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Henryk

Henryk

 

La liturgia di questa terza domenica di Avvento, più di tutte le altre, è all’insegna della gioia e ci invita perciò alla letizia, alla fede che dona speranza e fiducia..

Nella prima lettura, il profeta Isaia vede nel futuro un inviato di Dio sul quale riposa lo Spirito del Signore per inaugurare un tempo di grazia e portare il lieto annuncio ai miseri. Nella Sinagoga di Nazareth, Gesù proclamerà il compimento di questa profezia.

Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Tessalonicesi l’apostolo Paolo li incoraggia a essere lieti e propone un vero e proprio codice di comportamento per tutta l’esistenza quotidiana: gioia, preghiera incessante, riconoscenza, impegno missionario, sapiente ricerca dei veri valori, purezza, e santità

Nel Vangelo di Giovanni, la sublime figura di Giovanni Battista ci ricorda di essere sempre vigili e pronti a superare la tentazione “originale”, sempre in agguato davanti alla nostra porta: metterci al posto di Dio. Egli, il più grande tra i nati di donna, presenta se stesso come continuatore della missione di Isaia e annuncia solennemente: In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo».

La missione di Giovanni dovrebbe essere quella di ogni discepolo: proclamare al mondo il Signore e la Sua azione perchè è Cristo che deve crescere ed è l’annunciatore che deve diminuire, lasciando il Signore al centro della scena.

Dal libro del profeta Isaia
Lo spirito del Signore Dio è su di me,
perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione;
mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri,
a fasciare le piaghe dei cuori spezzati,
a proclamare la libertà degli schiavi,
la scarcerazione dei prigionieri,
a promulgare l’anno di grazia del Signore.
Io gioisco pienamente nel Signore,
la mia anima esulta nel mio Dio,
perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza,
mi ha avvolto con il mantello della giustizia,
come uno sposo si mette il diadema
e come una sposa si adorna di gioielli.
Poiché, come la terra produce i suoi germogli
e come un giardino fa germogliare i suoi semi,
così il Signore Dio farà germogliare la giustizia
e la lode davanti a tutte le genti.
Is 61,1-2a, 10-11

Questo capitolo è tratto dalla terza parte del libro del Profeta Isaia,(Terzo Isaia o Trito Isaia – titolo dato ad un personaggio non identificato ritenuto discepolo spirituale del secondo Isaia).
E’ stato scritto verso la fine dell’esilio di Babilonia (537-520 a.C.) e contiene una raccolta di oracoli che si differenziano non solo da quelli della prima, ma anche da quelli della seconda parte del libro.

Il brano inizia con la descrizione dell’intervento divino: “Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione”.È stato quindi lo Spirito a compiere sul profeta il rito dell’unzione che per i re veniva fatto dal sommo sacerdote. Di conseguenza colui che si esprime con queste parole, si presenta non solo come una figura profetica, ma anche come un autorevole capo religioso che prefigura il futuro Messia di Israele.

Dopo aver dichiarato pubblicamente l’intervento dello Spirito, il profeta descrive il compito che gli è stato affidato: “mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri”. Il profeta dovrà rivolgersi anche ai rimpatriati, tra i quali si verificano ancora situazioni simili a quelle da loro patite in esilio. Inoltre egli deve “fasciare le piaghe dei cuori spezzati”, cioè ridare coraggio a persone deluse e depresse; infine il suo compito consiste nel “proclamare la libertà degli schiavi e la scarcerazione dei prigionieri”.

(Si erano manifestati in quel periodo fatti molto gravi tra i rimpatriati, alcuni infatti si erano indebitati fino al punto di vendersi come schiavi ai loro connazionali (Ne 5,1-13; Is 58,10). Tra di loro l’inviato di Dio dovrà eliminare le ingiustizie e le eccessive differenze sociali ed economiche , per fare di essi una comunità degna del suo Dio).
Infine il profeta indica come suo compito quello di “promulgare l’anno di misericordia del Signore” . Con queste parole si intende proclamare un giubileo straordinario. Quando il popolo ebraico era nella sua terra, ogni cinquant’anni celebrava la solennità del giubileo. Per questa occasione un araldo suonava il corno (in ebraico “jobel” che era un corno d'ariete, e questo termine ha dato origine alla parola giubileo) e annunziava che in quell’anno tutti gli schiavi dovevano essere liberati e i debiti condonati, la pace proclamata.
Il profeta si sente come quell’araldo e il giubileo che sta per inaugurarsi è destinato all’Israele dell’esilio babilonese. Il suo è un messaggio di speranza per i malati, è una promessa di liberazione per gli schiavi e i prigionieri è un appello alla consolazione per i poveri e per gli emarginati.

Il brano alla fine riprende l’inno conclusivo di ringraziamento a DIO:
Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto con il mantello della giustizia, come uno sposo si mette il diadema e come una sposa si adorna di gioielli.
Il motivo di tanta gioia consiste nel fatto che la comunità ha fatto l’esperienza della salvezza, che si identifica essenzialmente con la giustizia, che è preziosa come il diadema dello sposo o i gioielli della sposa durante la cerimonia nuziale.
La Vergine Maria ha fatto sue nel Magnificat le parole:”la mia anima esulta nel mio Dio”!
Infine il motivo della gioia viene così approfondito: Poiché, come la terra produce i suoi germogli e come un giardino fa germogliare i suoi semi, così il Signore Dio farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutte le genti.

Il popolo viene immaginato come una terra in cui Dio fa germogliare non prodotti agricoli, ma la giustizia e la lode che si manifestano davanti a tutti i popoli.
L’alleanza perenne che Dio instaura con il Suo popolo consiste dunque in un rapporto sponsale, che comporta nel popolo un profondo rinnovamento interiore. Gli altri popoli assistono e sono anche loro, almeno in parte, coinvolti nella nuova situazione che si prospetta per Israele.
Impressiona come cinque secoli dopo, in una modesta sinagoga del villaggio di Nazareth, un’altra voce si leverà e ripeterà queste stesse parole citandole proprio dal rotolo di Isaia. Gesù a quelle righe piene di speranza aggiungerò un commento folgorante fatto di una frase decisiva e scandalosa per gli uditori di quel sabato: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi”Lc 4,21

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Fratelli, siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi. Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie. Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male.
Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è colui che vi chiama: egli farà tutto questo!
1Ts 5,16-24

La 1^ Lettera ai Tessalonicesi è probabilmente la più antica tra le lettere di S.Paolo e fu scritta dall’Apostolo all’inizio degli anni cinquanta. Paolo era stato a Tessalonica nel suo secondo viaggio (circa 20 anni dopo la morte di Gesù) e come spesso gli accadeva, era dovuto fuggire e pertanto aveva passato nella città poco tempo per svolgere una missione completa e approfondita (negli Atti 17,1-9 è riportato ciò che avvenne a Tessalonica). Paolo dunque è preoccupato della comunità che ha dovuto lasciare in fretta e manda Timoteo a constatare di persona come stavano le cose e le notizie positive che gli sono giunte lo rallegrano. Con questo stato d’animo scrive la sua lettera

Il brano che la liturgia ci presenta fa parte delle esortazioni che l’apostolo fa e che concludono le direttive su temi specifici. Dopo aver raccomandato ai tessalonicesi di avere rispetto per i responsabili della comunità, di correggere gli indisciplinati e incoraggiare i deboli, di non rendere male per bene, Paolo dopo li invita alla gioia e li esorta a far sì che questa gioia, che deve andare di pari passo con la preghiera, non venga mai meno, neppure in futuro.
Poi l’apostolo pone la sua attenzione sulle manifestazioni carismatiche della Chiesa e con tono deciso dichiara: “Non spegnete lo Spirito, non disprezzate i doni della profezia”.
Dal suo modo di esprimersi sembra che Paolo non si limiti a mettere in guardia circa un pericolo possibile, ma esorti a interrompere un comportamento deviante già in atto. È probabile che nella comunità di Tessalonica si fosse già verificata una repressione nei confronti dello slancio profetico suscitato dallo Spirito. L’apostolo, sapendo che in questo campo si possono commettere errori o restare confusi, esorta: “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male”. Non ci dovrà essere perciò nessuna preclusione, ma neppure una indiscriminata accettazione di ciò che viene proposto, bensì una saggia verifica per fare ciò che è bene e astenersi da ogni male.

Infine Paolo pronunzia una preghiera di supplica e si rivolge al Dio della pace perché porti a compimento nei destinatari la sua opera santificatrice: Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è colui che vi chiama: egli farà tutto questo!

La fiducia dei credenti non deve perciò avere la presuntuosa sicurezza di chi confida nelle proprie risorse, ma si deve basare unicamente sulla affidabilità del Padre.
Il tempo di Avvento ci mette quindi a confronto con l'azione di Dio che vuole "santificarci", e ci invita a corrispondere, a lasciarci trasformare, e soprattutto a non estrometterlo dalla nostra esistenza.

