu, Betlemme, terra di Giuda,
non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda:
da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”».
Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».
Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
Mt 2,1-12

L’evangelista Matteo continua a descrivere gli avvenimenti dell’infanzia di Gesù alla luce delle profezie ma, a differenza del 1^capitolo, racchiuso nella cornice del popolo giudaico, qui l’orizzonte diventa più ampio: i pagani sono attratti dalla luce di Gesù-re e vanno a Lui. La nuova Sion però non è Gerusalemme, ma Betlemme.
Il brano inizia riportando che “Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme”.

Secondo Erodoto, i magi erano originari di una tribù dei medi divenuta casta sacerdotale tra i persiani. Praticavano la divinazione, la medicina e l'astrologia. Serse, ad esempio, turbato per un'eclissi di sole, ne domandò il significato ad alcuni magi. Anche se l'astrologia nella Bibbia non gode di una buona fama (Dn 1,20; 2,2-10) Matteo presenta i magi come personaggi importanti e di gran rispetto. La tradizione latina farà di loro dei re (Sal 72,10) e ne preciserà il numero, tre come i doni offerti al bambino, e ne indicherà i nomi: Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Anche il loro paese d'origine non è chiaro, c’è da considerare però che per un giudeo il termine “oriente” indica tutto quello che c'è al di là del Giordano.

Giunti dunque a Gerusalemme i magi chiedono: “Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”.
Questa stella che appare e scompare al momento giusto, non corrisponde particolarmente a qualche fenomeno naturale, ma è forse un espediente narrativo che aveva un certo significato nell’ambito della comunità giudeo-cristiana per la quale l'evangelista scriveva. Già nel mondo greco-romano si utilizzava l'immagine dell'astro per indicare il destino di un personaggio. La tesi della stella che appare alla nascita di un grande uomo (es.Alessandro, Giulio Cesare) era molto diffuso e per i testi biblici la stella è la metafora del re Messia. Anche nell’Apocalisse Gesù dichiara: “Io sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino”. (Ap.22,16)

In Matteo, tuttavia, la stella non è soltanto una metafora o un'immagine del Messia: è anche la guida del magi, uno strumento di cui Dio si serve per indicare loro ciò che gli scribi non potranno scoprire nel testo del profeta Michea.

Gli antichi consideravano le stelle come esseri animati dotati di natura spirituale e i giudeo-cristiani vedevano in essi degli angeli. Si possono fare dei collegamenti fra la stella che guida i magi a Betlemme e gli angeli di Luca che guidano i pastori “al un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”. In ambedue i casi è sempre la Provvidenza di Dio che guida l'uomo.

Le parole dei magi provocano in Erode un certo turbamento condiviso da tutta la città di Gerusalemme Il motivo del turbamento di Erode è comprensibile, tenuto conto della sua paura per un aspirante al trono, meno comprensibile è lo sbigottimento dei cittadini di Gerusalemme. Questo si potrebbe anche spiegare come paura di violenze da parte di Erode, ma più probabilmente si tratta di un espediente narrativo con cui Matteo anticipa l’opposizione di Gerusalemme nei confronti di Gesù, che alla fine farà di Gerusalemme la città deicida.

Erode convoca allora tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo per sapere dove sarebbe dovuto nascere il Messia.
È chiaro che Matteo vuole sottolineare come tutto Israele, nei suoi rappresentanti più qualificati, abbia cercato la risposta da dare al re. Questa risposta si rifà a un oracolo profetico in cui si dice:

“E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”.
Nella citazione di Michea, Matteo fa alcuni ritocchi, come per es. sostituisce “Efrata” con “terra di Giuda”, forse per evitare la confusione con la Betlemme del nord (v. Gs 19,15); inoltre egli cambia la valutazione che viene data di Betlemme, forse per dare maggior gloria alla città, che sia il più piccolo tra i capoluoghi di Giuda.
Avuta l’informazione desiderata Erode convocò i magi, e “si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». (sappiamo come avrebbe voluto adorarlo!)

I magi, dunque informati da Erode circa il luogo di nascita del re dei giudei, si rimiserono in cammino e guidati nuovamente dalla stella, pieni di gioia, giunsero al luogo in cui si trovava “il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese”.
Per Matteo i primi che vengono a contatto con Gesù non sono dunque i pastori di Betlemme, ma i misteriosi rappresentanti delle nazioni. I tre doni da loro portati hanno chiaramente valore simbolico: essi indicano da un lato i prodotti tipici dell’oriente, che i magi offrono a Gesù riconoscendo così in lui il loro re; dall’altro c’è un fortissimo richiamo al salmo 72 che la Liturgia ha inserito in questa celebrazione.

