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Henryk

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In ogni ultima domenica dell’Anno liturgico, la Chiesa celebra Cristo Re dell'Universo. La storia di questa festa parte dal 1899 con papa Leone XIII, ma fu PIO XI che la confermò come festa con l'enciclica Quas Primas dell'11 dicembre 1925. Gesù Cristo è re, perché è l'unico mediatore della salvezza di tutta la creazione. Solo in Lui, tutte le cose trovano il loro compimento, la loro vera consistenza secondo il disegno creatore di Dio.

Nella prima lettura tratta dal libro del profeta Ezechiele, troviamo una luminosa in cui il Signore appare come il pastore del suo popolo. Un pastore che non si comporta da sovrano distaccato, ma che è amoroso compagno di viaggio dei suoi figli.

Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, nella sua prima lettera ai Corinzi, afferma che con la Sua risurrezione Gesù ha inaugurato il regno di Dio e mediante la risurrezione finale dai morti, vincerà l’ultima delle potenze del male, la morte, e solo allora Egli consegnerà il regno a Dio Padre, il quale regnerà come unico sovrano per sempre.

Il Vangelo di Matteo, ci offre un’immagine del giudizio universale con Cristo che tornerà nella gloria con tutti i suoi angeli. Cristo non è paragonato ad un giudice simile a quelli umani, ma a un pastore. Egli compirà una divisione tra pecore e capri, tra buoni e cattivi. Il Suo giudizio non sarà altro che un riconoscere il comportamento di ogni uomo nel confronti del fratello. E’ l’uomo, quindi che si condanna o si salva a seconda di come ha condotta la propria vita, se nell’egoismo, alla ricerca del proprio interesse, o invece nella attenzione verso i piccoli, gli indifesi, i bisognosi, nei quali riconosce il volto di Cristo.

Dal libro del profeta Ezechiele
Così dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine.
Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia.
A te, mio gregge, così dice il Signore Dio: Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri.
Ez 34,11-12,15-17

Il profeta Ezechiele, il cui nome significa “El (Dio) fortifica”, nacque intorno al 620 a.C. al crepuscolo del regno di Giuda. Suo padre era un sacerdote, e sacerdote fu egli stesso fin da giovane, e questo segnerà per sempre il suo stile e il suo pensiero. Fu tra i primi deportati a Babilonia per opera di Nabucodonosor nel 597 a. C., e visse con la comunità giudaica stanziata a sud di Babilonia, a Tel-abib, vicino al fiume Chebar (1,1-3; 3,15). Nel 593, sulle rive di questo fiume, ha una visione grandiosa della gloria di JHWH e ode una voce che gli ordina di essere profeta. Ezechiele è certamente un profeta meno importante di Isaia o Geremia, ma ha una sua originalità, una sincerità e un abbandono alla sua missione che possono farlo ingiustamente apparire ingenuo, quando in realtà vuole solo cercare di riportare il più fedelmente possibile il messaggio di cui è latore, e per non mettere a rischio l'efficacia del suo messaggio, preferisce essere talvolta semplice e ripetitivo.

Il libro che porta il suo contiene due raccolte di oracoli, quelli composti prima della caduta di Gerusalemme (cc. 1-24) e quelli posteriori ad essa (cc. 33-39). Tra queste due raccolte si situano gli oracoli contro le nazioni (cc. 25-32). Al termine è riportata una sezione chiamata «Torah di Ezechiele» (cc. 40-48), dove sono descritte le istituzioni future. Gli oracoli posteriori alla caduta di Gerusalemme hanno come tema la conversione di Israele e il ritorno degli esuli nella loro terra. Questa raccolta si apre con un oracolo nel quale viene delineato il ruolo del profeta come sentinella (33,1-9), già descritto negli stessi termini dopo la visione inaugurale (cfr. 3,16-21), e una raccolta di oracoli riguardanti la svolta che sta per verificarsi. Segue una serie di oracoli che trattano i seguenti temi: JHWH unico pastore di Israele (Ez 34), rinnovamento del popolo (Ez 35-37), la vittoria finale sui nemici di Israele (Ez 38-39).

Nel brano liturgico,tratto dal 34 capitolo, vediamo Ezechiele, riprendere il tema caro a Geremia, accusa i capi del popolo, che secondo una metafora orientale chiama "pastori“, dei loro crimini e poi annuncia:
Così dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore…. dove erano disperse …. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia.”

Dunque sarà il Signore stesso a condurre le pecore al pascolo e a farle riposare . Per prima cosa andrà in cerca della pecora perduta e ricondurrà all'ovile quella smarrita (v. 16a); poi fascerà quella ferita e curerà quella malata, senza con ciò perdere di vista avrò quella grassa e quella forte (v. 16b); infine pascerà tutte le pecore con giustizia (v. 16c), cioè senza far mancare loro nulla di ciò che hanno bisogno, Infine il Signore giudicherà fra pecora e pecora, fra montoni e capri, impedendo ai capi più forti di far del male ai più deboli (vv. 18-22). In questi quatto tipi di intervento sono descritti simbolicamente i compiti di chi detiene l’autorità: tenere uniti i membri del popolo, fare sì che a tutti siano assicurati i mezzi di sussistenza, evitare la sopraffazione dei poveri da parte dei benestanti, risolvere con giustizia le controversie che dovessero sorgere fra la gente.

E’ da notare la bellissima serie dei verbi della “premura” di Dio: “cercare, curare, passare in rassegna, condurre al pascolo, far riposare, cercare la pecora perduta”. La frase finale “A te, mio gregge, così dice il Signore Dio: Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri.“ prepara poi la grandiosa scena del re-pastore-giudice del Vangelo di Matteo.

Salmo 23 (22) - Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare.
Ad acque tranquille mi conduce.

Rinfranca l’anima mia,
mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.

Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.

Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni.

L’orante ha fatto l’esperienza di come il Signore lo guidi in mezzo a numerose difficoltà tesegli dai nemici. Egli dichiara che non manca di nulla perché Dio in tutto l’aiuta. Le premure del suo Pastore sono continue e si sente curato come un pastore cura il suo gregge conducendolo a pascoli erbosi e ad acque tranquille. L’orante riconosce che tutto ciò viene dalla misericordia di Dio, che agisce “a motivo del suo nome”, ma egli corrisponde con amore all’iniziativa di Dio nei suoi confronti. La consapevolezza che Dio lo ama per primo gli dà una grande fiducia in lui, cosicché se dovesse camminare nel buio notturno di una profonda valle non temerebbe le incursioni di briganti o persecutori, piombanti dall’alto su di lui. La valle oscura è poi simbolo di ogni situazione difficile nella quale tutto sembra avverso.

Dio, buon Pastore, lo difende con il suo bastone e lo guida dolcemente con il suo vincastro, che è quella piccola bacchetta con cui i pastori indirizzano il gregge con piccoli colpetti. Non solo lo guida in mezzo alle peripezie, ma anche gli dona accoglienza, proprio davanti ai suoi nemici, i quali pensano di averlo ridotto ad essere solo uno sconvolto e disperato fuggiasco. Egli, al contrario, è uno stabile ospite del Signore che gli prepara una mensa e gli unge il capo con olio per rendere lucenti i suoi capelli e quindi rendere bello e fresco il suo aspetto. E il calice che ha davanti è traboccante, ma non perché è pieno fino all’orlo, ma perché è traboccante d'amore. Quel calice di letizia è nel sensus plenior del salmo il calice del sangue di Cristo, mentre la mensa è la tavola Eucaristica, e l’olio è il vigore comunicato dallo Spirito Santo.

Il cristiano abita nella casa del Signore, l’edificio chiesa, dove c’è la mensa Eucaristica. Quella casa, giuridicamente, è della Diocesi, della Curia, ma è innanzi tutto del Signore, e quindi egli, per dono del Signore, vi è perenne legittimo abitante.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Paolo Apostolo ai Corinzi
Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.
Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza.
È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte.
E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.
1Cor 15,20-26,28

Paolo scrisse la prima lettera ai Corinzi durante la sua permanenza ad Efeso negli anni 54-55. E’ una delle più lunghe scritte dall’apostolo, paragonabile a quella scritta ai Romani, ambedue infatti sono suddivise in 16 capitoli. Paolo si era deciso a scriverla dopo aver ricevuto notizie sulla comunità da parte di conoscenti della famiglia di Cloe e dopo che gli era anche pervenuta una lettera dagli stessi Corinzi. Corinto era un’importante grande città, (famosa per il suo porto), centro di cultura greca, dove si affrontavano correnti di pensiero e di religione molto differenti tra loro. Il contatto della fede cristiana con questa capitale del paganesimo, anche celebre per il rilassamento dei costumi, poneva nei neofiti numerosi e delicati problemi.

Nel 15 capitolo della lettera, da dove è tratto il brano liturgico, rispondendo a problemi che gli avevano posto, Paolo affronta il tema della risurrezione finale, affermando che il rifiuto della risurrezione dei credenti porterebbe all’assurdo di negare la risurrezione stessa di Cristo. Perciò Paolo riafferma il punto centrale di questa fede: “Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”.
Il termine “primizia”, usato da lui anche in altre occasioni (V.. Rm 8,23; 11,16), è di origine cultuale e indica i primi frutti che anticipano e garantiscono l’abbondanza del raccolto. La risurrezione di Cristo è una primizia non solo perché precede la risurrezione di tutti i credenti, ma anche e soprattutto perché ne è il modello e la causa. Il concetto di primizia viene ancora approfondito da Paolo alla luce della concezione biblica secondo cui i membri di un gruppo formano una sola cosa con colui che ne è il capo e che li rappresenta. Questo principio sta alla base del racconto della caduta (cfr. Gen 3), nel quale il primo uomo è presentato come il progenitore dell’umanità peccatrice, che egli da una parte rappresenta e dall’altra coinvolge nel suo stesso peccato e nella sua conseguenza immediata, la morte (V. Rm 5,21).

Rifacendosi a questa concezione Paolo prosegue affermando: “Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita”.
In quanto solidale con Adamo l’umanità fa fin d’ora l’esperienza della morte. La risurrezione dai morti invece per ora si è attuata solo in Cristo; per quanto riguarda i credenti, che “riceveranno la vita in Cristo” si tratta invece di un evento escatologico. Il termine “tutti” usato in riferimento ad Adamo indica l’intera umanità, mentre in riferimento a Cristo designa solo coloro che aderiscono a Lui mediante la fede. La risurrezione finale dei credenti è dunque una conseguenza della comunione con Cristo, di cui la solidarietà in Adamo appare solo come una realtà negativa ormai passata.

A questo punto l’apostolo per fare una precisazione circa i tempi della salvezza, afferma: “Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo”. Tra la risurrezione di Cristo, che è un evento già attuato, e quella dei credenti, che avrà luogo alla fine, c’è non solo una diversità di tempo, ma anche di “ordine”, cioè di im
portanza, come tra i diversi gradi di un esercito.