Dal vangelo secondo Giovanni
Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose:
«Io sono voce di uno che grida nel deserto:
Rendete diritta la via del Signore,
come disse il profeta Isaìa».
Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo». Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.
Gv 1, 6-8,19-28

Il Vangelo di Giovanni, ossia il quarto Vangelo, fu scritto in greco, ed è alquanto differente dai tre Vangeli sinottici che riportano racconti, miracoli, parole di Gesù fino a darcene un aspetto familiare che tutti conosciamo. Si presenta come il frutto della testimonianza del "discepolo che Gesù amava”, ma oggi molti studiosi fanno spesso riferimento ad una scuola giovannea nella quale sarebbe maturata la redazione del vangelo tra il 60 ed il 100 e delle lettere attribuite all'apostolo.

E’ composto da 21 capitoli e come gli altri vangeli narra il ministero di Gesù. Anche se è notevolmente diverso dagli altri tre vangeli sinottici, sembra presupporre la conoscenza almeno del Vangelo di Marco, di cui riproduce talvolta espressioni particolari. Mentre i Vangeli sinottici sono più orientati sulla predicazione del Regno di Dio da parte di Gesù, il quarto vangelo approfondisce la questione dell'identità del Cristo, inserendo ampie parentesi teologiche.

Origene, scrittore di Alessandria d’Egitto del III secolo, uno dei primi e migliori commentatori di S.Giovanni, definisce così il lettore ideale di questo vangelo: “Nessuno può comprendere il senso del vangelo di Giovanni se non si è chinato sul petto di Gesù e non ha ricevuto da Gesù, Maria come madre”.
Il brano che la liturgia propone, presenta con i primi versetti del prologo, la figura di Giovanni: “Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce”. Giovanni è dunque il testimone che deve introdurre non solo Israele, ma tutta l’umanità alla fede al Dio dell’alleanza che si manifesta nel Suo “Verbo incarnato”. .
Poi c’è una serie di domande che i sacerdoti, mandati dai farisei, fanno a Giovanni il Battista. “«Tu, chi sei?». …Sei tu Elia. «Sei tu il profeta?». «…Che cosa dici di te stesso?». Perchè battezzi?".

Gli interlocutori vorrebbero subito definire e giudicare questo strano profeta che si agita e grida nel deserto al di là del Giordano; e sono dunque infastiditi dalle ripetute negazioni che il Battista oppone alle loro domande. Giovanni rifiuta così di identificarsi con una delle due figure, l’una messianica e l’altra profetica, la cui comparsa era attesa come immediata preparazione alla venuta finale di Dio.

I membri della delegazione non sono soddisfatti delle parole evasive di Giovanni e gli ripropongono la domanda, chiedendogli questa volta una risposta soddisfacente da riferire a coloro che li avevano inviati. ma egli risponde loro semplicemente applicando a sé il detto di Isaia (40,3) “Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore,”

Secondo l’evangelista il Battista riconosce a se stesso la funzione dell’araldo, analoga a quella degli ignoti messaggeri che nel Deuteroisaia dovevano annunziare a Gerusalemme la fine dell’esilio e il ritorno degli esuli. Egli esclude così di essere uno dei mediatori escatologici attesi dai giudei, anzi nega qualsiasi importanza alla sua persona: ciò che conta è esclusivamente la sua missione.
Non soddisfatti, gli inviati di Gerusalemme pongono un’ultima domanda: “Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?”.
In risposta Giovanni afferma: “Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo”.

Affermando che la sua autorità deriva da un altro che si trova ormai in mezzo a loro, sebbene essi non lo conoscano, egli lo presenta come uno che viene “dopo” di lui, ma nonostante venga dopo di lui, è più importante di lui. Per indicare ciò, egli usa la stessa metafora a lui attribuita dai sinottici: egli non è neppure degno di svolgere nei suoi confronti il ruolo dello schiavo, al quale competeva il compito di slacciare i sandali del suo padrone.
Il brano mette in luce, con le parole stesse del Battista, già anticipate nel prologo, il ruolo che innegabilmente il Battista ha svolto nel preparare la venuta di Gesù.
Egli resta per tutti i tempi il testimone perfetto, modello di tutti coloro che, credendo in Gesù, lo presentano come l’unico capace di dare un senso pieno alla vita e alla storia umana.

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Già da due settimane il Tempo di Avvento ci ha invitato alla vigilanza spirituale per preparare la strada al Signore che viene. In questa terza domenica la liturgia ci propone un altro atteggiamento interiore con cui vivere questa attesa del Signore, cioè la gioia. La gioia di Gesù, come dice quel cartello: “Con Gesù la gioia è di casa”. Ecco, ci propone la gioia di Gesù!

Il cuore dell’uomo desidera la gioia. Tutti desideriamo la gioia, ogni famiglia, ogni popolo aspira alla felicità. Ma qual è la gioia che il cristiano è chiamato a vivere e a testimoniare? E’ quella che viene dalla vicinanza di Dio, dalla sua presenza nella nostra vita. Da quando Gesù è entrato nella storia, con la sua nascita a Betlemme, l’umanità ha ricevuto il germe del Regno di Dio, come un terreno che riceve il seme, promessa del futuro raccolto. Non occorre più cercare altrove! Gesù è venuto a portare la gioia a tutti e per sempre. Non si tratta di una gioia soltanto sperata o rinviata al paradiso: qui sulla terra siamo tristi ma in paradiso saremo gioiosi. No! Non è questa ma una gioia già reale e sperimentabile ora, perché Gesù stesso è la nostra gioia, e con Gesù la gioia di casa...

Tutti noi battezzati, figli della Chiesa, siamo chiamati ad accogliere sempre nuovamente la presenza di Dio in mezzo a noi e ad aiutare gli altri a scoprirla, o a riscoprirla qualora l’avessero dimenticata. Si tratta di una missione bellissima, simile a quella di Giovanni Battista: orientare la gente a Cristo – non a noi stessi! – perché è Lui la meta a cui tende il cuore dell’uomo quando cerca la gioia e la felicità.

Ancora san Paolo, nella liturgia di oggi, indica le condizioni per essere “missionari della gioia”: pregare con perseveranza, rendere sempre grazie a Dio, assecondare il suo Spirito, cercare il bene ed evitare il male.
Se questo sarà il nostro stile di vita, allora la Buona Novella potrà entrare in tante case e aiutare le persone e le famiglie a riscoprire che in Gesù c’è la salvezza. In Lui è possibile trovare la pace interiore e la forza per affrontare ogni giorno le diverse situazioni della vita, anche quelle più pesanti e difficili. Non si è mai sentito di un santo triste o di una santa con la faccia funebre. Mai si è sentito questo! Sarebbe un controsenso.

Il cristiano è una persona che ha il cuore ricolmo di pace perché sa porre la sua gioia nel Signore anche quando attraversa i momenti difficili della vita. Avere fede non significa non avere momenti difficili ma avere la forza di affrontarli sapendo che non siamo soli. E questa è la pace che Dio dona ai suoi figli.
Con lo sguardo rivolto al Natale ormai vicino, la Chiesa ci invita a testimoniare che Gesù non è un personaggio del passato; Egli è la Parola di Dio che oggi continua ad illuminare il cammino dell’uomo; i suoi gesti – i Sacramenti – sono la manifestazione della tenerezza, della consolazione e dell’amore del Padre verso ogni essere umano. La Vergine Maria, “Causa della nostra gioia”, ci renda sempre lieti nel Signore, che viene a liberarci da tante schiavitù interiori ed esteriori.

Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 14 dicembre 2014

 

Sabato, 09 Dicembre 2017 22:07

II Domenica dell'Avvento - 10 dicembre 2017

 

1. I Laici Salettini si riuniscono lunedì 11 dicembre alle ore 19.00 nella sala S. Giuseppe per confrontarsi sul tema “Incontro tra i popoli, culture e religioni, sfida posta ali cristiani in Europa”. L'incontro, come sempre e aperto a tutti.

2. L'Oratorio Nostra Signora de La Salette invita tutti i bambini, sabato 16 dicembre alle ore 16 alla Tombola dell'Avvento.

 

Le letture liturgiche della prima domenica di Avvento, ci invitavano a vegliare, questa domenica invece ci esortano “a preparare la via del Signore” . Seguendo le indicazioni del profeta Isaia e di San Giovanni Battista cerchiamo di raddrizzare le vie del nostro cuore. Non importa se attorno a noi vediamo il deserto, se ci sembra che non funzioni niente… Fidiamoci di Dio! Con Lui possiamo fare tutto, anche ciò che prima ci sembrava impossibile!

Nella prima lettura, il profeta Isaia esorta al coraggio e alla speranza e annuncia agli ebrei deportati il ritorno in patria. Dio stesso ritorna a camminare con il suo popolo come il grande pastore d’Israele, e dietro a Lui, come un gregge il popolo eletto.

Nella seconda lettura san Pietro nella sua lettera ci invita alla preghiera e alla santità della vita nell’attesa del compimento della promessa del Signore: il suo ritorno definitivo.

Nel Vangelo di Marco, viene presentato Giovanni il Battista, che punta un indice verso l’ingresso decisivo del Signore nelle strade del mondo. Colpisce la forza con la quale proclama il suo messaggio, l’umiltà con la quale ripete che sta per venire uno infinitamente più potente e forte di lui, tanto che lui non si sente neanche degno di chinarsi per slegare i lacci dei suoi sandali. Il Battista, dichiarandosi indegno persino di compiere questo atto estremo di venerazione, riconosce nel Cristo una regalità altissima, quella stessa di Dio.