Rispetto al salmo l’evangelista aggiunge tra i doni dei magi anche la mirra, un unguento usato nella sepoltura. Non è escluso che con questa aggiunta voglia indicare il destino di morte che aspetta il neonato Messia proprio a causa del rifiuto del suo popolo.
Il testo è un chiaro esempio di come possa essere la chiamata alla fede:
- i Re-magi sono chiamati per mezzo della stella e la seguono;
- i sommi sacerdoti e gli scribi conoscono le scritture, sanno dare indicazioni, ma non si muovono;
Erode tra la volontà di Dio e la sua, chiaramente sceglie la sua, conosce solo il suo tornaconto, non vede perché non vuole vedere!
Questa visione fortemente critica nei confronti di Israele, chiaramente dettata dal clima di rivalità che ha accompagnato il sorgere del cristianesimo, deve oggi essere sottoposta ad una più giusta ed illuminata considerazione. La nascita di Gesù e la conseguente apertura della Chiesa ai pagani non deve più essere vista come una sostituzione di Israele, infedele alle promesse divine, ma piuttosto come il mezzo attraverso il quale la chiamata religiosa di Israele è stata offerta a tutta l’umanità
Le parole di Papa Francesco

Celebriamo oggi l’Epifania del Signore, cioè la manifestazione di Gesù che risplende come luce per tutte le genti. Simbolo di questa luce che splende nel mondo e vuole illuminare la vita di ciascuno è la stella, che guidò i Magi a Betlemme. Essi, dice il Vangelo, videro «spuntare la sua stella» e scelsero di seguirla: scelsero di farsi guidare dalla stella di Gesù.

Anche nella nostra vita ci sono diverse stelle, luci che brillano e orientano. Sta a noi scegliere quali seguire. Per esempio, ci sono luci intermittenti, che vanno e vengono, come le piccole soddisfazioni della vita: anche se buone, non bastano, perché durano poco e non lasciano la pace che cerchiamo. Ci sono poi le luci abbaglianti della ribalta, dei soldi e del successo, che promettono tutto e subito: sono seducenti, ma con la loro forza accecano e fanno passare dai sogni di gloria al buio più fitto. I Magi, invece, invitano a seguire una luce stabile, una luce e gentile, che non tramonta, perché non è di questo mondo: viene dal cielo e splende … dove? Nel cuore.

Questa luce vera è la luce del Signore, o meglio, è il Signore stesso. Egli è la nostra luce: una luce che non abbaglia, ma accompagna e dona una gioia unica. Questa luce è per tutti e chiama ciascuno: possiamo così sentire rivolto a noi l’odierno invito del profeta Isaia: «Alzati, rivestiti di luce» . Così diceva Isaia, profetizzando questa gioia di oggi a Gerusalemme: “Alzati, rivestiti di luce”. All’inizio di ogni giorno possiamo accogliere questo invito: alzati, rivestiti di luce, segui oggi, tra le tante stelle cadenti nel mondo, la stella luminosa di Gesù! Seguendola, avremo la gioia, come accadde ai Magi, che «al vedere la stella, provarono una gioia grandissima»; perché dove c’è Dio c’è gioia. Chi ha incontrato Gesù ha sperimentato il miracolo della luce che squarcia le tenebre e conosce questa luce che illumina e rischiara.

Vorrei, con tanto rispetto, invitare tutti a non avere paura di questa luce e ad aprirsi al Signore. Soprattutto vorrei dire a chi ha perso la forza di cercare, è stanco, a chi, sovrastato dalle oscurità della vita, ha spento il desiderio: alzati, coraggio, la luce di Gesù sa vincere le tenebre più oscure; alzati, coraggio!

E come trovare questa luce divina? Seguiamo l’esempio dei Magi, che il Vangelo descrive sempre in movimento. Chi vuole la luce, infatti, esce da sé e cerca: non rimane al chiuso, fermo a guardare cosa succede attorno, ma mette in gioco la propria vita; esce da sé. La vita cristiana è un cammino continuo, fatto di speranza, e fatto di ricerca; un cammino che, come quello dei Magi, prosegue anche quando la stella sparisce momentaneamente dalla vista. In questo cammino ci sono anche delle insidie che vanno evitate: le chiacchiere superficiali e mondane, che frenano il passo; i capricci paralizzanti dell’egoismo; le buche del pessimismo, che intrappola la speranza. Questi ostacoli bloccarono gli scribi, di cui parla il Vangelo di oggi. Essi sapevano dov’era la luce, ma non si mossero. Quando Erode chiede loro: “Dove dovrà nascere il Messia?” – “A Betlemme!”. Sapevano dove, ma non si mossero. La loro conoscenza è stata vana: sapevano tante cose, ma per niente, tutto vano.

Non basta sapere che Dio è nato, se non si fa con Lui Natale nel cuore. Dio è nato, sì, ma è nato nel tuo cuore? È nato nel mio cuore? È nato nel nostro cuore? E così lo troveremo, come i Magi, con Maria, Giuseppe, nella stalla.
I Magi lo hanno fatto: trovato il Bambino, «si prostrarono e lo adorarono». Non lo guardarono soltanto, non dissero solo una preghiera di circostanza e se ne sono andati, no, ma adorarono: entrarono in una comunione personale di amore con Gesù. Poi gli donarono oro, incenso e mirra, ovvero i loro beni più preziosi. Impariamo dai Magi a non dedicare a Gesù solo i ritagli di tempo e qualche pensiero ogni tanto, altrimenti non avremo la sua luce. Come i Magi, mettiamoci in cammino, rivestiamoci di luce seguendo la stella di Gesù, e adoriamo il Signore con tutto noi stessi.

Papa Francesco
Angelus del 6 gennaio 2017

 

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Pro Memoria

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(Papa Giovanni XXIII)

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