Questa diversità proviene dal fatto che Cristo è la “primizia”: la Sua risurrezione preannuncia perciò quella dei credenti, la quale però avrà luogo solo “alla sua venuta”, cioè al momento del Suo ritorno glorioso.
Nella seconda parte del brano Paolo collega strettamente il regno di Cristo con il regno di Dio, mettendo in luce il loro avvicendarsi nel piano della salvezza. Egli ritiene che con la risurrezione di Cristo abbia avuto inizio il Suo regno messianico (V. At 2,34-36), che deve durare fino alla fine, “quando egli consegnerà il regno a Dio Padre”, e ciò avverrà “dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza”.
Questa progressiva vittoria viene descritta con le parole del Sal 110,1, dove Dio rivolgendosi al re di Giuda, figura del Messia, dice: “Siedi alla mia destra,finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi”.
I nemici di Cristo e di Dio non sono realtà esterne all’uomo, ma tutto ciò che lo separa da Dio (ingiustizia, violenza, odio, ecc.) procurandogli la morte eterna. Paolo sottolinea espressamente che “l’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte”, la cui sconfitta avrà luogo appunto mediante la risurrezione dei morti. Se Cristo non fosse capace di eliminarla, non sarebbe veramente il Signore nel quale la comunità professa la sua fede. La vittoria di Cristo viene poi nuovamente affermata con le parole del Sal 8,7, dove il salmista, parlando dell’uomo dice: “Tutto hai posto sotto i suoi piedi. L’apostolo precisa però che da questo “tutto” è escluso Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, cioè il Padre.

E infine soggiunge: “quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.” (*)
Quando Cristo si sottometterà al Padre, sarà la fine, cioè la conclusione e il compimento di tutta la storia. Allora infatti Dio sarà finalmente “tutto in tutti” perchè ci sarà la piena comunione con Dio, alla quale è chiamata l’umanità redenta, e con essa tutto il creato.

Secondo Paolo dunque con la Sua risurrezione Gesù ha inaugurato il regno di Dio che aveva annunziato durante la Sua vita terrena. Egli è divenuto così come un re che è già stato incoronato, ma non ha ancora portato a termine la conquista dei territori che gli sono stati affidati; deve quindi combattere per vincere tutte le potenze che dominano in questo mondo. Mediante la risurrezione finale dai morti, Gesù vincerà l’ultima di queste potenze, la morte, e solo allora Egli consegnerà il regno a Dio Padre, il quale regnerà come unico sovrano per sempre.
In altre parole Dio manifesterà pienamente il Suo regno solo quando tutta l’umanità entrerà nella vita nuova che per primo Cristo ha ricevuto. La risurrezione di Cristo e quella dei credenti sono quindi due realtà indivisibili: se si nega la seconda, si nega perciò per coerenza anche la prima. Sottomettersi a Cristo “re” non significa dunque lottare per far prevalere il punto di vista della Chiesa nella società, ma impegnarsi a fondo per il bene vero di tutti gli uomini, affinché la realtà escatologica del regno possa essere già chiaramente visibile, anche se non ancora pienamente realizzata.
(*) Nota Questa teoria di Paolo ha dato origine alla dottrina dell'apocatastasi sostenuta da Origene, ma che fu condannata come eresia nel V Concilio ecumenico, il Concilio di Costantinopoli del 553.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.»

Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.
Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.
E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».
Mt 25, 31-46

Questo brano del Vangelo di Matteo riporta l’ultima settimana trascorsa da Gesù a Gerusalemme prima della passione. Gesù prima aveva raccontato la parabola delle dieci vergini, poi la parabola dei talenti, che abbiamo meditato nelle precedenti domeniche, ed ora più che una parabola il brano inizia presentando una vera e propria profezia su quello che sarà il nostro incontro con Dio.
“Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria”.
La descrizione ricorda la teofania descritta da Zaccaria: Verrà allora il Signore mio Dio e con lui tutti i suoi santi. (Zc 14,5). Ma mentre nell’AT Dio non si faceva vedere da nessuno, Gesù al contrario apparirà visibilmente dinanzi a tutte le genti. Egli verrà per giudicare il mondo, avvolto dallo splendore della divinità (la “sua” gloria) e attorniato da tutti gli angeli, che costituiranno la Sua corte celeste. Gesù dunque si manifesterà come il Figlio dell’uomo, al quale Dio “diede potere, gloria e regno” (Dn 7,14) e sarà presentato con le Sue qualità di re e di pastore.
La venuta del giudice supremo dà inizio a una grande convocazione: Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli.”Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.”

Alla grandiosa manifestazione escatologica del Figlio dell’uomo sono chiamate tutte le genti e il giudizio non riguarderà le nazioni come collettività, bensì le singole persone che le compongono, le quali verranno giudicate secondo le loro opere.
La sentenza viene emessa in due parti, riguardanti rispettivamente i giusti e gli empi: Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo,
Il regno, promesso da Gesù ai poveri, ai perseguitati, nel giorno del giudizio viene trasmesso da Cristo giudice con il conferimento della salvezza totale e definitiva a coloro che hanno usato misericordia verso i bisognosi.

Vengono poi date le motivazioni della sentenza: perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Alla sentenza del giudice i giusti reagiscono con una certa sorpresa dicendo: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”

E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
La risposta dimostra che anche dopo la glorificazione Gesù continua a manifestare la Sua presenza nelle persone più bisognose, mantenendo una comunione particolare con esse, perché prive d’ogni altro appoggio e d’ogni sicurezza terrena.

La condanna di quelli che stanno alla sinistra costituisce il risvolto negativo del giudizio che è la contrapposizione del dialogo con i giusti. Dio nell’Eden aveva maledetto il serpente ma non l’uomo, anche se venne assoggettato per punizione al lavoro faticoso. Ora la maledizione del Figlio dell’uomo segna la condanna definitiva dei malvagi e la privazione eterna della comunione con Dio. Gesù infatti dice: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.

È rilevante però che, mentre nella parte precedente i giusti sono benedetti dal Padre, in questa il Padre non viene nominato come colui che maledice. Inoltre non si afferma che il fuoco sia stato preparato per l’uomo, bensì per il diavolo e per i suoi angeli. Quindi l’uomo, facendo buon uso della sua libertà, può sfuggire alla perdizione, ed essere così salvato.
La parabola termina con :E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna”.
Le parole di Gesù sono severe e serene allo stesso tempo, ci invitano ad un impegno serio e faticoso, ma sono anche fonte di gioia e di speranza. Ci fanno capire che Gesù non è un re distante e impassibile, relegato alle dimore celesti, ma è vicino a noi, più di quanto noi possiamo sperare ed immaginare.

Le stupende parole di S.Agostino ce ne dipingono un po’ la sua vera fisionomia:
“tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace” (Confessioni 27,38)

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Una parola sul brano del giudizio finale, in cui viene descritta la seconda venuta del Signore, quando Egli giudicherà tutti gli esseri umani, vivi e morti L’immagine utilizzata dall’evangelista è quella del pastore che separa le pecore dalle capre. Alla destra sono posti coloro che hanno agito secondo la volontà di Dio, soccorrendo il prossimo affamato, assetato, straniero, nudo, malato, carcerato - ho detto “straniero”: penso a tanti stranieri che sono qui nella diocesi di Roma: cosa facciamo per loro? - mentre alla sinistra vanno coloro che non hanno soccorso il prossimo. Questo ci dice che noi saremo giudicati da Dio sulla carità, su come lo avremo amato nei nostri fratelli, specialmente i più deboli e bisognosi. Certo, dobbiamo sempre tenere ben presente che noi siamo giustificati, siamo salvati per grazia, per un atto di amore gratuito di Dio che sempre ci precede; da soli non possiamo fare nulla. La fede è anzitutto un dono che noi abbiamo ricevuto. Ma per portare frutti, la grazia di Dio richiede sempre la nostra apertura a Lui, la nostra risposta libera e concreta. Cristo viene a portarci la misericordia di Dio che salva. A noi è chiesto di affidarci a Lui, di corrispondere al dono del suo amore con una vita buona, fatta di azioni animate dalla fede e dall’amore

Papa Francesco
Parte del commento tenuto all’’udienza generale del 24 aprile 2013

 

Questa domenica, la penultima dell’anno liturgico, le letture che la liturgia ci propone ci aiutano a comprendere che il Signore ci vuole responsabili dei “beni della creazione e della grazia affidati dal Padre alle mani dell’uomo”. Questa domenica si celebra anche la Prima giornata mondiale dei poveri, promossa da Papa Francesco, che ha per tema “Non amiamo a parole, ma con i fatti”.

Nella prima lettura, tratta dal Libro dei Proverbi, elogia i meriti della donna di casa e la gioia di cui essa sa colmare il suo focolare. La qualità della donna perfetta sono la laboriosità, l’interesse per i poveri, il parlare con saggezza e bontà, il timore di Dio e la donazione totale al marito e ai figli che possono solo lodarla.

Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Tessalonicesi, Paolo paragona la venuta del giorno del Signore a quella di un ladro, che non si sa quando viene, ed afferma che se saremo vigilanti e vivremo nella speranza, quali figli della luce e del giorno, non avremo nulla da temere.

Nel Vangelo di Matteo, possiamo meditare sulla famosa parabola dei talenti, che un padrone consegna ai propri servi a seconda di quanto pensa possa oguno farli fruttare. Come i servi che hanno avuto in dotazione i vari talenti, anche noi siamo chiamati a non considerare mai i doni di Dio come fredde pietre preziose, ma come semi da piantare e coltivare perchè portino a suo tempo frutto.

Dal libro dei Proverbi
Una donna forte chi potrà trovarla?
Ben superiore alle perle è il suo valore.
In lei confida il cuore del marito
e non verrà a mancargli il profitto.
Gli dà felicità e non dispiacere per tutti i giorni della sua vita.
Si procura lana e lino e li lavora volentieri con le mani.
Stende la sua mano alla conocchia e le sue dita tengono il fuso.
Apre le sue palme al misero, stende la mano al povero.
Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare.
Siatele riconoscenti per il frutto delle sue mani e le sue opere la lodino alle porte della città.
Pr 31,10-13,19-20,30-1

Il Libro dei Proverbi è un testo contenuto sia nella Bibbia ebraica che cristiana. È stato scritto in ebraico, intorno al V secolo a.C., raccogliendo testi scritti da autori ignoti lungo i secoli precedenti fino al periodo monarchico (XI-X secolo a.C.). È composto da 31 capitoli contenenti vari proverbi e detti sapienziali. Se è attribuito tutto al re Salomone, che ha regnato dal 970 al 931 a.C. , ciò è dovuto al fatto che questo re è considerato il “Saggio di Israele” , però solo la seconda e la quinta, le più antiche, delle raccolte possono rivendicare il suo intervento. Le altre sono più recenti soprattutto la prima e l’ultima potrebbero risalire al V secolo. La sapienza che proviene dai Proverbi non rimane tesa ad una virtù puramente umana, conquista della ragione. Nell’insieme del Libro essa assume un senso religioso e morale assai profondo: poiché questa condotta di vita è intesa come esigenza di fedeltà verso Dio, come “timore di Dio”. Ancora di più:il comportamento umano che si predica vuole essere come un riflesso del pensiero e dello stile di Dio, ossia della Sapienza divina, che, eterna, presiede alla creazione e all’ordine del mondo.

In questo brano, tratto dall’ultimo capitolo del Libro, viene “dipinta”a parole una donna, personaggio di gran fortuna nella vita e tradizione ebraica, più che in quella cristiana. Tale personaggio è un autentico modello di vita per le donne ebree lungo i secoli. Vediamo a mano a mano formarsi il quadro di una donna oculata, pronta ad ogni evenienza, capace di destreggiarsi in qualunque circostanza. In poche parole, l’incarnazione di quella Signora Sapienza che sa passare dalla morale laica quotidiana, al senso degli affari, a più alti insegnamenti morali. C’è anche un richiamo al tema della bellezza di scarsa durata:” Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare.