Dal libro del profeta Isaia
«Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio –.
Parlate al cuore di Gerusalemme
e gridatele che la sua tribolazione è compiuta,
la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore
il doppio per tutti i suoi peccati».
Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore,
spianate nella steppa la strada per il nostro Dio.
Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati;
il terreno accidentato si trasformi in piano
e quello scosceso in vallata.
Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno,
perché la bocca del Signore ha parlato».
Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion!
Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme.
Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda:
«Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza,
il suo braccio esercita il dominio.
Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede.
Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna;
porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri».
Is 40,1-5, 9-11

Questo brano fa parte del Libro della Consolazione di Israele (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “deutero Isaia ”. Probabilmente era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che, dalla sue profezie prendono speranza. Infatti a partire dal 550 a.C. compare un nuovo popolo, non semitico, i Persiani, sotto il comando del loro re: Ciro. Egli in 10 anni sottomette l’oriente e agli occhi dei popoli oppressi, deportati dai Babilonesi, egli appare come un liberatore. Il Deuteroisaia non si limita a presentarlo come lo strumento scelto da Dio per portare a termine il suo piano in favore di Israele, ma gli attribuisce prerogative tipiche dei re di Giuda, ponendolo così in una prospettiva “messianica”.

Il brano che la liturgia ci propone si apre con un oracolo nel quale Dio stesso esorta a “consolare” il Suo popolo. Le prime parole sono ripetute con insistenza:
“Consolate, consolate il mio popolo”-
Il messaggio,che è un vero e proprio annuncio di gioia, è indirizzato direttamente a Gerusalemme, la città santa, personificazione del popolo giudaico. I messaggeri devono “parlare al cuore” di Gerusalemme per annunziarle che la sua esistenza è profondamente trasformata perché il Signore ha deciso di ripristinare quel legame d’amore che lo univa al Suo popolo. Il motivo della consolazione di Gerusalemme sta nel fatto che:
”la sua tribolazione è compiuta, la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati”.
Il popolo che si era allontanato da Dio ha ormai scontato ampiamente la pena dovuta alla sua iniquità, ha ricevuto un doppio castigo per i suoi peccati, cioè in termini di sofferenza ha pagato un prezzo persino superiore alle sue colpe.

Il profeta comunica poi quanto dice “una voce”, cioè un anonimo messaggero di Dio, il quale ordina: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio….” Ciò significa che l’evento del ritorno richiederà un profondo cambiamento nella mentalità di tutti i giudei.
La fede di Israele in questo periodo è cambiata e dovrà ancora cambiare in profondità, coinvolgendo in questa trasformazione anche coloro che erano rimasti in patria e avevanocontinuato le attività dei loro padri.(Proprio l’incapacità da parte di costoro di accettare il nuovo, di cui i rimpatriati erano portatori, provocherà tutta una serie di tensioni che renderanno difficile la restaurazione del popolo di Dio).

Il ritorno degli esuli comporterà una meravigliosa rivelazione della gloria di Dio:
“Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato”.
Il termine “gloria” indica il fulgore che nell’immaginazione popolare accompagna la manifestazione di Dio. Vedere la gloria del Signore significa sperimentare in prima persona gli effetti dell’intervento divino. Ora la rivelazione della gloria di Dio sarà disponibile non solo agli israeliti, ma a tutti gli uomini e secondo il profeta nell’evento del ritorno saranno coinvolti tutti i popoli.

Vediamo ora nell’esposizione un araldo che viene inviato con un compito specifico: Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio! “
L’araldo, che deve annunziare a Gerusalemme e alle città di Giuda il ritorno del Signore alla testa degli esiliati, è descritto come “colui che annuncia liete notizie”. Da questa espressione tradotta in greco (euangelizomenos) “colui che evangelizza” deriverà il termine “vangelo”, con cui i primi cristiani designeranno la predicazione di Gesù.
Il Signore che ritorna è poi presentato con due immagini. La prima è quella del re potente e vittorioso, che ritorna dalla guerra portando con sé il bottino tolto ai nemici (e questo bottino è il popolo stesso che il Signore ha sottratto alla dominazione straniera). La seconda immagine è quella del pastore che fa pascolare il gregge (V.Sal 23; Ez 34), e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri».

Tutto il brano esprime meraviglia, gioia ed esaltazione per la svolta improvvisa che sta prendendo la storia della salvezza. Il messaggio fondamentale di questo carme è la fiducia nel Dio che dirige gli eventi della storia umana piegandoli a quelli che sono i Suoi piani di salvezza. Anche quando sembra che le vicende umane sfuggano al Suo controllo, Dio non rinunzia al Suo potere e non viene mai meno alle Sue promesse. L’importante per l’uomo è di saper vedere la Sua gloria quando si manifesta.

Salmo 85 (84) Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza.
Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore:
egli annuncia la pace per il suo popolo,
per i suoi fedeli. Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme,
perché la sua gloria abiti la nostra terra

Amore e verità s’incontreranno,
giustizia e pace si baceranno.
Verità germoglierà dalla terra
e giustizia si affaccerà dal cielo.

Certo, il Signore donerà il suo bene
e la nostra terra darà il suo frutto;
giustizia camminerà davanti a lui:
i suoi passi tracceranno il cammino.

Il salmista ricorda come Dio ha ricondotto "hai ristabilito la sorte di Giacobbe" da Babilonia. I peccati commessi Dio li ha perdonati, mettendo fine alla sua grande ira.
Questa memoria del perdono di Dio alimenta nel salmista la fiducia che Dio perdonerà le mancanze del popolo, che, ritornato nella Giudea, dimostra tiepidezza nei confronti di Dio e per questo incontra sofferenze (Cf. Ag 1,7).
Il salmista, fortificato dal ricordo della misericordia di Dio, innalza quindi la sua supplica: ”Ritorna a noi, Dio nostra salvezza, e placa il tuo sdegno verso di noi".
Il salmista passa a considerare le profezie, ad ascoltare “cosa dice Dio”, e conclude che Dio presenta un futuro di pace “per chi ritorna a lui con fiducia”. Egli guarda ai tempi messianici, e può dire che “la sua gloria abiti la nostra terra” (Is 60,1s); e che “amore e verità s'incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. “Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo”, quando verrà il Messia. La sua presenza farà si che “la nostra terra darà il suo frutto”, cioè il frutto di santità per il quale Israele è stato creato. Davanti al “bene” che Dio elargirà, cioè il Messia, “giustizia camminerà davanti a lui: i suoi passi tracceranno il cammino”.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla seconda lettera di S.Pietro apostolo
Una cosa non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno. Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi. Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta.
Dato che tutte queste cose dovranno finire in questo modo, quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno! Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia.
Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia.
2Pt 3,8-14

La seconda lettera di Pietro è probabilmente l’ultimo scritto, in ordine di tempo, del Nuovo Testamento, e come la prima lettera, è tradizionalmente attribuita a San Pietro, ma molti esperti hanno ritenuto che sia stata scritta da un altro autore che aveva preso lo pseudonimo di Pietro. Probabilmente fu scritta in greco antico tra il 100 e il 160, da chi conosceva sia la Prima lettera che la lettera di Giuda, con lo scopo di esortare i credenti ad essere costanti nella pratica degli impegni connessi con la loro fede, e di denunciare gli spacciatori di dottrine pericolose che seminano il disordine. Lo scritto è anche è una lezione importante per il cristianesimo che deve sapere accettare la durata della storia con la consapevolezza che tutto è provvisorio.

In questo brano l’autore preannunzia la venuta di falsi profeti che metteranno in dubbio la fine del mondo e la seconda venuta del Signore. Nei versetti precedenti non riportati dal brano liturgico, egli riafferma la fede tradizionale: “i cieli e la terra attuali sono conservati dalla medesima Parola, riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della rovina dei malvagi” (v.7) Dopo questa premessa l'autore affronta l'obiezione riguardante il ritardo della parusia. Egli afferma: “Una cosa non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno”. Il tempo ha davanti a Dio un valore completamente diverso da quello che ha davanti a noi, quindi davanti a Lui non ha senso il nostro calcolo del tempo perchè per Lui un giorno è come mille anni.. Poi argomenta sull’agire di Dio: “Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi.” In questa frase si fa allusione al tema della pazienza di Dio per spiegare il ritardo con cui adempie le promesse. Questo comportamento inaspettato di Dio viene visto come espressione della sua pazienza nei confronti dei peccatori, ai quali vuole dare una possibilità di convertirsi prima del giudizio finale.

Poi c’è la descrizione delle modalità con cui si attuerà la fine del mondo: “Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta.”Con un'immagine già familiare nel N.T. (Mt 24,43; Lc 12,39;1Ts 5,2), la venuta del giorno del Signore, cioè dell’evento finale e conclusivo della storia viene paragonata all’irruzione di un ladro: ciò significa che si tratta di un evento del tutto imprevedibile. Anzitutto i cieli passeranno “in un grande boato”: questo termine esprime il carattere agghiacciante della fine con il senso di orrore che essa ispira. Gli “elementi, consumati dal calore si dissolveranno” ossia i quattro elementi cosmici:acqua, fuoco, aria, terra, oppure gli elementi celesti (costellazioni, sole, luna. Allora la terra con quanto c'è in essa sarà distrutta. È certamente una visione apocalittica vista non come un compimento della storia, ma come distruzione di un mondo caduto in preda di poteri satanici.