E’ evidente che non si tratta di una donna bigotta, ma di una donna d’azione che ha sempre presente il progetto di Dio e l’acquisizione della sapienza che nasce dalla venerazione di Lui.
Il brano termina con un ammonimento: : “Datele del frutto delle sue mani e le sue stesse opere la lodino alla porta della città” . E’ un invito diretto a noi, che ci esorta a lodarla, come già facevano i membri della sua famiglia. Una ragione di più per pensare alla “donna forte” come alla signora Sapienza che è madre di tutti noi.

Salmo 128 (127) Beato chi teme il Signore.
Beato chi teme il Signore
e cammina nelle sue vie.
Della fatica delle tue mani ti nutrirai,
sarai felice e avrai ogni bene.

La tua sposa come vite feconda
nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo
intorno alla tua mensa.

Ecco com’è benedetto
l’uomo che teme il Signore.
Ti benedica il Signore da Sion.
Possa tu vedere il bene di Gerusalemme
Tutti i giorni della tua vita!

Il salmo presenta l'intima gioia famigliare concessa da Dio all'uomo che lo teme e cammina nelle sue vie. “Teme il Signore”; non è qui il timor servile, cioè il timore di incorrere nella punizione che ha il servo di fronte al padrone, ma è il timore che un figlio deve avere verso un Padre buono. Il timore di Dio è principio di sapienza (Pr 1,7; 9,10; 15,23; Gb 28,28; Sir 1,14.16.18.20), cioè di conoscenza della parola di Dio nell'impegno di tradurla in viva esistenza, camminando così “nelle sue vie”.
"Della fatica delle tue mani ti nutrirai" cioè il tuo lavoro avrà buon esito.
“Nell'intimità della casa”, avrà gioia dalla sposa, presentata nella bella immagine di una vite feconda; feconda di gioia, di vivacità, di operosità e di affetto. A ciò si aggiunge la gioia data dai figli presentati come virgulto d'ulivo attorno alla mensa.
Il salmo presenta un'invocazione di benedizione sull'uomo giusto: “Ti benedica il Signore da Sion...”, dove Sion è il monte simbolo della stabilità delle promesse di Dio.
Veramente è giunta a noi la benedizione di Dio da Sion nel sacrifico redentore del Figlio.
Tale benedizione è per tutti i popoli, e ha costituito la Chiesa, chiamata ad estendersi su tutta la terra per l'avvento globale della civiltà dell'amore, che è la Gerusalemme messianica (Ap 21,9s), la Gerusalemme senza le mura (Zc 2,8) .
“Pace su Israele”, invoca il salmo. E noi diciamo pace sulla Chiesa, l'Israele di Dio (Gal 6,16); come pace - quella che sgorga dall'accoglienza di Cristo - invochiamo su l'Israele etnico, cioè secondo la carne (1Cor 10,18), e su tutti i popoli.
Commento di P.Paolo Berti


Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Riguardo ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!», allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire. Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri.
1Ts 5,1-6

Paolo, continuando la sua lettera ai Tessalonicesi, dopo aver trattato il tema del ritorno imminente del Signore (che abbiamo approfondito la scorsa domenica ), in questo brano si ricollega a questo insegnamento per dare direttive pratiche circa l’atteggiamento da assumere nel periodo dell’attesa.
Riferendosi forse al desiderio di coloro che volevano conoscere il momento preciso della fine, dichiara che a questo proposito non ha nulla da aggiungere a quello che ha già spiegato oruna. Paolo si limita perciò a ripetere brevemente il suo insegnamento che coincide con quello della chiesa a primitiva: “sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!», allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire”.

Quelli perciò che si poggiano solo sulle proprie sicurezze, essi non sfuggiranno al giorno del Signore. Proprio perché non erano in atteggiamento di vigilanza questo giorno sarà per loro una rovina e non potranno sfuggirvi. Il profeta Amos (VIII a.C,) descriveva il giorno del Signore, al quale è impossibile sfuggire, dandocene una visione impressionante: “Che sarà per voi il giorno del Signore?Sarà tenebre e non luce. Come quando uno fugge davanti al leone e s’imbatte in un orso; entra in casa, appoggia la mano sul muro e un serpente lo morde.(V.5,18-19)
Ma per rincuorare i destinatari del suo messaggio, Paolo afferma : “Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro”.

Emerge ancora la contrapposizione tra i credenti e i non-credenti. La vocazione cristiana ha sottratto i credenti al mondo tenebroso dell'ignoranza e della chiusura di fronte al futuro, per collocarli nella nuova situazione luminosa di apertura positiva alla salvezza di Dio. Paolo sfrutta il motivo del dualismo luce-tenebre, cioè bene-male, salvezza-perdizione, conosciuto nell'ambiente giudaico di Qumran, variandolo con l'antitesi di giorno e notte
“Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre”
Paolo ribadisce il concetto: i tessalonicesi sono figli della luce. Questo non è in virtù di una predestinazione come lo era per i membri di Qumran. Piuttosto i tessalonicesi sono ammessi alla salvezza per il semplice fatto di aver aderito al Vangelo. Allo stesso modo coloro che sono esclusi dalla salvezza, i figli delle tenebre, lo sono poiché hanno rifiutato di credere al Vangelo e a Paolo che lo aveva loro annunciato.

Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri.
Paola ritorna qui all'esortazione a distinguersi dagli altri, a non lasciarsi andare al torpore e alle ubriachezze, ma ad impegnarsi ad essere sempre vigili e pronti ad ogni evento. In questo contesto ha molta importanza la preghiera, vista come un efficace mezzo con cui il credente ricupera ogni giorno il senso della sua vita e il rapporto con Dio e con gli altri.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.
Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.
Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”.
Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».
Mt 25, 14-30

 

Questo brano riporta l’ultima settimana trascorsa da Gesù a Gerusalemme prima della passione. Fa parte del discorso escatologico che Gesù aveva iniziato e questa parabola dei talenti è collegata all'insegnamento della parabola precedente delle dieci vergini, con la quale ha in comune il tema del regno di Dio.
Il racconto inizia riportando l’antefatto della parabola. Prima di partire per un viaggio un uomo chiama i suoi servi e consegna loro i suoi beni: a uno dà cinque talenti, ad un altro due, ad un altro ancora uno, ciascuno secondo la sua capacità. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.

La resa dei conti ha luogo al ritorno del padrone, che avviene “dopo molto tempo” e questo potrebbe essere un’allusione alla parusia e al ritardo con cui essa si attua.
Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presenta altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”, e negli stessi termini si svolge il dialogo con il servo che aveva ricevuto due talenti e che ne riporta altri due. Viene infine il turno del terzo servo che si giustifica dicendo: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. ». Ma il signore gli risponde: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. “ e conclude Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti.
Ciò che innervosisce il padrone probablmente non è tanto il fatto che il servo non abbia fatto fruttificare il talento ricevuto, ma il motivo che adduce: egli non aveva una buon concetto del padrone, lo considerava duro e avido, e quindi non ha avuto il coraggio di rischiare per non incorrere in una punizione.

La risposta del padrone è chiaramente condizionata da questa falsa motivazione: se il servo pensava che egli fosse così rigido ed esoso, a maggior ragione avrebbe dovuto darsi da fare per far fruttificare il talento che gli era stato affidato. La severità del padrone è quindi determinata non tanto dalla mancanza di profitto, ma piuttosto dal giudizio negativo che il servo si era fatto di lui..
L’interpretazione della parabola viene fatta mediante un detto di Gesù: “Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha , verrà tolto anche quello che ha”. Infine vengono riportate le parole di condanna del padrone: E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».

La punizione consiste dunque non solo nella privazione del talento ricevuto, ma, come nella parabola delle dieci vergini, nell’esclusione dal banchetto celeste, la “gioia” del Signore.
In questa parabola, è chiaramente evidenziato il dovere imposto a tutti i credenti, di lavorare all'avanzamento del regno di Cristo e della Sua gloria, come pure il fatto che, alla Sua venuta, il Signore ci chiederà conto dei “talenti” che ci ha affidato, perchè essi non sono nostri per diritto, Lui ce li ha dati solo in prestito. Non dovremmo mai dimenticare che tutto lo abbiamo avuto in prestito, tutto, anche la vita che dobbiamo restituire quando Lui la richiederà.

Nota: Nel primo secolo, un talento valeva seimila denari. Per comprendere la proporzione, basti pensare che un legionario romano aveva uno stipendio di trenta denari. Quanto avrebbe dovuto lavorare per guadagnare un talento? Comprendiamo allora che anche un talento è una cifra piuttosto alta, anche se è la più piccola somma menzionata nella distribuzione dei beni del padrone ai suoi servi. Un talento è una somma da investimento, un capitale adatto a chi voglia fare l'imprenditore. I doni di Dio non sono mai piccoli, hanno sempre uno spessore e una profondità immensa, perché sono dati in previsione di un "investimento".

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Quel padrone affida al primo servitore cinque talenti, al secondo due, al terzo uno. Durante l’assenza del padrone, i tre servitori devono far fruttare questo patrimonio. Il primo e il secondo servitore raddoppiano ciascuno il capitale di partenza; il terzo, invece, per paura di perdere tutto, seppellisce il talento ricevuto in una buca. Al ritorno del padrone, i primi due ricevono la lode e la ricompensa, mentre il terzo, che restituisce soltanto la moneta ricevuta, viene rimproverato e punito.

E’ chiaro il significato di questo. L’uomo della parabola rappresenta Gesù, i servitori siamo noi e i talenti sono il patrimonio che il Signore affida a noi. Qual è il patrimonio? La sua Parola, l’Eucaristia, la fede nel Padre celeste, il suo perdono… insomma, tante cose, i suoi beni più preziosi. Questo è il patrimonio che Lui ci affida. Non solo da custodire, ma da far crescere!
Mentre nell’uso comune il termine “talento” indica una spiccata qualità individuale – ad esempio talento nella musica, nello sport, eccetera –, nella parabola i talenti rappresentano i beni del Signore, che Lui ci affida perché li facciamo fruttare. La buca scavata nel terreno dal «servo malvagio e pigro» indica la paura del rischio che blocca la creatività e la fecondità dell’amore. Perché la paura dei rischi dell’amore ci blocca. Gesù non ci chiede di conservare la sua grazia in cassaforte!

Non ci chiede questo Gesù, ma vuole che la usiamo a vantaggio degli altri. Tutti i beni che noi abbiamo ricevuto sono per darli agli altri, e così crescono. È come se ci dicesse: “Eccoti la mia misericordia, la mia tenerezza, il mio perdono: prendili e fanne largo uso”. E noi che cosa ne abbiamo fatto? Chi abbiamo “contagiato” con la nostra fede? Quante persone abbiamo incoraggiato con la nostra speranza? Quanto amore abbiamo condiviso col nostro prossimo? Sono domande che ci farà bene farci. Qualunque ambiente, anche il più lontano e impraticabile, può diventare luogo dove far fruttificare i talenti.
Non ci sono situazioni o luoghi preclusi alla presenza e alla testimonianza cristiana. La testimonianza che Gesù ci chiede non è chiusa, è aperta, dipende da noi.

Questa parabola ci sprona a non nascondere la nostra fede e la nostra appartenenza a Cristo, a non seppellire la Parola del Vangelo, ma a farla circolare nella nostra vita, nelle relazioni, nelle situazioni concrete, come forza che mette in crisi, che purifica, che rinnova. Così pure il perdono, che il Signore ci dona specialmente nel Sacramento della Riconciliazione: non teniamolo chiuso in noi stessi, ma lasciamo che sprigioni la sua forza, che faccia cadere muri che il nostro egoismo ha innalzato, che ci faccia fare il primo passo nei rapporti bloccati, riprendere il dialogo dove non c’è più comunicazione … E così via. Fare che questi talenti, questi regali, questi doni che il Signore ci ha dato, vengano per gli altri, crescano, diano frutto, con la nostra testimonianza.

Credo che oggi sarebbe un bel gesto che ognuno di voi prendesse il Vangelo a casa, il Vangelo di San Matteo, capitolo 25, versetti dal 14 al 30, Matteo 25, 14-30, e leggere questo, e meditare un po’: “I talenti, le ricchezze, tutto quello che Dio mi ha dato di spirituale, di bontà, la Parola di Dio, come faccio che crescano negli altri? O soltanto li custodisco in cassaforte?”. E inoltre Il Signore non dà a tutti le stesse cose e nello stesso modo: ci conosce personalmente e ci affida quello che è giusto per noi; ma in tutti, in tutti c’è qualcosa di uguale: la stessa, immensa fiducia. Dio si fida di noi, Dio ha speranza in noi! E questo è lo stesso per tutti. Non deludiamolo! Non lasciamoci ingannare dalla paura, ma ricambiamo fiducia con fiducia! La Vergine Maria incarna questo atteggiamento nel modo più bello e più pieno. Ella ha ricevuto e accolto il dono più sublime, Gesù in persona, e a sua volta lo ha offerto all’umanità con cuore generoso.
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 16 novembre 2014

 

Mercoledì, 08 Novembre 2017 22:51

XXXII Domenica – Anno A – 12 novembre 2017

 

In queste ultime settimane dell’Anno liturgico, le letture che la Liturgia ci propone ci invitano alla vigilanza, ad un continuo senso di attesa, per preparare il nostri cuori all’incontro con il Signore.

La prima lettura, tratta dal Libro della Sapienza, vediamo che proprio la Sapienza viene personificata nelle vesti di una figura femminile quanto mai affascinante, che i giusti cercano, amano e infine la trovano. Solo Dio la può donare, ma di questo dono bisogna esserne degni.

Nella seconda lettura, Paolo nella sua lettera ai Tessalonicesi, che ritenevano imminente l’ultima venuta di Cristo ed erano perciò preoccupati per i fratelli defunti, rasserena gli animi, riducendo l’importanza dell’evento finale per presentarlo come il coronamento di una salvezza che già si attua nella vita e nella morte dei credenti.

Nel Vangelo di Matteo, troviamo la celebre parabola delle vergini sagge e stolte.
E’ facile comprendere che questo racconto ci invita a stare svegli nello spirito, e sempre pronti al momento in cui il Signore verrà. La vigilanza, l’attesa operosa, la premura carica d’amore, l’impegno personale spalancano la porta del banchetto nuziale con il Signore. Come pensiero costante per il nostro cammino potremo ricordare ciò che la grande santa Teresa d’Avila diceva: Nulla ti turbi, nulla ti spaventi. Tutto passa, solo Dio non cambia. La pazienza ottiene tutto. Chi ha Dio non manca di nulla: solo Dio basta!

 

Dal libro della Sapienza
La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano. Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano. Chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta.
Riflettere su di lei, infatti, è intelligenza perfetta, chi veglia a causa sua sarà presto senza affanni; poiché lei stessa va in cerca di quelli che sono degni di lei,
appare loro benevola per le strade e in ogni progetto va loro
Sap 6,12-16

Il libro della Sapienza si presenta come opera del re Salomone, ma è un evidente espediente letterario, perché è stato scritto da un pio giudeo di lingua greca, sicuro conoscitore del mondo ellenistico, che viveva in Alessandria d’Egitto tra il 120-80 a.C.
E’ il più recente dei libri dell’Antico Testamento e il suo autore si rivolge ai suoi correligionari che vivevano in ambiente greco, per convincerli della superiorità della sapienza ebraica, ispirata da Dio e concretamente espressa nella Legge che governa il popolo eletto, sulla filosofia e la vita pagana.
Nelle sue grandi linee, il libro espone le vie della sapienza opposte alla via degli empi, la sapienza in se stessa come realtà divina, le opere della sapienza divina nella storia di Israele.
In quest’opera, la dottrina biblica sulla sapienza raggiunge gli ultimi sviluppi ed è come il sintomo dell’insegnamento del Nuovo Testamento sulla grazia; a sua volta il Nuovo Testamento aiuta a capire la dottrina dell’antico sulla sapienza.

La speranza beata nell’aldilà è espressa con rara chiarezza, illuminando il problema dell’umano destino. E’ l’ultimo passo verso la rivelazione cristiana: Cristo, sapienza di Dio incarnata tra gli uomini, è la fonte della vita e della felicità eterna.
Questo spiega l’influsso che il libro ha esercitato nella cristologia di Giovanni e di Paolo…
In questo brano l’autore definisce la sapienza splendida e non sfiorisce e che si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano.
Qui il termine “sapienza” indica non solo una dottrina, ma la verità divina, dono di Dio il quale si lascia trovare da chi lo cerca, anzi “Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano. Chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta….
Nell’A.T. la Sapienza non è possibile concepirla distinta da Dio. Solo nel N.T. San Paolo definisce una persona (il Crocifisso) “Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” (1Cor 1,24)

Salmo 63 (62) - Ha sete di te, Signore, l’anima mia.

O Dio, tu sei il mio Dio,
all’aurora io ti cerco,
di te ha sete l'anima mia,
a te anela la mia carne
come terra deserta, arida, senz’acqua.

Così nel santuario ti ho cercato,
per contemplare la tua potenza e la tua gloria.
Poiché la tua grazia vale più della vita,
le mie labbra diranno la tua lode.

Nel mio giaciglio di te mi ricordo
e penso a te nelle veglie notturne,
a te che sei stato il mio aiuto,
esulto di gioia all’ombra delle tue ali.

Il salmo presenta un pio giudeo, che fin dal primissimo mattino si pone in orazione. Egli cerca Dio, perché gli si è rivelato a lui per mezzo del dono della fede e delle Scritture, e ora cerca l’unione con lui, l’intima conoscenza di lui, in un “cercare” in cui il “trovare” spinge ancor più a cercare.
L’orante è presentato come un assetato in mezzo ad un deserto. Ma l’assetato del salmo sa dov’è la fonte, non è disorientato; sa che la fonte della pace e della gioia è Dio: Dio stesso è questa fonte.
L’orante ha un punto di riferimento: il tempio; e così vi si reca per trarre ristoro nella contemplazione Dio: “Così nel santuario ti ho contemplato, guardando la tua potenza e la tua gloria”. L’orante cerca Dio, ama Dio, non tanto i benefici di Dio. Ama lui, e lo dichiara poiché dice che la comunione con lui (“il tuo amore") “vale più della vita”. Questa dolce consapevolezza è la molla della sua lode: “Le mie labbra canteranno la tua lode”; “Così ti benedirò per tutta la vita”. Egli, ritornato dal tempio alla sua dimora, probabilmente distante da Gerusalemme, ha come pensiero dolce e vivo Dio, e così “nelle veglie notturne”, quando il sonno è assente, non si agita, ma pensa a Dio, cerca Dio.

Ha tanti nemici che cercano di ucciderlo, che probabilmente sono con bande di predoni Idumei (Cf. Ps 58), ma ha la ferma speranza che i nemici non avranno vittoria e che il re trionferà e insieme a lui chi gli è fedele: “Chi giura per lui” (Cf. 1Sam 17,55; 25,2; 2Sam 11,11; 15,21; ecc.). Gli ultimi versetti, per le loro dure espressioni, non entrano nella recitazione cristiana.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Fratelli, non vogliamo lasciarvi nell’ignoranza circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza.
Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui.
Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti.
Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nubi, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore.
Confortatevi dunque a vicenda con queste parole.
1Ts 4,13-18

Nella sua lettera ai Tessalonicesi Paolo nella prima parte aveva fatto un lungo ringraziamento, nella seconda invece fa una serie di raccomandazioni per rispondere a richieste particolari dei tessalonicesi..
Nel brano liturgico viene riportata la terza raccomandazione con la quale l’Apostolo dà una risposta a un problema specifico della comunità, quello della sorte di coloro che sono morti prima del ritorno del Signore.
Il problema a cui Paolo risponde non è chiaro, anche se lo si può comprendere abbastanza bene dalle sue parole: egli infatti aveva annunziato l'imminente ritorno di Gesù come giudice escatologico. Per i tessalonicesi era quindi logico pensare che sarebbero stati sollevati dall'esperienza della morte per entrare direttamente nel regno glorioso di Dio. Ora invece il ritorno del Signore non si era ancora attuato mentre alcuni membri della comunità erano morti. Questo fatto aveva determinato in loro un certo malessere: che fine avevano fatto i loro fratelli defunti? Sarebbero stati esclusi per sempre dalla salvezza?

Si potrebbe pensare che questo disagio nascesse dal fatto che l’apostolo non aveva ancora detto nulla circa la risurrezione finale dei credenti; siccome ciò è improbabile, potrebbe anche darsi che i dubbi dei tessalonicesi derivassero dalla difficoltà, tipica del mondo greco, di capire e di accettare la dottrina della risurrezione finale dei morti. Comunque sia, le prime morti verificatesi dopo l’evangelizzazione di Tessalonica suscitavano un doloroso problema a cui Paolo non poteva non rispondere.

Come risposta ai dubbi espressi dai tessalonicesi, Paolo chiarisce il suo insegnamento:” non vogliamo lasciarvi nell’ignoranza circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza”. La speranza, di cui ha già parlato all’inizio in relazione con la fede e l’amore (V.1,3) è la virtù che permette al credente di attendere l’intervento finale di Dio in questo mondo e di passare indenne attraverso le tribolazioni della vita.
Per dare fondamento alla speranza messa alla prova dei tessalonicesi, Paolo richiama anzitutto l’evento su cui si fonda la loro fede: ”Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato”. È questo il centro della professione di fede che i tessalonicesi stessi avevano diffuso nella loro città circa l’insegnamento ricevuto da Paolo. Da questo principio si ricava la conseguenza “ così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui. “

A questo punto, rifacendosi a una “parola del Signore”, Paolo dichiara: “noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti”. Alla sua seconda venuta il Signore troverà alcune persone ancora in vita, ma questo fatto non rappresenterà per loro un privilegio. Paolo convalida poi questa affermazione con una descrizione di ciò che avverrà alla fine: il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo.

Queste immagini erano note nel mondo culturale giudaico dell’epoca di Paolo: non è infatti difficile trovare mescolate nell’apocalittica giudaica e cristiana allusioni al comando di Dio, alla voce dell’arcangelo (Ap 5,2; 7,2), al suono della tromba (V.Es 19,13.16.19; Ap 1,10; 4,1 ecc.) e alla venuta del Figlio dell’uomo (V. Dn 7,13).
Quando avrà luogo la venuta del Signore, “prima risorgeranno i morti in Cristo”, cioè i defunti che, avendo creduto in Cristo durante la loro vita, sono diventati partecipi anche della Sua morte e resurrezione(V. Rm 6,4). Dopo di ciò anche “noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nubi, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore.”
È significativo che l’apostolo, designando coloro che saranno ancora in vita al momento della seconda venuta del Signore, comprende tra essi anche se stesso.