L’attesa della fine deve incidere profondamente sul comportamento dei credenti: “Dato che tutte queste cose dovranno finire in questo modo, quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno! “
Il ritardo con cui Dio attua le sue promesse non deve provocare un rilassamento, ma al contrario invitare a condurre una vita improntata a santità e pietà. Alle prese col mondo in cui vivono i credenti non devono farsi abbagliare da esso dimenticando l’impegno che hanno preso nei confronti di Dio. Anzi con la loro attesa fiduciosa e solerte potranno contribuire addirittura ad abbreviare i tempi che li separano dall’evento finale.

I credenti però devono aspettare non tanto la fine, quanto piuttosto quello che verrà dopo: Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia” L'espressione “cieli nuovi e terra nuova” è tratta da Isaia (Is 65,17; 66,22) e sta per indicare una nuova creazione, che ha luogo dopo la distruzione del vecchio mondo peccatore. In questi cieli e terra nuovi sarà ormai prevalente la giustizia, che consiste in un'armonia, perfetta degli uomini tra loro, con Dio e con le cose. Tutte le ingiustizie di questa terra saranno allora definitivamente rimosse.

Al termine del brano c’è una breve esortazione: “Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia”. Riferendosi a quanto detto prima l’autore riassume le sue esortazioni incitando chi legge a vivere in conformità all'attesa della parusia, con la piena comprensione del significato salvifico che ha il periodo di attesa, e con una coerenza di vita pratica più perfetta possibile.
L’autore di questo brano adotta senza dubbio le antiche idee apocalittiche circa la fine del mondo, immaginando che questo un giorno dovrà dissolversi in una specie di conflagrazione universale.

C’è da tener presente però che nei primi decenni del cristianesimo era molto forte l’idea che la fine del mondo sarebbe stata imminente. Di fronte alla delusione provocata dal “ritardo”, l’autore intende tener viva nel cuore dei credenti la tensione escatologica. La parusia ci sarà e comporterà da una parte la distruzione di tutto quanto c'è adesso di difettoso e di malvagio, dall'altra un potenziamento all'infinito di tutto quello che è bene.

Per rendere comprensibile il significato dell’attesa, l’autore fa appello al concetto della pazienza di Dio: la lentezza con cui Dio manda avanti la storia della salvezza è solo apparente ed è dovuta alla complessità della Sua opera salvifica e soprattutto alla Sua intenzione di salvare tutti. Davanti a questa prospettiva, il cristiano, se vorrà essere coerente, dovrà tenere una condotta santa, in un atteggiamento di attesa intensa e continua per contribuire così anche allo sviluppo di tutto il piano di salvezza.

Dal vangelo secondo Marco
Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio.
Come sta scritto nel profeta Isaìa:
«Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero:
egli preparerà la tua via.
Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri»,
vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati.
Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.
Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».
Mc 1, 1-8
Questo brano ci riporta i primi versetti del vangelo di Marco che intende trasmettere alcune informazioni circa l’identità di Gesù e alcuni fatti che hanno caratterizzato l'inizio del suo ministero. Marco inizia il suo scritto con una breve frase che dà il titolo a tutta la sua opera:
Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio.
Il termine “inizio” è lo stesso con cui si aprono la traduzione greca della Bibbia (Gen 1,1) e il Vangelo di Giovanni (Gv 1,1) e forse è stato scelto di proposito per presentare l’annunzio evangelico come una nuova creazione

L’espressione “vangelo di Gesù” non significa tanto che la buona novella ha Gesù come oggetto, ma piuttosto che essa, è stata proclamata da Lui. Dopo il titolo dell’opera, Marco entra subito nel vivo del racconto presentando, la predicazione di Giovanni il Battista e introduce la sua figura in un modo un po’ asciutto mediante una citazione biblica preceduta dall’indicazione del libro da cui essa è stata ricavata: “Come sta scritto nel profeta Isaìa: «Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore,raddrizzate i suoi sentieri»
Anche se si dice che il testo citato è una profezia di Isaia, in realtà Marco ha inserito due brani diversi. Il primo è ricavato dal profeta Malachia, in cui il Signore stesso annunzia che sta per venire nel suo tempio per purificarlo e manda davanti a sé un messaggero che gli prepari la via (Ml 3,1); e subito dopo questo messaggero è identificato con Elia, il profeta escatologico atteso dai giudei.

Il secondo brano è ricavato dall’inizio del Deuteroisaia (Is 40,3), dove si dice che un anonimo messaggero (una “voce”) annunzia agli abitanti di Gerusalemme la venuta del Signore alla testa degli esuli che ritornano da Babilonia, e li invita a preparargli la strada nel deserto.
Anche questo testo è interpretato da Marco in funzione della situazione che sta descrivendo: il deserto non è più il luogo in cui la via deve essere preparata, ma quello in cui si fa sentire la “voce”, che è quella di Giovanni che annuncia al popolo, come l’anonimo messaggero di Isaia , di preparare la via del Signore; ma subito dopo questo Signore non è più identificato con “il nostro Dio”, come nel testo di Isaia (40,3) , ma è designato con il pronome possessivo: “i suoi sentieri”. In questo modo ancora una volta l’evangelista dimostra di avere in mente Gesù, di cui Giovanni annunzia la venuta.

Le due profezie citate hanno per Marco un significato di vitale importanza: con esse egli vuole fare risaltare come in Giovanni si adempiano le attese di Israele
Dopo le due citazioni profetiche, l’evangelista presenta l’attività di Giovanni: “vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati.”
Anche se non è indicato il deserto in cui operava Giovanni, si può dedurre che si tratti del deserto di Giuda, che si estende ad est di Gerusalemme fino al Giordano; ma il “deserto” ha qui una forte significato teologico, in quanto secondo le attese giudaiche era questo il luogo in cui il popolo eletto degli ultimi tempi avrebbe dovuto rifare il cammino dell’esodo sotto la guida di Dio.

Nel deserto Giovanni “battezzava” e “proclamava un battesimo di conversione …” egli richiedeva perciò un cambiamento di mentalità, e come diceva il profeta Geremia , un ritorno interiore al Dio dell’alleanza mediante l’obbedienza alla Sua volontà. (Ger 3,14). La conversione nel battesimo, consisteva in un bagno purificatore, simile a quelli compiuti frequentemente dai farisei e dagli esseni, o a quello che veniva amministrato ai pagani che si convertivano al giudaismo (proseliti); da queste abluzioni però il battesimo di Giovanni si distingueva in quanto era amministrato dall’inviato di Dio e doveva essere ricevuto una volta per tutte come segno di una conversione radicale e definitiva.
“Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.” Non vengono menzionati pellegrini provenienti dalla Galilea, dalla quale fra poco Gesù giungerà a farsi battezzare, o da altri territori: l’annunzio di Giovanni è dunque confinato, diversamente da quello di Gesù, al popolo dell’alleanza.

Marco riporta che Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. Questo strano abbigliamento, simile a quello dei profeti (V. Zc 13,4) e in particolare di Elia (V.2Re 1,8), sottolinea il ruolo profetico di Giovanni. Le cavallette e il miele selvatico, sono il cibo di cui potevano disporre gli abitanti del deserto ed è quindi un simbolo di austerità e di penitenza.
Marco dà una sintesi della predicazione di Giovanni riportando le sue parole: “Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo”. Giovanni parla di uno che viene “dopo”di lui, ma pur arrivando dopo, egli è “più forte” di lui, e questo titolo nella Bibbia è riservato prima di tutto a Dio, le cui opere sono efficaci e non transitorie come quelle dell’uomo. Giovanni non si ritiene degno di “slegare i lacci dei suoi sandali”, un compito ritenuto tanto umile da non poter essere imposto neppure a uno schiavo ebreo, e il Battista, dichiarandosi indegno persino di compiere questo atto estremo di venerazione, riconosce nel Cristo una regalità altissima, quella stessa di Dio.