Paolo qui è dunque convinto che la fine del mondo avrà luogo nel corso della sua generazione. Egli immagina il termine della vita terrena per coloro che saranno in vita alla venuta del Signore alla luce dei “rapimenti in cielo” di cui si parla nel giudaismo per esempio a proposito di Elia (V.2Re 2,11; 1Mac 2,58) . Questo rapimento avrà lo scopo di rendere possibile l’incontro con il Signore. La salvezza raggiungerà il suo culmine quando tutti i giusti saranno ammessi alla piena comunione con Lui e con il Padre.
Per questo Paolo conclude: Confortatevi dunque a vicenda con queste parole” per rasserenare gli animi dei tessalonicesi, riducendo l’importanza dell’evento finale per presentarlo come il coronamento di una salvezza che già si attua nella vita e nella morte dei credenti.
L’Apostolo ha potuto valorizzare così il tempo dell’attesa, dando spazio alla ricerca della santità, all’amore fraterno e alla fondazione di nuove comunità. Esortando poi i credenti a vivere con il lavoro delle proprie mani , egli ha dato importanza all’impegno per migliorare l’ambiente in cui viviamo, mostrando che una vita oziosa non si addice a una visione cristiana del mondo .

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le
stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono.
A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”.

Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.
Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa.
Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Vegliate dunque,
perché non sapete né il giorno né l’ora.“
Mt 25, 1-13

Matteo nel fare il resoconto dell’ultima settimana di Gesù prima della sua passione, dopo aver riportato le parabole riguardanti la gravità dell’ora, e il il discorso escatologico, ora riporta una parabola riguardante la vigilanza, quella delle dieci vergini.
Il brano inizia con la solita breve introduzione, in cui si dice che “Il regno dei cieli sarà simile ….” poi c’è la descrizione della situazione: dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le
stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi.”
Le usanze nuziali del tempo di Gesù non sono molto note, ma ciò non impedisce l’interpretazione della parabola. Alcuni esegeti, comunque, si trovano concordi nel dire che alcuni dettagli non corrispondano alla realtà. In particolare appare incerto se la sposa si trovi già nella casa dello sposo, il quale risulta assente e perciò è atteso da un momento all'altro per le nozze.
Subito all’inizio si dice che le dieci vergini che devono accogliere festosamente lo sposo sono divise in due categorie: alcune sono stolte, altre invece sagge. Ciò che contraddistingue i due gruppi è il fatto che le prime non si procurarono olio sufficiente per le loro lampade, cosa che invece fecero le seconde.
Il tempo passa e improvvisamente è annunziata la venuta dello sposo: Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. A questo punto viene alla luce la differenza tra i due gruppi di vergini: Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.
Appare evidente che quelle sagge sono pronte per accogliere lo sposo; le stolte, al contrario, si trovano senza olio per le lampade.
La parabola giunge così alla sua conclusione: “Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”.

Le vergini stolte perciò non possono partecipare al banchetto nuziale. L'occasione di una festa gioiosa si è trasformata per esse in una situazione di umiliazione e di sconforto. Alla loro invocazione accorata “Signore, Signore, aprici!” viene data una risposta categorica preceduta da ; “In verità vi dico…”,.
Lo sposo richiama subito la figura del Cristo giudice, le vergini simboleggiano i discepoli di Gesù, l'olio sembra che in Matteo si riferisca alla pratica delle opere buone, che presuppone una fede perseverante nella Parola. La discriminazione tra i due gruppi delle vergini esprime il diverso comportamento dei cristiani in attesa della parusia, uno vigile e operoso, l'altro ozioso. Il messaggio centrale della parabola viene infine espresso nella conclusione: “Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora”

E’ facile comprendere che con questo racconto, il Vangelo ci invita a stare svegli nello spirito, e sempre pronti al momento in cui il Signore verrà.
E’ un invito “a vivere nell’amore”, allo scopo di essere degni di raggiungere la pienezza del Regno, quando il Signore ci chiamerà a sè. L’importante, per noi, è avere la lampada accesa, quindi, l’olio dello Spirito non deve mai mancare. Ricordiamoci che solo l'amore, di cui Gesù parla, quando dice “amatevi come io vi ho amato” ci dà la misura del nostro essere cristiani.
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Nel contesto del “tempo immediato” si colloca la parabola delle dieci vergini
Si tratta di dieci ragazze che aspettano l’arrivo dello Sposo, ma questi tarda ed esse si addormentano. All’annuncio improvviso che lo Sposo sta arrivando, tutte si preparano ad accoglierlo, ma mentre cinque di esse, sagge, hanno olio per alimentare le proprie lampade, le altre, stolte, restano con le lampade spente perché non ne hanno; e mentre lo cercano giunge lo Sposo e le vergini stolte trovano chiusa la porta che introduce alla festa nuziale. Bussano con insistenza, ma ormai è troppo tardi, lo Sposo risponde: non vi conosco.

Lo Sposo è il Signore, e il tempo di attesa del suo arrivo è il tempo che Egli ci dona, a tutti noi, con misericordia e pazienza, prima della sua venuta finale; è un tempo di vigilanza; tempo in cui dobbiamo tenere accese le lampade della fede, della speranza e della carità, in cui tenere aperto il cuore al bene, alla bellezza e alla verità; tempo da vivere secondo Dio, poiché non conosciamo né il giorno, né l’ora del ritorno di Cristo. Quello che ci è chiesto è di essere preparati all’incontro - preparati ad un incontro, ad un bell’incontro, l’incontro con Gesù -, che significa saper vedere i segni della sua presenza, tenere viva la nostra fede, con la preghiera, con i Sacramenti, essere vigilanti per non addormentarci, per non dimenticarci di Dio. La vita dei cristiani addormentati è una vita triste, non è una vita felice. Il cristiano dev’essere felice, la gioia di Gesù. Non addormentarci!
Papa Francesco
Parte del commento tenuto all’’udienza generale del 24 aprile 2013

 

La liturgia di questa domenica ci invita ad esaminare quale sia la nostra autenticità di cristiani e accogliere con fede gli ammonimenti che Gesù rivolge alla nostra coscienza, per assumere un comportamento conforme ad essi.

Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Malachia, Dio per bocca del suo profeta, rimprovera con severità i sacerdoti del tempio che si sono allontanati dalla vita del Signore e sono di scandalo per i fedeli del loro tempo. Il profeta li invita ad essere uniti nel bene guardando all’unico Dio.

Nella seconda lettura, Paolo ai cristiani di Tessalonica, racconta la premura che ha avuto nei loro riguardi e riconosce che loro hanno compreso che la parola che lui aveva annunciata, non poteva essere umana, ma parola di Dio

Nel Vangelo di Matteo, troviamo Gesù che rimprovera aspramente le guide spirituali d’Israele. La scena si svolge nell’atmosfera del processo silenzioso, ma palpabile che i capi religiosi di Gerusalemme stanno intendando a Gesù, prima di trascinarlo realmente davanti alla magistratura ordinaria. Il Signore Gesù, denunciando questo comportamento ipocrita vuole invitarci a vigilare su questo aspetto: se gli altri cercano la fama, il successo, l’applauso, il consenso, non così deve essere per chi vuole davvero seguirlo.

 

Dal libro del profeta Malachia
Io sono un re grande – dice il Signore degli eserciti – e il mio nome è terribile fra le nazioni.
Ora a voi questo monito, o sacerdoti. Se non mi ascolterete e non vi prenderete a cuore di dare gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su di voi la maledizione e cambierò in maledizione le vostre benedizioni.
Voi vi siete allontanati dalla retta via
e siete stati d’inciampo a molti
con il vostro insegnamento;
avete distrutto l’alleanza di Levi,
dice il Signore degli eserciti.
Perciò anche io vi ho reso spregevoli
e abietti davanti a tutto il popolo,
perché non avete osservato le mie disposizioni
e avete usato parzialità riguardo alla legge.
Non abbiamo forse tutti noi un solo padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro, profanando l’alleanza dei nostri padri?
Ml 1,14b-2:2b,8-10

Malachia (il cui nome significa “mio messaggero” ) è l’ultimo dei profeti minori dell’A.T., che gli ebrei chiamano per questo “Sigillo dei profeti”. Si sa poco della sua vita, era della tribù di Zabulon e nacque a Sofa; visse certamente dopo l’esilio babilonese (538 a.C.), durante la dominazione persiana, tuttavia non si può determinare con certezza se le sue profezie siano anteriori, contemporanee o posteriori al periodo di quando svolgevano la loro opera i due riformatori Esdra. (sommo sacerdote ebreo, codificatore del giudaismo, V-IV secolo a.C.) e Neemia, governatore della Giudea. Costoro infatti denunziano gli stessi abusi contro cui egli ha combattuto. Ciò si ricava senza difficoltà dal semplice elenco dei temi affrontati da Malachia nei suoi oracoli, i quali sono stati raccolti senza un ordine specifico. Nella requisitoria contro il malcostume egli è intransigente e condanna i matrimoni misti, difende la indissolubilità del matrimonio, ecc. Il libro, che porta il suo nome, termina con una visione escatologica (cioè quello che seguirà alla vita terrena e alla fine del mondo), annunciante la venuta del messaggero di Dio, che farà una cernita dei buoni nel suo popolo; in questa profezia si può prefigurare la venuta di Giovanni Battista. I Padri sono concordi nel vedere in Malachia il preannunzio profetico del sacrificio della Messa, con Gerusalemme che perde il titolo di “luogo dove bisogna adorare”, e Gesù che istituisce il rito eucaristico per tutta l’umanità.

Nei versetti precedenti il brano liturgico, dopo aver segnalato le colpe commesse dai sacerdoti, il Signore continua a proclamare: “Io sono un re grande …. e il mio nome è terribile fra le nazioni”.
Il titolo di “re” è stato attribuito al Signore durante l’esodo: infatti Israele sarà tra tutti i popoli la sua “proprietà” particolare (Es 19,5), cioè un popolo che, a differenza di tutti gli altri, sarà governato direttamente dal Signore. La regalità diventa così una prerogativa che riguarda la natura stessa di Dio, ma che sulla terra si manifesterà pienamente solo alla fine dei tempi (V.Dn 2,36-45; 7,27). Su questa linea Malachia immagina il Signore come il “grande re”, il cui potere, a immagine degli imperi dell’antichità, si estende su tutta la terra: perciò il suo nome è “terribile” (ossia temuto) fra le nazioni, in quanto suscita un misto di sentimenti che vanno dalla paura alla venerazione.

In questa veste di sovrano universale, il Signore si rivolge anzitutto ai sacerdoti:
“Ora a voi questo monito, o sacerdoti. Se non mi ascolterete e non vi prenderete a cuore di dare gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su di voi la maledizione e cambierò in maledizione le vostre benedizioni”.
Siccome questo re supremo risiede nel tempio di Gerusalemme, i suoi ministri sono anzitutto i sacerdoti che vi operano. Dopo le accuse circostanziate sollevate contro di loro, viene ora un monito, cioè un duro richiamo ai loro doveri, ai quali sono collegate severe sanzioni in caso di trasgressione.
Ai sacerdoti erano promesse particolari benedizioni (Es 32,29; cfr. Es 29; Lv 8-9), che comportavano privilegi speciali, come prelevare parti delle vittime, ottenere abitazioni e ricevere terre da coltivare. Se essi però non ascoltano, cioè non obbediscono al loro Dio e non danno gloria al suo nome, non solo saranno privati delle benedizioni a loro assegnate, ma queste si trasformeranno in maledizioni: in breve perderanno i loro privilegi, e in più saranno disprezzati ed oppressi.
Nei successivi vv. 2b-7 (omessi dalla liturgia), il profeta mostra come tali maledizioni si siano già attuate, e porta come motivo il fatto che i sacerdoti hanno tradito l’alleanza che il Signore aveva concluso con Levi, loro progenitore (Dt 33,8-11): in base ad essa le labbra del sacerdote, in quanto “messaggero” del Signore, avrebbero dovuto custodire la “conoscenza” e dalla sua bocca si sarebbe aspettata l’”istruzione”. Al sacerdote compete dunque l’insegnamento dei comandamenti di Dio, frutto di una profonda esperienza personale (conoscenza) di Dio stesso. In mancanza di ciò il sacerdote perde la sua ragione di essere e la sua posizione sociale.

Dopo aver indicato ciò che Dio si aspettava dai sacerdoti, il profeta prosegue nella sua accusa:
“Voi vi siete allontanati dalla retta via e siete stati d’inciampo a molti con il vostro insegnamento; avete distrutto l’alleanza di Levi, dice il Signore degli eserciti. Perciò anche io vi ho reso spregevoli e abietti davanti a tutto il popolo, perché non avete osservato le mie disposizioni e avete usato parzialità riguardo alla legge”.
La colpa dei sacerdoti consiste nell’essersi allontanati dalla retta via, e di conseguenza nell’aver allontanato molti dall’incontro con il Signore a motivo del loro cattivo esempio e dei loro consigli sbagliati. Essi hanno rotto l’alleanza di Levi, cioè sono venuti meno ai loro doveri , alle condizioni del servizio che spettava loro in quanto discendenti di Levi.

Nel versetto conclusivo del testo liturgico si coglie uno spiraglio di speranza:
“Non abbiamo forse tutti noi un solo padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro, profanando l’alleanza dei nostri padri?
Parlando di un unico padre di tutti, si può rilevare che Malachia non allude né ad Adamo, capostipite di tutto il genere umano, e fondatore di Israele, ma a Dio, in quanto creatore e padre di tutti gli uomini, per cui c’è un’esortazione ad essere uniti nel bene avendo tutti uno stesso Dio e uno stesso Padre.

Salmo 130 - Custodiscimi, Signore, nella pace.

Signore, non si inorgoglisce il mio cuore
e non si leva con superbia il mio sguardo;
non vado in cerca di cose grandi
superiori alle mie forze

Io sono tranquillo e sereno
come bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è in me l’anima mia.

Speri Israele nel Signore,
ora e per sempre.

Questo salmo presenta un orante che di fronte agli onori e alle ricchezze che può avere non si inorgoglisce, non si fa trascinare da esse innalzandosi imperioso sugli altri.
Non è ambizioso, ma umile tiene conto delle sue capacità.
Egli è “quieto e sereno”, e “come un bimbo svezzato in braccio alla madre” dopo la poppata, è contento e certo di essere amato e protetto da Dio.
Il salmo poi presenta l'invito a tutto Israele a sperare ”ora e per sempre” in Dio.
Il salmo non presenta indizi per una collocazione storica, del resto i salmi, benché abbiano un tessuto esistenziale storico, sono parola di Dio e perciò hanno un valore pubblico e perenne; così il loro tessuto esistenziale ha come profondo riferimento Cristo e l'incontro con Cristo, centro di tutto il disegno di Dio.
Commento di Padre Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Fratelli, siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre nutre e ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari.
Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno, vi abbiamo annunziato il vangelo di Dio.
Proprio per questo anche noi ringraziamo Dio continuamente perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete.
1Ts 2:7b-9.13

Paolo continuando la sua lettera ai tessalonicesi ricorda anzitutto la situazione dolorosa da cui era appena uscito venendo da Filippi e insiste sulla rettitudine del suo comportamento verso di loro.
All’inizio del brano liturgico, mette poi in luce quali sono stati i suoi sentimenti durante la permanenza a Tessalonica: siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre nutre e ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari.

Per esprimere il rapporto che egli con i suoi compagni hanno stabilito verso i tessalonicesi, Paolo usa come primo termine “amorevoli” per unirlo al paragone “come una madre nutre e ha cura dei propri figli”, mentre il secondo termine “affezionati” esprime una specie di trasporto che per Paolo è stato così grande da renderlo disponibile a dare per i tessalonicesi non solo il vangelo, ma anche la sua stessa vita. Con questa frase non intendeva certamente una morte cruenta a seguito di una persecuzione, ma piuttosto la sua piena dedizione, per coloro che erano diventati a lui così cari.
In relazione con la sua disponibilità verso i tessalonicesi, Paolo richiama una caratteristica specifica della sua evangelizzazione:
Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno, vi abbiamo annunziato il vangelo di Dio.
Paolo ha annunziato loro il vangelo e contemporaneamente ha svolto un’attività lavorativa.

Sappiamo che la sua professione era quella di tessitore di tende (At 18,3) ed anche a Tessalonica ha lavorato intensamente “notte e giorno” per non essere di peso ai nuovi convertiti (V. 2Cor 11,9). Egli lo faceva come sua scelta personale per non recare impedimento all’annunzio del vangelo (V. 1Cor 9,12), ma a volte però ha potuto interrompere la sua attività lavorativa avendo ricevuto aiuti finanziari da altre comunità fondate in precedenza (Cfr. At 18,5; 2Cor 11,8; Fil 4,14-16). Il suo scopo era quello di distinguersi dai filosofi popolari, che si facevano pagare per le loro prestazioni; del resto, provvedendo a se stesso e non pesando finanziariamente su coloro a cui predicava il vangelo, evitava il rischio di allontanarli ed era più libero nei suoi spostamenti. Inoltre egli voleva dare il buon esempio e far sì che i nuovi convertiti imparassero a vivere con il proprio lavoro (V. 1Ts 4,11).
Nei versetti successivi, omessi dalla liturgia, Paolo insiste nuovamente sul carattere irreprensibile del suo comportamento a Tessalonica, ispirandosi questa volta non più all’immagine della madre, ma a quella del padre che esorta e incoraggia i suoi figli.

Il testo liturgico termina con la frase iniziale del brano successivo in cui Paolo elabora nuovi aspetti del suo ringraziamento: Proprio per questo anche noi ringraziamo Dio continuamente perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete. In questa frase, nella quale riprende quanto detto precedentemente, Paolo ringrazia Dio perché i tessalonicesi hanno ricevuto “la parola divina della predicazione, cioè la parola di Dio predicata da lui e dai suoi compagni, per quello che era veramente. In altre parole i tessalonicesi non si sono fermati al carisma di coloro che annunziavano loro il vangelo, ma hanno saputo risalire a Colui che ne è l’autore, Dio stesso.

Ciò che si è potuto creare a Tessalonica è visto dunque da Paolo come opera di Dio, il quale ha toccato il cuore dei suoi ascoltatori, mentre lui, Paolo, ha svolto semplicemente il ruolo di intermediario
Il vangelo non è una parola umana, ma un messaggio che viene da Dio. Paolo ne è ben consapevole e si sforza in tutti i modi di ricordare ai tessalonicesi che essi non hanno aderito a lui, come persona, ma a Dio.
Paolo però, dobbiamo riconoscerlo, è stato capace di stabilire un rapporto intenso di amore con i tessalonicesi, ha saputo amarli come un padre e una madre, fino al punto di essere disposto a dare la vita per loro. Da queste parole dell’apostolo risulta chiaramente che l’evangelizzazione non consiste in una presentazione anche perfetta di nozioni religiose o di direttive morali, ma in un rapporto talmente intenso da scuotere le persone e da porle in un ambito di vita totalmente nuovo e dinamico.

Prima che alla mente, il messaggio evangelico si rivolge al cuore delle persone, provocando reazioni e prese di posizione alle quali solo con la ragione non sarebbero mai arrivate.

 

 

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo:
«Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito.
Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; amano i posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe, e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbì” dalla gente.
Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi, sia vostro servo; chi invece si innalzerà, sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato».
Mt 23, 1-12

. Il brano del Vangelo di Matteo di oggi vede aumentare la tensione che si era creata tra Gesù e i capi del popolo. E’ l’ultimo discorso pubblico di Gesù in cui rivolge una denuncia nei confronti dei responsabili della comunità giudaica, ossia gli scribi e farisei.
Il brano inizia con una introduzione: “Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo:”
I diretti interessati, gli scribi e i farisei, non figurano come interlocutori. Come nel discorso della montagna, Gesù parla alle folle, che però restano sullo sfondo, ma più direttamente si riferisce ai discepoli. Si tratta quindi di un discorso destinato alla comunità. Gesù esordisce con queste parole: “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno”. Il termine “cattedra di Mosè”, in un periodo successivo a quello dell’evangelista, stava ad indicare un seggio distinto e decorato nelle sinagoghe, posto di fronte agli altri seggi sui quali potevano sedere soltanto coloro che avevano conseguito il titolo ufficiale di rabbi. Al tempo di Matteo l’espressione aveva forse solo un significato metaforico: i maestri appartenenti al gruppo dei farisei, l’unico gruppo sopravvissuto alla rovina di Gerusalemme, si erano arrogati il ruolo stesso di Mosè, il grande legislatore del popolo ebraico. Gesù sembra qui convalidare la loro pretesa in quanto dice di fare ciò che essi prescrivono. Il comportamento degli scribi e dei farisei viene così descritto: “Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito”. Gli scribi si erano assunti il compito di interpretare la legge, composta in un tempo più antico, caratterizzato da situazioni economiche e sociali diverse, in modo da renderla praticabile ai loro contemporanei.
Le loro interpretazioni erano considerate come “legge orale”, il cui valore era identico a quello della “legge scritta”. Con lo scopo di interpretare la legge, l’avevano però appesantita con minuziose prescrizioni, che avevano lo scopo di garantirne l’esatta osservanza. Così facendo essi però “legavano” sulle spalle della gente, cioè dichiarano obbligatori, “pesanti fardelli” cioè incombenze difficili da praticare, che essi, con la loro conoscenza, sapevano facilmente evitare.

Oltre a imporre agli altri pesanti fardelli, gli scribi e i farisei si comportano con orgoglio e arroganza: “Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; amano i posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe, e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbì” dalla gente”. Così facendo essi vanno contro la volontà di Dio, che chiede alle persone religiose di operare per Lui, e non per se stesse, e per questo comanda di tenere nascoste le loro opere buone (V. Mt 6,1-18). I filatteri sono piccoli astucci contenenti delle citazioni bibliche che durante la preghiera vengono applicati con strisce di cuoio sulla fronte e sul braccio sinistro: in tal modo viene presa alla lettera l’espressione metaforica di Deuteronomio (6,8). Le frange sono quattro fiocchi appesi agli angoli del mantello (Dt 22,12), muniti di un cordoncino di porpora color viola, che ha lo scopo di richiamare alla mente “tutti i comandi del Signore per metterli in pratica” (Nm 15,39).
Gesù certamente non condanna queste pie usanze, ma l’ostentazione dei farisei, che per fingersi molto religiosi ampliavano in modo esorbitante le dimensioni di quegli oggetti sacri. Inoltre, per darsi importanza, essi ricercavano i posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe, i saluti ossequienti sulle piazze e l’appellativo di “rabbi”.

Il comportamento degli scribi e dei farisei è stato descritto così dettagliatamente proprio per ricavarne un’istruzione diretta ai cristiani: Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro,il Cristo.
In contrasto con le pretese dei farisei Gesù proibisce ai discepoli di farsi chiamare non solo con il titolo di “rabbi”, ma anche con quelli analoghi di “padre” e di “maestro”.
I motivi riportati sono rispettivamente questi: i discepoli di Gesù sono tutti fratelli e il loro vero “Maestro” è uno solo, Dio. Analogamente essi hanno un solo Padre, quello dei cieli; e infine l’unica guida spirituale è il Cristo. Sullo sfondo di questa direttiva si intravede la profezia di Geremia della Nuova Alleanza (31,31-34), in forza della quale negli ultimi tempi Dio avrebbe scritto la Sua legge nel cuore del popolo, divenendo così l’unico Maestro interiore di ciascuno.