Ciò che Giovani Battista aveva amministrato sulle acque del Giordano dunque era un “battesimo nell’acqua”, espressione di una semplice purificazione dalle colpe, mentre il battesimo del Cristo, sarà nello Spirito Santo, nell’effusione della presenza e dell’azione di Dio all’interno dell’uomo che verrà totalmente trasformato in figlio, in una nuova creatura , in erede della gloria divina.
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Questa domenica segna la seconda tappa del Tempo di Avvento, un tempo stupendo che risveglia in noi l’attesa del ritorno di Cristo e la memoria della sua venuta storica. La liturgia di oggi ci presenta un messaggio pieno di speranza. È l’invito del Signore espresso per bocca del profeta Isaia: «Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio» . Con queste parole si apre il Libro della consolazione, nel quale il profeta rivolge al popolo in esilio l’annuncio gioioso della liberazione. Il tempo della tribolazione è terminato; il popolo di Israele può guardare con fiducia verso il futuro: lo attende finalmente il ritorno in patria. Per questo l’invito è a lasciarsi consolare dal Signore.
Isaia si rivolge a gente che ha attraversato un periodo oscuro, che ha subito una prova molto dura; ma ora è venuto il tempo della consolazione. La tristezza e la paura possono fare posto alla gioia, perché il Signore stesso guiderà il suo popolo sulla via della liberazione e della salvezza. In che modo farà tutto questo? Con la sollecitudine e la tenerezza di un pastore che si prende cura del suo gregge. Egli infatti darà unità e sicurezza al gregge, lo farà pascolare, radunerà nel suo sicuro ovile le pecore disperse, riserverà particolare attenzione a quelle più fragili e deboli . Questo è l’atteggiamento di Dio verso di noi sue creature. Perciò il profeta invita chi lo ascolta – compresi noi, oggi – a diffondere tra il popolo questo messaggio di speranza: che il Signore ci consola. E fare posto alla consolazione che viene dal Signore.

Ma non possiamo essere messaggeri della consolazione di Dio se noi non sperimentiamo per primi la gioia di essere consolati e amati da Lui. Questo avviene specialmente quando ascoltiamo la sua Parola, il Vangelo, che dobbiamo portare in tasca: non dimenticare questo! Il Vangelo in tasca o nella borsa, per leggerlo continuamente. E questo ci dà consolazione: quando rimaniamo in preghiera silenziosa alla sua presenza, quando lo incontriamo nell’Eucaristia o nel sacramento del Perdono. Tutto questo ci consola.
Lasciamo allora che l’invito di Isaia - «Consolate, consolate il mio popolo» - risuoni nel nostro cuore in questo tempo di Avvento. Oggi c’è bisogno di persone che siano testimoni della misericordia e della tenerezza del Signore, che scuote i rassegnati, rianima gli sfiduciati, accende il fuoco della speranza. Lui accende il fuoco della speranza! Non noi. Tante situazioni richiedono la nostra testimonianza consolatrice. Essere persone gioiose, consolate. Penso a quanti sono oppressi da sofferenze, ingiustizie e soprusi; a quanti sono schiavi del denaro, del potere, del successo, della mondanità. Poveretti! Hanno consolazioni truccate, non la vera consolazione del Signore! Tutti siamo chiamati a consolare i nostri fratelli, testimoniando che solo Dio può eliminare le cause dei drammi esistenziali e spirituali. Lui può farlo! E’ potente!

Il messaggio di Isaia, che risuona in questa seconda domenica di Avvento, è un balsamo sulle nostre ferite e uno stimolo a preparare con impegno la via del Signore. Il profeta, infatti, parla oggi al nostro cuore per dirci che Dio dimentica i nostri peccati e ci consola. Se noi ci affidiamo a Lui con cuore umile e pentito, Egli abbatterà i muri del male, riempirà le buche delle nostre omissioni, spianerà i dossi della superbia e della vanità e aprirà la strada dell’incontro con Lui. E’ curioso, ma tante volte abbiamo paura della consolazione, di essere consolati. Anzi, ci sentiamo più sicuri nella tristezza e nella desolazione. Sapete perché? Perché nella tristezza ci sentiamo quasi protagonisti. Invece nella consolazione è lo Spirito Santo il protagonista! E’ Lui che ci consola, è Lui che ci dà il coraggio di uscire da noi stessi. E’ Lui è che ci porta alla fonte di ogni vera consolazione, cioè il Padre. E questa è la conversione. Per favore, lasciatevi consolare dal Signore! Lasciatevi consolare dal Signore!

La Vergine Maria è la “via” che Dio stesso si è preparato per venire nel mondo. Affidiamo a Lei l’attesa di salvezza e di pace di tutti gli uomini e le donne del nostro tempo.
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 7 dicembre 2014

 

 

Celebriamo oggi la solennità dell’Immacolata Concezione della beata Vergine Maria, il cui dogma fu promulgato da Pio IX nel 1854, ma già nel IX secolo si celebrava in Inghilterra e Normandia una festa della Concezione di Maria e il Concilio di Basilea (1439) sancì questo evento come verità di fede. Si afferma che Maria è nata senza colpa originale, concepita senza peccato: colei che doveva dare alla luce il Figlio di Dio fu preservata da ogni macchia di peccato per essere la degna dimora di Gesù.
Celebrare l’Immacolata Concezione nel tempo di Avvento è quanto mai rilevante perchè ci prepara a rivivere il “mistero della Redenzione” in avvenimenti dove la grazia fa irruzione in modo sovrabbondante sull’umanità.

Nella prima lettura, tratta dal libro della Genesi al primo peccato, dovuto alla disobbedienza di Adamo ed Eva, Dio non rimane indifferente e nella pienezza dei tempi manda la nuova Eva, Maria, che schiaccerà la testa al serpente.

Nella seconda lettura, tratta dalla lettera di S. Paolo agli Efesini, possiamo comprendere che ciò che si è realizzato in Maria attende oggi di realizzarsi in ciascuno di noi, anche se non come lei al momento del concepimento, ma a quello del battesimo. E’ un dono e una chiamata che ci proietta nella meravigliosa avventura della costruzione prima di noi stessi e poi del mondo, secondo il progetto di Dio e quindi nella direzione dell’amore che non conosce tramonto.

Nel Vangelo di Luca troviamo il racconto dell’annunciazione dell’Angelo Gabriele a Maria, che obbedì totalmente all’annunzio della sua maternità divina. In questa giornata che celebra la sua concezione, e quindi tutta la sua esistenza immacolata e gradita a Dio, la liturgia ci conduce nelle viuzze di questa cittadina della Galilea, alla ricerca delle tracce di Maria e di quel grande giorno in cui ha pronunciato il suo sì e nella onniscienza di Dio tutti noi eravamo presenti.

Dal Libro della Genesi
Dopo che l'uomo ebbe mangiato del frutto dell'albero, il Signore Dio lo chiamò e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l'uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Allora il Signore Dio disse al serpente:
«Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici!
Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita.
Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe:
questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».
L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi.
Gen 3,9-15.20

Il Libro della Genesi (che significa: "nascita", "creazione", "origine"), è il primo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. E’ stato scritto in ebraico, e secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte.
Nei primi 11 dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente (soprattutto in Palestina) del II millennio a.C. (la datazione dei patriarchi, tradizionale ma ipotetica, è attorno al 1800-1700).
Il libro della Genesi è suddiviso in due grandi sezioni. La prima, corrispondente ai capitoli 1-11, comprende il racconto della creazione e la storia del genere umano. La seconda sezione, dal capitolo 12 al capitolo 50, narra la storia del popolo eletto, mediante i racconti sui patriarchi.
Questo brano tratto dal Capitolo 3 descrive la convinzione d’Israele che la condizione umana (quale appariva allora) fosse una partecipazione alla punizione meritata dalla prima trasgressione. L'autore di questo testo sacro, descrive il processo per la ricerca del colpevole per il primo peccato commesso dall'umanità e la conseguente condanna, lasciando trasparire che non tutto è perduto, e questo lo si percepisce dalle parole che il Signore dice al serpente: “Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”, per cui se la discendenza della donna verrà ferita al calcagno, le forze del male avranno la testa schiacciata dal suo piede.
Tale annuncio di vittoria sul male viene riconosciuto nel concetto di Immacolata Concezione che fa di Maria la prima redenta.

Con l'esenzione di Maria dal peccato originale, l'opera salvifica di Cristo suo figlio viene potenziata, perché con l'atto redentivo anticipato in Maria, il Figlio si è preparato lo spazio materno in vista dell'incarnazione ed ha provato, in maniera per noi inconcepibile, che per l'umanità non esiste alcuna autoredenzione, neppure per chi è stata chiamata alla maternità divina.

Salmo 98 (97) Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie.
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo.

Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d’Israele.

Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!

Il tempo della composizione di questo salmo è probabilmente quello del postesilio. Il motivo del suo invito ad un “canto nuovo” non è però ristretto al solo ritorno dall'esilio, ma nasce da tutti gli interventi di Dio per la liberazione di Israele dagli oppressori e dai nemici.
E' Dio stesso che, come prode guerriero, ha vinto i suoi nemici, che sono gli stessi nemici di Israele: “Gli ha dato vittoria la sua destra”.
Il “canto nuovo” celebra le “meraviglie” di Dio, tuttavia è aperto al futuro messianico, che abbraccerà tutti i popoli.
“La sua salvezza”, mostrata ai popoli per mezzo di Israele, ridonda già su di loro: “Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. Il Signore è colui che viene, che viene costantemente a giudicare la terra; e che verrà nel futuro per mezzo dell'azione del Messia, al quale darà il potere di giudicare nell'ultimo giorno la terra: “Giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine”.

Ogni episodio di liberazione il salmo lo vede come preparazione della diffusione a tutte le genti della salvezza del Signore. E' una salvezza universale che tocca anche il creato, che deve fremere di fronte agli eventi finali che lo sconvolgeranno: “Frema il mare...”; ma anche esultare, perché sarà sottratto dalla caducità introdotta da Adamo (Cf. Rm 8,19): “I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne”.