Al termine del brano vengono riportate due massime che ricorrono anche in altri contesti: ”Il più grande tra voi, sia vostro servo; chi invece si innalzerà,sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato”.
La prima massima Matteo l’aveva citata ancora (20,26-27) e contiene un forte richiamo ad abbandonare situazioni di privilegio per mettersi umilmente al servizio dei fratelli, esattamente come ha fatto Gesù nei confronti dell’umanità. La seconda appare cinque volte nell’AT (Ez 21,31; Pr 29,23; Gb 22,29; Is 3,17) e preannunzia che nel giudizio escatologico vi sarà un radicale rovesciamento delle situazioni in cui si trovano le persone, alla luce di quanto è affermato nelle beatitudini (Mt 5,3-10).

Ciò che Gesù rimprovera agli scribi e ai farisei è la loro pratica, che non corrispondeva a quanto insegnavano. Se Matteo mette sulla bocca di Gesù una critica così forte nei loro confronti, il motivo non è il desiderio di correggerli, ma piuttosto quello di aiutare la comunità cristiana dal non cadere nello stesso errore..
Leggendo queste frasi forti di Gesù, dobbiamo riconoscere soprattutto la storia bimellenaria di noi cristiani, religiosi e laici, che così spesso ci siamo proclamati discepoli di Gesù per fare poi esattamente ciò che Gesù stesso rimprovera ai farisei, e che è precisamente il contrario di ciò che Egli esige. Ogni volta che ci siamo eretti a giudici e a maestri, che abbiamo ostentato i segni del prestigio e del potere, che ci siamo fatti servire anziché servire gli altri, il nostro tradimento di Gesù è stato completo.

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Nella liturgia di questa domenica, l’apostolo Paolo ci invita ad accostare il Vangelo «non come parola di uomini, ma come è veramente, quale Parola di Dio» (1 Ts 2,13). In questo modo possiamo accogliere con fede gli ammonimenti che Gesù rivolge alla nostra coscienza, per assumere un comportamento conforme ad essi. Nel brano odierno, Egli rimprovera gli scribi e i farisei, che avevano nella comunità un ruolo di maestri, perché la loro condotta era apertamente in contrasto con l’insegnamento che proponevano agli altri con rigore. Gesù sottolinea che costoro «dicono e non fanno» (Mt 23,3); anzi, «legano fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23,4). La buona dottrina va accolta, ma rischia di essere smentita da una condotta incoerente. Per questo Gesù dice: «Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere» (Mt 23,3). L’atteggiamento di Gesù è esattamente l’opposto: Egli pratica per primo il comandamento dell’amore, che insegna a tutti, e può dire che esso è un peso leggero e soave proprio perché ci aiuta a portarlo insieme con Lui (cfr Mt 11,29-30).

Pensando ai maestri che opprimono la libertà altrui in nome della propria autorità, San Bonaventura indica chi è l’autentico Maestro, affermando: «Nessuno può insegnare e nemmeno operare, né raggiungere le verità conoscibili senza che sia presente il Figlio di Dio» (Sermo I de Tempore, Dom. XXII post Pentecosten, Opera omnia, IX, Quaracchi, 1901, 442). «Gesù siede sulla “cattedra” come il Mosè più grande, che estende l’Alleanza a tutti i popoli» (Gesù di Nazaret, Milano 2007, 89). È Lui il nostro vero e unico Maestro! Siamo, pertanto, chiamati a seguire il Figlio di Dio, il Verbo incarnato, che esprime la verità del suo insegnamento attraverso la fedeltà alla volontà del Padre, attraverso il dono di se stesso. Scrive il beato Antonio Rosmini: «Il primo maestro forma tutti gli altri maestri, come pure forma gli stessi discepoli, perché [sia gli uni che gli altri] esistono soltanto in virtù di quel primo tacito, ma potentissimo magistero» (Idea della Sapienza, 82, in: Introduzione alla filosofia, vol. II, Roma 1934, 143). Gesù condanna fermamente anche la vanagloria e osserva che operare «per essere ammirati dalla gente» (Mt 23,5) pone in balia dell’approvazione umana, insidiando i valori che fondano l’autenticità della persona.

Cari amici, il Signore Gesù si è presentato al mondo come servo, spogliando totalmente se stesso e abbassandosi fino a dare sulla croce la più eloquente lezione di umiltà e di amore. Dal suo esempio scaturisce la proposta di vita: «Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo» (Mt 23,11). Invochiamo l’intercessione di Maria Santissima e preghiamo, in particolare, per quanti nella comunità cristiana sono chiamati al ministero dell’insegnamento, affinché possano sempre testimoniare con le opere le verità che trasmettono con la parola.
Papa Benedetto XVI
Angelus del 30 ottobre 2011

 

 

La liturgia di questa domenica, ci aiuta a comprendere meglio e a vivere il tempo e la storia nelle tre dimensioni della vita cristiana, che sono il passato accolto nella fede, il futuro proiettato nella speranza e il presente vissuto nella carità.

Nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, vediamo come mediante le norme della legge mosaica, Dio educava il suo popolo al rispetto verso il forestiero, l’orfano e la vedova. Nessuno che si trovi nel bisogno deve essere escluso dall'amore vero, anche perché Dio stesso si è messo dalla loro parte

Nella seconda lettura, Paolo ricorda ai cristiani di Tessalonica, e a noi oggi, che i doni ricevuti da Dio devono essere resi visibili attraverso la testimonianza della nostra vita, perché solo chi pone Dio al centro della propria esistenza può abbandonare la via del male.

Nel Vangelo di Matteo, ritroviamo ancora Gesù alle prese con i farisei, che vivevano nella tentazione di ridurre la morale a una serie di norme esteriori preoccupandosi solo dell'apparenza. La risposta di Gesù è semplice ed efficace. Egli cita due versetti della Torah che racchiudono l'esperienza di Israele, e ci ricorda che solo amando Dio con tutto noi stessi saremo in grado d'amare veramente il prossimo, perché l’amore per Dio e l’amore per il prossimo sono connessi strettamente: la dimensione verticale e quella orizzontale si incrociano e si alimentano a vicenda.

Dal libro dell’Esodo
Così dice il Signore: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto.
Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani.
Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse.
Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché io sono pietoso».
Es 22,20-26

Il Libro dell'Esodo è il secondo libro del Pentateuco (Torah ebraica) ed è stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli e nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il libro si apre con la descrizione dello stato di schiavitù del popolo ebreo in Egitto e giunge con il suo racconto sino al patto di Dio con il popolo e alla promulgazione della legge divina, concludendosi con lunghe sezioni legali. Gli studiosi collocano questi avvenimenti tra il 15^ e il 13^ secolo a.C.

In questo brano viene evidenziato come concretizzare l'amore verso il prossimo: “Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani”. Chi ama aiuta lo straniero, l'orfano, la vedova, il forestiero, cioè le categorie di persone che, nell'Antico Testamento, rappresentano coloro che non hanno alcuna protezione. Ma non solo, la stessa cura deve essere anche rivolta a chi è in difficoltà, soprattutto economiche: Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Viene condannata chiaramente l'usura e sottolineato il rispetto per chi lascia in pegno il proprio mantello (sinonimo della vita nella tradizione ebraica).

Tutte queste sono le situazioni di debolezza che possono indurre, in chi vive nelle agiatezze, ad approfittarne per opprimere, sfruttare e maltrattare. Nessuno che si trovi nel bisogno o nella normale condizione esistenziale deve essere escluso dall'amore vero, anche perché Dio stesso si è messo dalla loro parte. Egli ascolta il loro grido di dolore e farà giustizia, infatti anche Israele era oppresso in Egitto e Dio ha ascoltato le sue preghiere ed è intervenuto a liberarlo. L'amore quindi si trasforma in accoglienza, solidarietà e giustizia.
Si dice a ragione, che Dio ha dato un solo comandamento: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze (Dt6,5). Tutti gli altri precetti o comandamenti sono una conseguenza del primo: amando Dio non si può fare a meno di amare e rispettare tutto ciò che da Lui proviene.

Salmo 18 (17 ) Ti amo, Signore, mia forza.

Ti amo, Signore, mia forza,
Signore, mia roccia,
mia fortezza, mio liberatore.

Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio;
mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo.
Invoco il Signore, degno di lode,
e sarò salvato dai miei nemici.

Viva il Signore e benedetta la mia roccia,
sia esaltato il Dio della mia salvezza.
Egli concede al suo re grandi vittorie,
si mostra fedele al suo consacrato.

La tradizione più autentica (2Sam 22,1) riferisce che questo salmo venne scritto da Davide quando si trovò liberato da molte peripezie, specialmente quelle causategli da Saul. Il salmo nel Breviario viene diviso in due parti per ragioni di lunghezza.
L’orante celebra la liberazione da situazioni drammatiche con immagini efficaci: “Mi circondavano flutti di morte, mi travolgevano torrenti infernali; già mi avvolgevano i lacci degli inferi, già mi stringevano agguati mortali”. La liberazione da tante insidie gli ha comunicato una grande fede nell’aiuto di Dio, e per questo ha grande certezza di vittoria anche per il futuro: “Invoco il Signore, degno di lode, e sarò salvato dai miei nemici”.
L’orante presenta la descrizione dell’intervento di Dio usando le immagini di uno sconvolgimento cosmico: il cielo, la terra, il mare, il fuoco, la grandine, entrano in gioco ad esprimere l’ardente e terrorifica ira di Dio contro i suoi nemici, gli empi, i quali, infatti, non hanno solo cercato di colpire Israele, ma innanzitutto lui, il Re d’Israele, il Signore dell’universo. Gli empi sono coloro che hanno varcato quella misura di peccato, che genera l’ira assoluta di Dio, che pur manda il sole sui buoni e sui cattivi.

Si ha un crescendo nell’imponente descrizione dell’intervento di Dio. L’inizio dell’intervento di Dio è un terremoto: “La terra tremò e si scosse; vacillarono le fondamenta dei monti”: è il primo segno dello sfogo dell’ira di Dio sui suoi nemici. Dio viene presentato come una fornace di fuoco in cielo: “Dalle sue narici saliva fumo, dalla sua bocca un fuoco divorante, da lui sprizzavano carboni ardenti”. Il cielo viene abbassato con una nuvolaglia nera e Dio scende in combattimento cavalcando un cherubino, che vola in mezzo alle nubi nere e basse. Il guerriero squarcia al suo passaggio le nubi che riversano grandine in un immane bombardamento della terra e carboni di fuoco (i fulmini) che la incendiano. Infine il mare si riversa sulla terra in un immane diluvio che spazza via quanto è rimasto dei nemici di Dio: “Allora apparve il fondo del mare, si scoprirono le fondamenta del mondo”. Il popolo di Dio invece rimane indenne, come nel passaggio nel mar Rosso, poiché il Signore lo sottrae alla furia delle acque: “Stese la mano dall’alto e mi prese, mi sollevò dalle grandi acque”.