Noi, in Cristo, recitiamo il salmo nell'avvento messianico. La salvezza di Dio, quella che ci libera dal peccato - male supremo - è quella donataci per mezzo di Cristo.
La giustizia che si è mostrata a noi è Cristo, che per noi è morto e ci ha resi giusti davanti al Padre per mezzo del lavacro del suo sangue. Dio, è il Dio che viene (Cf. Ap 1,7; 4,8) per mezzo dell'azione dello Spirito Santo, che presenta Cristo, nostra salvezza e giustizia.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo agli Efesini
Benedetto Dio,
Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati
di fronte a lui nella carità,
predestinandoci a essere per lui figli adottivi
mediante Gesù Cristo,
secondo il disegno d’amore della sua volontà,
a lode dello splendore della sua grazia,
di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
In lui siamo stati fatti anche eredi,
predestinati – secondo il progetto di colui
che tutto opera secondo la sua volontà –
a essere lode della sua gloria,
noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
Ef 1,3-6.11-12

La Lettera agli Efesini è una delle lettere che la tradizione cristiana attribuisce a S.Paolo, che l'avrebbe scritta durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62. Gli studiosi moderni però sono divisi su questa attribuzione e la maggioranza ritiene più probabile che la lettera sia stata composta da un altro autore appartenente alla scuola paolina,forse basandosi sulla lettera ai Colossesi, ma in questo caso la datazione della composizione può oscillare, tra l'anno 80 e il 100. La lettera agli Efesini si può dire che è la” lettera della Chiesa” del suo mistero e vita, tanto che anche il Concilio Vaticano II se ne è ampiamente ispirato .

Nel brano che abbiamo, Paolo descrive mirabilmente “il piano di colui che tutto opera efficacemente conforme alla sua volontà”. Inizia con una invocazione benedicente: Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. La benedizione di Dio significa comunicazione di vita, e trova il suo compimento quando torna a Dio sotto forma di benedizione da parte dell'uomo. Il movimento della benedizione è prima discendente, poi ascendente: il dono è infatti completo solo quando è riconosciuto come tale, e il segno del riconoscimento è la lode. La comunicazione di vita, la benedizione, consiste nella chiamata alla santità. C’è un invito a contemplare in Maria la primizia, colei in cui il sogno di Dio ha trovato piena attuazione, senza però collocarla ad un livello irraggiungibile.

Paolo dice esplicitamente che ciascuno di noi è stato scelto prima della creazione del mondo, per essere santo e immacolato al suo cospetto. È la comune vocazione alla santità su cui si innestano le varie vocazioni individuali; e l’esserne rivestita fin dal concepimento non ha esonerato Maria dall’impegno di corrispondere alla grazia. Se l’onda che aveva preso a scorrere in lei ha potuto diventare torrente e traboccare benefica su tutta l’umanità, è stato per il suo incondizionato abbandonarsi allo Spirito. Questo è il potere di un “Sì” che eleva a collaboratori di Dio, non solo nel tessere la nostra santità, ma anche nel portare avanti il Suo disegno di salvezza a favore dell’umanità intera.
Ciò che si è realizzato in Maria attende oggi di realizzarsi in ciascuno di noi, anche se non come lei al momento del concepimento, ma a quello del battesimo. E’ un dono e una chiamata che ci proietta nella meravigliosa avventura della costruzione, prima di noi stessi e poi del mondo, secondo il progetto di Dio e quindi nella direzione dell’amore che non conosce tramonto.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Sato scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei. Lc 1,26-38

L’evangelista Luca inizia così il suo racconto:“l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazareth, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria.” L’angelo Gabriele, il cui nome derivante dall’ebraico significa “la forza di Dio” “Dio è forte”, viene mandato da Dio a Nazareth, che era in realtà un piccolo villaggio rurale della Galilea, ad una vergine , e al tempo stesso promessa sposa.

L’angelo apparendo a Maria si rivolge a lei con l’usuale saluto greco: kaire, che etimologicamente significa “Rallègrati” e aggiunge un elogio inusuale, unico “piena di grazia: il Signore è con te”. Le parole che l’angelo le rivolge, provocano il turbamento di Maria, per cui l’angelo la invita a non temere, sottolineando che ha “trovato grazia presso Dio” per cui Dio vuole stabilire un rapporto speciale con lei per assegnarle un compito unico e straordinario nel Suo progetto di salvezza. L’angelo glielo annunzia con queste parole: “concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”

Queste parole alludono all’oracolo di Isaia 7,14: Maria è dunque la vergine di cui parla il profeta e il suo figlio non è un semplice discendente della casa davidica, ma il Messia atteso per gli ultimi tempi. In sintonia poi con il testo ebraico dell’oracolo e in forza del ruolo di madre che le è assegnato, sarà lei che gli darà il nome.
All’annunzio messianico dell’angelo Maria risponde con una domanda: “Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?”
In risposta alla domanda di Maria, l’angelo dà i chiarimenti che, solo chi è immerso completamente nel mistero di Dio, può accettare senza comprendere pienamente: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio”. Dopo aver indicato nel nascituro il Figlio dell’Altissimo, egli spiega che questo appellativo è dovuto al fatto che lo Spirito santo interverrà in modo speciale nel momento stesso del suo concepimento. Al termine del suo annunzio l’angelo rivela a Maria la gravidanza di Elisabetta, sua parente. Questo evento, tenuto gelosamente segreto dai diretti interessati, diventa il segno visibile che conferma l’autenticità della rivelazione dell’angelo. Esso infatti mostra nel modo più convincente che ”nulla è impossibile a Dio” (Gen 18,14).
Alle parole dell’angelo Maria risponde: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”.Maria si rende così disponibile al progetto di Dio e ne diventa partecipe fino in fondo.

Il termine“serva” con cui Maria si autodefinisce non deve far pensare ad esortazioni sull’umiltà, la modestia, o il nascondimento. Maria ha la coscienza che in lei donna semplice e comune, Dio ha realizzato l’intervento definitivo e grandioso del suo progetto di salvezza “atteso da tutte le generazioni”.
Nella sua preghiera, il “Magnificat” che pronuncerà nell’incontro con Elisabetta, Maria intuisce di essere il terreno ideale in cui Dio celebrerà i trionfi e offrirà la salvezza del Suo Regno: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente …” L’immacolata concezione è, allora, la storia di una donazione totale ad un piano tracciato da Dio, è la storia di una grazia e di una vocazione eccezionale.

Alla luce di questo modello di “serva del Signore”, oggi l’Adamo-Eva che è in ognuno di noi è invitato a ritornare allo splendore del paradiso terrestre, cioè alla grazia. Là potrà incontrare Dio in un dialogo familiare, intimo, di amore, là potrà vivere in armonia con il creato e con il suo prossimo.
*****************
O Maria, Madre nostra Immacolata,
nel giorno della tua festa vengo a Te,
e non vengo solo:
porto con me tutti coloro che il tuo Figlio mi ha affidato,
in questa Città di Roma e nel mondo intero,
perché Tu li benedica e li salvi dai pericoli.
Ti porto, Madre, i bambini,
specialmente quelli soli, abbandonati,
e che per questo vengono ingannati e sfruttati.
Ti porto, Madre, le famiglie,
che mandano avanti la vita e la società
con il loro impegno quotidiano e nascosto;
in modo particolare le famiglie che fanno più fatica
per tanti problemi interni ed esterni.
Ti porto, Madre, tutti i lavoratori, uomini e donne,
e ti affido soprattutto chi, per necessità,
si sforza di svolgere un lavoro indegno e chi il lavoro l’ha perso o non riesce a trovarlo.
Abbiamo bisogno del tuo sguardo immacolato,
per ritrovare la capacità di guardare le persone e le cose con rispetto e riconoscenza,
senza interessi egoistici o ipocrisie.
Abbiamo bisogno del tuo cuore immacolato, per amare in maniera gratuita,
senza secondi fini ma cercando il bene dell’altro,
con semplicità e sincerità, rinunciando a maschere e trucchi.
Abbiamo bisogno delle tue mani immacolate, per accarezzare con tenerezza,
per toccare la carne di Gesù nei fratelli poveri, malati, disprezzati,
per rialzare chi è caduto e sostenere chi vacilla.
Abbiamo bisogno dei tuoi piedi immacolati,
per andare incontro a chi non sa fare il primo passo,
per camminare sui sentieri di chi è smarrito,
per andare a trovare le persone sole.
Ti ringraziamo, o Madre, perché mostrandoti a noi
libera da ogni macchia di peccato,
Tu ci ricordi che prima di tutto c’è la grazia di Dio,
c’è l’amore di Gesù Cristo che ha dato la vita per noi,
c’è la forza dello Spirito Santo che tutto rinnova.
Fa’ che non cediamo allo scoraggiamento,
ma, confidando nel tuo costante aiuto,
ci impegniamo a fondo per rinnovare noi stessi,
questa Città e il mondo intero.
Prega per noi, Santa Madre di Dio

preghiera che Papa Francesco ha recitato l’8 dicembre 2016
all’Immacolata a Piazza di Spagna

 

Con questa prima Domenica di Avvento si apre il nuovo anno liturgico che nelle sue varie tappe sarà unito dalla lettura del Vangelo di Marco che vuole proporci un viaggio dello spirito nella storia e nel mistero di Gesù, passando dall’oscurità alla luce.

La Liturgia di questa domenica ci presenta:
Nella prima lettura, il profeta Isaia, che davanti alla desolazione del peccato, dell’ingiustizia e delle miserie che toccano il popolo, implora l’intervento di Dio chiedendogli di non lasciare andare in rovina la sua opera, ma di liberarla dall’oppressione del male.

Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, scrivendo ai Corinzi, ringrazia Dio delle grazie ricevute dalla giovane comunità di Corinto, ed è certo che lo stesso Dio, che ha arricchito i corinzi di tanti doni, li aiuterà ad essere saldi e irreprensibili sino alla fine.

Nel Vangelo di Marco, Gesù ci invita a vegliare, ma la nostra attesa non deve divenire un’attesa di paura perchè essa riguarda non tanto l’incontro con il Signore, ma l’eventualità di non trovarsi preparati quando questo incontro si realizzerà. La vigilanza deve avere come base la necessità di vivere quotidianamente secondo i valori del Vangelo, annunziati da Gesù.

Dal libro del profeta Isaia
Tu, Signore, sei nostro padre,
da sempre ti chiami nostro redentore.
Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie
e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi,
per amore delle tribù, tua eredità.
Se tu squarciassi i cieli e scendessi!
Davanti a te sussulterebbero i monti.
Quando tu compivi cose terribili che non attendevamo,
tu scendesti e davanti a te sussultarono i monti.
Mai si udì parlare da tempi lontani,
orecchio non ha sentito, occhio non ha visto
che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui.
Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle tue vie.
Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato
contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli.
Siamo divenuti tutti come una cosa impura,
e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie,
le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento.
Nessuno invocava il tuo nome,
nessuno si risvegliava per stringersi a te;
perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto,
ci avevi messo in balìa della nostra iniquità.
Ma, Signore, tu sei nostro padre;
noi siamo argilla e tu colui che ci plasma,
tutti noi siamo opera delle tue mani.
Is 63,16-17.19; 64,2-7

La terza parte del libro di Isaia (capitoli 56-66) contiene una raccolta di oracoli che, per lo stile e lo sfondo storico, sono attribuiti ad un anonimo profeta del postesilio, al quale perciò è stato dato il nome di Trito (Terzo) Isaia. Alcuni hanno ritenuto che egli fosse un discepolo del Deuteroisaia, mentre altri hanno pensato a un profeta vissuto più di un secolo dopo di lui. Il profeta si rivolge non più agli esiliati, ma ai giudei ritornati da Babilonia a Gerusalemme; il suo centro di interesse non è più il nuovo esodo, ma il ristabilimento delle istituzioni teocratiche, le quali sono minacciate non da agenti esterni, ma dalla infedeltà del popolo.

Il brano liturgico, che è una commovente e fiduciosa preghiera, una delle più belle dell’Antico Testamento, inizia con un’accorata invocazione:
Tu, Signore, sei nostro padre,da sempre ti chiami nostro redentore. Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità.

Il profeta si rivolge direttamente a Dio con accenti di grande intensità facendo proprio il grido di tutta la comunità. Dio viene invocato come “Padre” e “redentore”
(in ebraico (go’el), con questo termine si indica il parente prossimo che interviene in soccorso di chi si trova in una situazione di grande pericolo o necessità. Sia nel momento dell’uscita dall’Egitto, sia in quello del ritorno dall’esilio JHWH ha assunto nei confronti di Israele il ruolo del go’el, liberandolo e acquistandolo per sé con le sue azioni prodigiose ),
ma nello stesso tempo rivolge a Dio un rimprovero velato perché permette ai suoi servi di allontanarsi da Lui, fino ad indurire il loro cuore in modo tale da non temerlo più.
Il profeta mette in evidenza con una intensità crescente la disperazione di Israele: non solo è stato distrutto il suo santuario, distrutto dai babilonesi nel 587, ma Israele ha la sensazione di essere stato abbandonato completamente da Dio.

Infine torna la richiesta pressante e accorata affinché Dio intervenga direttamente dall'alto: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti.”
I cieli chiusi sono un’immagine per indicare la mancanza di comunicazione tra Dio e il Suo popolo. La richiesta di un nuovo intervento di Dio evoca le immagini tipiche della teofania, quando DIO era disceso sul Sinai e il monte era stato scosso dal terremoto (Es 19,18).

La preghiera prosegue con il ricordo degli interventi prodigiosi di Dio in favore di Israele. Di fronte alla manifestazione di DIO le nazioni hanno tremato perché Egli compiva cose terribili e inaudite, e commenta: “orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui”.
Anche qui si può notare un riferimento alla tradizione del Sinai dove viene affermata l’unicità di DIO: egli è l’unico che ha dimostrato una potenza così grande da liberare Israele (Es 20,3; Dt 6,4).
Da queste esperienze viene ricavato un principio generale circa il comportamento di Dio: “Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle tue vie”
Poi il profeta confessa a nome del popolo: Siamo divenuti tutti come una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento.

La preghiera non termina però con espressioni così disperate e alla fine ritorna il sentimento di fiducia: Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani”.
Come si era aperta, così la preghiera termina con l’attribuzione a DIO della qualifica di “Padre”. Questa gli compete perché è stato Lui a plasmare Israele, perciò il popolo è per Lui come l’argilla su cui è intervenuto per dargli la vita. Su questo rapporto originario e indissolubile si basa la fiducia del popolo in un avvenire migliore. Ma ciò che interessa maggiormente il profeta è il ristabilimento della comunione con Dio. Le sventure materiali sono dolorose non in se stesse, ma perché sono viste come il segno della lontananza di Dio. Se Dio dà un segno della Sua presenza in mezzo al popolo, allora anche le prove non saranno più così insostenibili.

Dio in Gesù Cristo ha totalmente infranto il suo splendido isolamento, “è disceso” in mezzo a noi “è andato incontro a quanti si ricordano delle sue vie”, ha svelato il Suo volto di “Padre” e di “redentore”. La rivelazione e l’incarnazione sono la testimonianza più reale di questo movimento di Dio senza il quale l’uomo resterebbe solitario in questo universo indifferente alle sue speranze, ai dolori, ai suoi misfatti.

Salmo 79 (80) Signore, fa' splendere il tuo volto e noi saremo salvi.
Tu, pastore d’Israele, ascolta,
seduto sui cherubini, risplendi.
Risveglia la tua potenza
e vieni a salvarci.

Dio degli eserciti, ritorna!
Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna,
proteggi quello che la tua destra ha piantato,
il figlio dell’uomo che per te hai reso forte.

Sia la tua mano sull’uomo della tua destra,
sul figlio dell’uomo che per te hai reso forte.
Da te mai più ci allontaneremo,
facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome.

Il salmo venne scritto quando ancora l’arca non era distrutta, il che avvenne con la distruzione di Gerusalemme. Probabilmente è stato scritto dopo la presa di Samaria da parte dell’Assiro Sargon (721), e dopo che Gerusalemme, assediata dall’Assiro Sennacherib dopo la devastazione della Giudea, rimase indenne (701). Questo evento fece risaltare la potenza di Dio nel suo tempio di Gerusalemme, e rese sensibile la Samaria verso Gerusalemme, cosa che permetterà l’azione riformista di Giosia (640-609) anche in territorio Samaritano.

Il salmista è un pio Israelita delle tribù del nord (Samaria) che desidera che le tribù di Efraim, Beniamino e Manasse siano benedette da Dio, la cui gloria sta sui cherubini dell’arca, posta nel tempio di Gerusalemme; desidera la fine dello scisma samaritano: “Seduto sui cherubini, risplendi davanti a Efraim, Beniamino e Manasse. Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci”.

A Dio, che guida Giuseppe “come un gregge”, il salmista chiede di manifestare nuovamente quella potenza che esercitò quando fece uscire “Giuseppe” dall’Egitto; intendendo per Giuseppe tutto Israele, finito in Egitto proprio a partire da lui (Gn 37,38).
Egli attraverso la bella immagine della vigna rievoca la storia di Israele: “Hai sradicato un vite dall’Egitto…”. Questa vite curata da lui ha esteso i suoi rami fino al Mediterraneo e fino al Libano: “La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli”. “Il fiume”, è l’Eufrate. Esso era lontano dalla Terra Promessa, ma indica fin dove giungeva l’influenza di Israele.