L’orante che ha visto evolvere una situazione nella quale era impossibile che ne uscisse vivo in situazione di vittoria, ritornando al suo esordio orante celebra la bontà di Dio, la giustizia di Dio; e divenuto capo forte di un popolo compatto, si propone di non temere mai delle armate dei nemici né delle loro fortezze: “Con te mi getterò nella mischia, con il mio Dio scavalcherò le mura”.
Davide continua le sue lodi a Dio e presenta, non più in termini apocalittici, le imprese che ha potuto compiere.
Davide, grazie a Dio che lo ha guidato e sostenuto, ha visto rendersi concrete le prospettive della missione regale affidatagli; ma il disegno di Dio non si esaurisce con lui.
Davide è certo di Dio. Certo della sua fedeltà. La sua discendenza rimarrà.
Il suo trono sarà di uno che verrà dalla sua stirpe, ma che sarà superiore a lui, come presentò lui stesso nel salmo 109,1; 110: “Oracolo del Signore al mio signore” (Cf. Mt 22,4). Sarà il futuro Re, il Messia (Cf. 1Sam 2,10), che inaugurerà un regno che sarà eterno (2Sam 7,12) e che abbraccerà tutte le genti (Ps 71,8; 72). Così tutta la missione di Davide e le grazie date a Davide sono in funzione del Messia e provengono dal futuro Messia
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Fratelli, ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene. E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo, così da diventare modello per tutti i credenti della Macedònia e dell’Acàia. Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acaia, ma la vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne.
Sono essi infatti a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene.
1Ts 1,5c-10

Paolo continuando la sua lettera ai Tessalonicesi in questo brano. che segue quello di domenica scorsa, continua ad elencare i motivi della sua gioia e del ringraziamento a Dio per ciò che ha saputo della comunità di Tessalonica. Essi nonostante le prove hanno perseverato nella fede e questo è diventato motivo di ulteriore diffusione del Vangelo nelle regioni circostanti.
Egli comincia dicendo: ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene.
Paolo qui ricorda lo stile con cui lui e Sila si sono comportati, cioè in piena consonanza con il Vangelo stesso (forse è possibile notare un piccolo riferimento alle accuse dei giudei che hanno ostacolato la sua missione e lo hanno costretto a lasciare in fretta la città).

E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo,
E come gli apostoli sono divenuti testimoni del Vangelo, anche i tessalonicesi sono divenuti imitatori di loro e del Signore. Questa imitazione si è realizzata in pieno, visto che, come Cristo, sia gli apostoli che i nuovi credenti hanno dovuto subire delle dure prove che sono però state vissute "con la gioia dello Spirito Santo". La presenza dello Spirito ha dato ai cristiani di Tessalonica la serenità necessaria per poter sostenere queste inevitabili conseguenze della loro scelta di fede.
così da diventare modello per tutti i credenti della Macedonia e dell'Acaia

I tessalonicesi grazie alla loro convinta adesione a Cristo sono diventati un modello per gli altri, realizzando un processo a catena: Cristo - gli apostoli - i tessalonicesi - le altre comunità fondate nella zona. L'esempio della loro fede diventa un ulteriore annuncio del Vangelo. La parola di Dio non può essere rinchiusa egoisticamente in un gruppo di pochi eletti. La fede si propaga ad altri attraverso il contagio dell'esempio.
Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acaia, ma la vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne.
Questa diffusione della notizia fa sì che Paolo e Sila non abbiano nemmeno più bisogno di parlare dell'esempio dei cristiani di Tessalonica.
Sono essi infatti a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero
I tessalonicesi hanno accolto con gioia i missionari e si sono convertiti, nel vero senso della parola. Hanno abbandonato gli idoli, che avevano venerato fino ad allora e si sono rivolti al Dio vivo e vero, per obbedire e servire solo Lui. E' il passaggio obbligato dal politeismo al monoteismo.
e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene.
C'è naturalmente ancora un passo da fare perchè Unico Dio è anche quello degli ebrei, ma il Dio vivo e vero che Paolo ha mostrato ai tessalonicesi ha un Figlio, che Dio ha risuscitato dai morti.
Paolo non parla qui dell'incarnazione, né della predicazione di Cristo. Si attiene all'essenziale ed è proiettato verso il futuro. Gesù è stato risuscitato dai morti, ci ha dato un motivo di speranza, la morte non è l'ultima parola. Gesù ritornerà e sarà per noi motivo di salvezza.
L’espressione sicuramente può risultare non sufficiente ma c’è da tener conto che si tratta della testimonianza della fede delle prime comunità che vedremo maturare nel corso delle altre lettere di Paolo.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?».
Gli rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».
Mt 22, 34-40

Matteo, nel riportare il vissuto di Gesù a Gerusalemme nella sua ultima settimana di vita, segue il resoconto di Marco che, dopo l’ingresso di Gesù nella città santa, presenta due serie di incidenti: scontri con le autorità giudaiche e controversie con i capi religiosi. Nella controversia sul comandamento più grande i due evangelisti procedono in modo uniforme con alcune significative differenze. Anche Luca riporta questa controversia, ma la colloca nella sezione del viaggio verso Gerusalemme (Lc 10,25-28), abbinandola alla parabola del buon Samaritano.
Diversamente da Marco, che sovrappone la nuova controversia alla precedente, Matteo la introduce riferendosi ad una notizia secondo cui i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?».

La risposta data da Gesù ai sadducei circa la risurrezione dei morti certamente era piaciuta ai farisei, i quali si radunano per concordare la loro linea di azione. Allora uno di loro, probabilmente uno scriba si fa avanti e interroga Gesù “per metterlo alla prova”. Mentre in Marco lo scriba chiede “Qual è il primo di tutti i comandamenti?” (Mc 12,28 , Matteo trasforma così la domanda: “Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento”!
Alla domanda dello scriba ,Gesù risponde citando anzitutto in forma un po’ abbreviata il primo comandamento : “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”.(v. Dt 6,4): in questo testo, recitato da ogni pio giudeo nella preghiera quotidiana, viene messa in luce l’unicità di DIO, come salvatore del Suo popolo, e l’obbligo di amarlo, cioè di essergli fedele, praticando i suoi comandamenti non per opportunismo o interesse, bensì con un impegno che scaturisce dal profondo del cuore.. Riportato da Matteo Gesù aggiunge: Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”.
Mentre la domanda verteva su un solo comandamento, Gesù ne introduce un secondo, sottolineando che esso è “simile” al primo. Con queste parole, Gesù vuol far capire che i due comandamenti in realtà ne formano uno solo.
Il secondo è ricavato anch’esso dalla Bibbia ebraica (Lv 19,18.34), dove appare all’interno di una raccolta in cui si mescolano comandamenti etici, disposizioni rituali e precetti.. Il concetto di “prossimo” era però limitato ai propri connazionali ai quali venivano equiparati i forestieri residenti (Lv 19,34; cfr. Dt 10,19).
Mentre in Marco, Gesù conclude affermando che non vi è comandamento più importante di questi due (Mc 12,31b), Matteo conclude commentando: “Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”.
Il binomio “legge e profeti” è usato da Matteo nel discorso della montagna in cui Gesù dice di essere venuto non ad abolire ma a compiere “la legge e i profeti” (Mt 5,17) e, dopo aver citato la regola d’oro, aggiunge: “Questa infatti è la legge e i profeti” (7,12).

Gesù ci offre una prospettiva di fondo con cui vivere l’intera legge, ci suggerisce un atteggiamento generale costante., ci vuole indicare un’atmosfera in cui ogni gesto e ogni risposta umana e religiosa devono essere collocati e ci propone infine l’impostazione di un’intera esistenza. Con un atteggiamento d’amore tutti i comandamenti, anche i più piccoli, diventano importanti perchè sono espressione di un amore permanente e totale.
Per Gesù la dimensione verticale (amore per Dio) e quella orizzontale (amore per il prossimo) sono inscindibili, si incrociano e si vivificano reciprocamente e costruiscono “l’essere cristiano” totale e genuino. L’amore per Dio e per il prossimo non è, quindi, una generica e nebulosa semplificazione dell’impegno molteplice quotidiano, ma ne è l’architrave e l’anima, è la chiave di volta di “tutta la Legge e i Profeti”.

 

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Il Vangelo di oggi ci ricorda che tutta la Legge divina si riassume nell’amore per Dio e per il prossimo. L’Evangelista Matteo racconta che alcuni farisei si accordarono per mettere alla prova Gesù. Uno di questi, un dottore della legge, gli rivolge questa domanda: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gesù, citando il Libro del Deuteronomio, risponde: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento» . E avrebbe potuto fermarsi qui. Invece Gesù aggiunge qualcosa che non era stato richiesto dal dottore della legge. Dice infatti: «Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso». Anche questo secondo comandamento Gesù non lo inventa, ma lo riprende dal Libro del Levitico. La sua novità consiste proprio nel mettere insieme questi due comandamenti – l’amore per Dio e l’amore per il prossimo – rivelando che essi sono inseparabili e complementari, sono le due facce di una stessa medaglia. Non si può amare Dio senza amare il prossimo e non si può amare il prossimo senza amare Dio. Papa Benedetto ci ha lasciato un bellissimo commento a questo proposito nella sua prima Enciclica Deus caritas est, (nn. 16-18).
In effetti, il segno visibile che il cristiano può mostrare per testimoniare al mondo e agli altri, alla sua famiglia l’amore di Dio è l’amore dei fratelli. Il comandamento dell’amore a Dio e al prossimo è il primo non perché sta in cima all’elenco dei comandamenti. Gesù non lo mette al vertice, ma al centro, perché è il cuore da cui tutto deve partire e a cui tutto deve ritornare e fare riferimento.
Già nell’Antico Testamento l’esigenza di essere santi, ad immagine di Dio che è santo, comprendeva anche il dovere di prendersi cura delle persone più deboli come lo straniero, l’orfano, la vedova (cfr Es 22,20-26). Gesù porta a compimento questa legge di alleanza, Lui che unisce in sé stesso, nella sua carne, la divinità e l’umanità, in un unico mistero d’amore.

Ormai, alla luce di questa parola di Gesù, l’amore è la misura della fede, e la fede è l’anima dell’amore. Non possiamo più separare la vita religiosa, la vita di pietà dal servizio ai fratelli, a quei fratelli concreti che incontriamo. Non possiamo più dividere la preghiera, l’incontro con Dio nei Sacramenti, dall’ascolto dell’altro, dalla prossimità alla sua vita, specialmente alle sue ferite. Ricordatevi questo: l’amore è la misura della fede. Quanto ami, tu? E ognuno si dà la risposta. Com’è la tua fede? La mia fede è come io amo. E la fede è l’anima dell’amore.

In mezzo alla fitta selva di precetti e prescrizioni – ai legalismi di ieri e di oggi – Gesù opera uno squarcio che permette di scorgere due volti: il volto del Padre e quello del fratello. Non ci consegna due formule o due precetti: non sono precetti e formule; ci consegna due volti, anzi un solo volto, quello di Dio che si riflette in tanti volti, perché nel volto di ogni fratello, specialmente il più piccolo, fragile, indifeso e bisognoso, è presente l’immagine stessa di Dio. E dovremmo domandarci, quando incontriamo uno di questi fratelli, se siamo in grado di riconoscere in lui il volto di Dio: siamo capaci di questo?

In questo modo Gesù offre ad ogni uomo il criterio fondamentale su cui impostare la propria vita. Ma soprattutto Egli ci ha donato lo Spirito Santo, che ci permette di amare Dio e il prossimo come Lui, con cuore libero e generoso. Per intercessione di Maria, nostra Madre, apriamoci ad accogliere questo dono dell’amore, per camminare sempre in questa legge dei due volti, che sono un volto solo: la legge dell’amore.
Papa Francesco
Parte dell’Angelus 26 ottobre 2014

 

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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