Il salmista è stordito di fronte alle sventure che si sono abbattute su Israele: “Signore, Dio degli eserciti, fino a quando fremerai di sdegno contro le preghiere del tuo popolo?”; “Perché hai aperto brecce nella sua città e ne fa vendemmia ogni passante ?”, ma non desiste dalla preghiera e invoca Dio, “Dio degli eserciti”, perché forte in battaglia per difendere i suo popolo: “Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell'uomo che per te hai reso forte”.
Il salmista riconosce la dinastia di Davide e ha la speranza che il re di Gerusalemme saprà risollevare le sorti di Israele, costui al presente era Ezechia (716-687): “Sia la tua mano sull’uomo della tua destra, sul figlio dell’uomo che per te hai reso forte”, ma nel futuro sarà il Cristo. Quell’uomo reso forte è ora ogni pontefice, ogni vescovo, ogni sacerdote, ogni diacono, ogni fedele, che tutti sono uno, nell’uno che è la Chiesa, corpo mistico di Cristo, e che si adoperano per portare nel mondo la vera pace, cioè Cristo.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla 1^ lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!
Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza. La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. Egli vi renderà saldi sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!
1 Cor 1,3-9

Paolo scrisse la prima lettera ai Corinzi durante la sua permanenza ad Efeso negli anni 54-55. E’ una delle più lunghe scritte dall’apostolo, paragonabile a quella dei Romani, ambedue infatti sono suddivise in 16 capitoli. Paolo si era deciso a scriverla dopo aver ricevuto notizie sulla comunità da parte di conoscenti della famiglia di Cloe e dopo che gli era anche pervenuta una lettera dagli stessi Corinzi. Corinto era un’importante grande città, (famosa per il suo porto), centro di cultura greca, dove si affrontavano correnti di pensiero e di religione molto differenti tra loro. Il contatto della fede cristiana con questa capitale del paganesimo, anche celebre per il rilassamento dei costumi, poneva nei neofiti numerosi e delicati problemi. Pur essendo passati solo pochi anni dalla sua fondazione, la comunità di Corinto si era dimostrata molto vivace e nello stesso tempo anche molto problematica.
In questo brano, in cui viene riportato l’inizio della lettera, Paolo comincia con il saluto: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo! in cui sono concentrati due stili, quello tipico del mondo ebraico “shalôm” (pace) e del mondo greco “chaire” (salve) poi continua con il rendimento di grazie:. “Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza.”

In questa frase Paolo, riprendendo uno dei termini dell’augurio appena fatto, ringrazia Dio per aver conferito ai corinzi la sua “grazia” in forza della quale possono entrare in un rapporto personale e vissuto con Lui; Dio l’ha data loro per mezzo del Signore Gesù Cristo, avendoli inseriti in Lui come membra di un corpo. Questa grazia porta con sé non solo la salvezza, ma una ricchezza di doni che riguardano sia la “parola” che la “conoscenza”. »
Poi Paolo continua esprimendo l’altro motivo di ringraziamento: La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo.

Tra i cristiani di Corinto si è stabilita saldamente la “testimonianza di Cristo” ossia il vangelo di Cristo, testimoniato dall’apostolo, ha messo radici profonde tra i corinzi. Di conseguenza essi non mancano ”di nessun carisma”, cioè di nessuno dei doni che lo Spirito conferisce a ciascuno per l’utilità comune . Al tema dei carismi l’apostolo dedicherà ben tre capitoli della sua lettera (cc. 12-14).

Ciò che i corinzi hanno già ricevuto lascia ben sperare anche per il futuro: Egli vi renderà saldi sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo. Paolo è dunque certo che lo stesso Dio, che ha arricchito i corinzi di tanti doni, li aiuterà ad essere saldi sino alla fine e irreprensibili «nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo»: con queste parole egli identifica il “giorno del Signore” annunziato dai profeti con quello della manifestazione gloriosa di Gesù Cristo, alla quale i credenti si preparano fin d’ora mediante una vita santa.
In questa prospettiva la fine non suscita più sentimenti di paura, ma di fiducia. Con queste parole Paolo vuole rassicurare i suoi corrispondenti, facendo loro capire che con i richiami, anche forti, che farà non intende assolutamente mettere in dubbio l’autenticità del loro cammino di fede.

L’apostolo conclude il ringraziamento affermando: Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!
L’affermazione “degno di fede è Dio”, è uno dei pilastri su cui si poggia la fede biblica! È vero che l’uomo può allontanarsi da Dio, attirando su di sé sofferenze e insuccessi, ma nello stesso tempo Dio non può venire meno alle Sue promesse. Per il fatto che li ha “chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo,” Egli non li potrà mai abbandonare a se stessi, perciò se anche in qualcosa hanno sbagliato, non per questo devono sentirsi abbandonati da Dio.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.
Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati.
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».
Mc 13, 33-37

Il Vangelo di Marco, che ci accompagnerà nella varie tappe di questo nuovo anno liturgico, è il primo dei Vangelo scritti, composto tra il 60 e il 70. E’ il più corto dei vangeli, (ha circa 11.230 parole) e a differenza di Matteo e Luca, non riporta alcuna informazione sulla vita di Gesù prima dell’inizio del Suo ministero; non vi è riportato neanche un accenno alla natività, né si fa menzione della genealogia di Gesù . Marco più che scrivere una biografia di Gesù, ha voluto attirare l’attenzione di chi legge il suo Vangelo sul mistero della persona del Cristo, sembra quasi che voglia porre il lettore di fronte all’avvenimento facendolo partecipare all’azione.

Questo brano, che è parallelo al Vangelo di Matteo, fa parte del così detto discorso escatologico. Gesù aveva fatto accenno al fico per indicare la necessità di saper discernere la venuta degli eventi finali, sottolineando che essi sono imminenti, ma si attueranno secondo tempi che non sono noti a nessuno, neppure al Figlio. Gesù aveva concluso, nei versetti precedenti non riportati dal brano liturgico, invitando a stare attenti e vigilare per mantenersi sempre pronti e per far comprendere quanto sia importante il messaggio, suggella quanto ha detto con le parole: Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Mc 13,31

Per sottolineare ancora la necessità dell’attesa vigilante. Gesù fa poi ricorso a una similitudine: “È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.”
Dopo questa similitudine, Gesù conclude:”Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati.
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!”

Gesù ci invita a vegliare, ma la nostra attesa non deve divenire un’attesa di paura perchè essa riguarda non tanto l’incontro con il Signore, ma l’eventualità di trovarsi impreparati quando questo incontro si realizzerà. La vigilanza quindi ha per oggetto la necessità di vivere quotidianamente secondo i valori del Vangelo, annunziati da Gesù.
Sebbene la piena realizzazione di tutto questo avrà luogo solo alla fine dei tempi, essa è già presente nel cuore di ogni credente la cui vita deve svolgersi nella dimensione del “già” e del “non ancora”: quello che non si è ancora attuato nella sua pienezza, è presente già ora come risultato delle nostre scelte.


Oggi iniziamo con la Chiesa il nuovo Anno liturgico: un nuovo cammino di fede, da vivere insieme nelle comunità cristiane, ma anche, come sempre, da percorrere all’interno della storia del mondo, per aprirla al mistero di Dio, alla salvezza che viene dal suo amore. L’Anno liturgico inizia con il Tempo di Avvento: tempo stupendo in cui si risveglia nei cuori l’attesa del ritorno di Cristo e la memoria della sua prima venuta, quando si spogliò della sua gloria divina per assumere la nostra carne mortale.

“Vegliate!”. Questo è l’appello di Gesù nel Vangelo di oggi. Lo rivolge non solo ai suoi discepoli, ma a tutti: “Vegliate!” . E’ un richiamo salutare a ricordarci che la vita non ha solo la dimensione terrena, ma è proiettata verso un “oltre”, come una pianticella che germoglia dalla terra e si apre verso il cielo. Una pianticella pensante, l’uomo, dotata di libertà e responsabilità, per cui ognuno di noi sarà chiamato a rendere conto di come ha vissuto, di come ha utilizzato le proprie capacità: se le ha tenute per sé o le ha fatte fruttare anche per il bene dei fratelli.

Anche Isaia, il profeta dell’Avvento, ci fa riflettere oggi con una preghiera accorata, rivolta a Dio a nome del popolo. Egli riconosce le mancanze della sua gente, e a un certo punto dice: “Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si risvegliava per stringersi a te; perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci avevi messo in balìa della nostra iniquità”(Is 64,6).
Come non rimanere colpiti da questa descrizione? Sembra rispecchiare certi panorami del mondo post-moderno: le città dove la vita diventa anonima e orizzontale, dove Dio sembra assente e l’uomo l’unico padrone, come se fosse lui l’artefice e il regista di tutto: le costruzioni, il lavoro, l’economia, i trasporti, le scienze, la tecnica, tutto sembra dipendere solo dall’uomo. E a volte, in questo mondo che appare quasi perfetto, accadono cose sconvolgenti, o nella natura, o nella società, per cui noi pensiamo che Dio si sia come ritirato, ci abbia, per così dire, abbandonati a noi stessi.

In realtà, il vero “padrone” del mondo non è l’uomo, ma Dio. Il Vangelo dice: “Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati” .
Il Tempo di Avvento viene ogni anno a ricordarci questo, perché la nostra vita ritrovi il suo giusto orientamento, verso il volto di Dio. Il volto non di un “padrone”, ma di un Padre e di un Amico.

Con la Vergine Maria, che ci guida nel cammino dell’Avvento, facciamo nostre le parole del profeta. “Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani” (Is 64,7).
Papa Benedetto XVI
Angelus del 27 novemebre 2011

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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