Dove siamo:
Vedi sulla carta
S.Messe (settimana)
9:00  18:30

KRZYZ

Henryk

Henryk

 

La liturgia di questa domenica tratta un tema importante, ma sempre attuale, la correzione fraterna, che è un dovere da compiere però con discrezione e carità,. e ci indica i modi migliori per farla.

Nella prima lettura, il profeta Ezechiele ammonisce che ciascun uomo potrebbe essere responsabile del male che commettono gli altri, perchè mancare di richiamare alla rettitudine il fratello che sbaglia equivale a rendersi complice del suo peccato, lasciando che questi si illuda di trovarsi nel giusto. Tuttavia la sua responsabilità si ferma davanti alla libera scelta del fratello che può rimanere indifferente o persino ostile e infastidito dal richiamo.

Nella seconda lettura tratta dalla lettera ai Romani, Paolo ci dice che l’amore del prossimo è la legge nuova di Cristo, fonte, maestro e modello della carità senza limiti e senza distinzioni, e al termine afferma: pienezza della Legge è la carità. Lo scopo di tutta la Legge era precisamente quello di evitare il male in tutti i suoi aspetti, e per raggiungere questo scopo l’unico mezzo efficace è l’amore. La legge non è quindi abbandonata ma è pienamente contenuta nel comandamento dell’amore

Nel Vangelo di Matteo, Gesù richiama alla correzione fraterna e al perdono. E' moralmente doveroso richiamare quanti sono nell'errore, ma è importantissimo farlo come un atto di amore e di sollecitudine per rendere consapevole l'altro del proprio errore attraverso argomenti convincenti. Chi riceve la correzione deve infatti sentirsi a proprio agio e avvertire la certezza che il rimprovero subito non è che un atto di amore nei suoi confronti. E’ consolante come questo brano del Vangelo si conclude, Gesù infatti al termine dice”… dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro!, perché è una promessa per tutti! Gesù, infatti, non dice "dove due o tre santi..." o "dove due o tre perfetti", la Sua presenza è offerta a tutti, qualunque sia il loro merito.

Dal libro del profeta Ezechiele
Mi fu rivolta questa parola del Signore: «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia.
Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te. Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato».
Ez 33,7-9

Il profeta Ezechiele nacque intorno al 620 a.C. verso la fine del regno di Giuda. Fu deportato in Babilonia nel 597 a.C. assieme al re Ioiachin, stabilendosi nel villaggio di Tel Aviv sul fiume Chebar. Cinque anni più tardi ricevette la chiamata alla missione di profeta, con il compito di rincuorare i Giudei in esilio e quelli rimasti a Gerusalemme. Ezechiele anche se non fu un profeta all'altezza di Isaia o Geremia, ebbe una sua originalità, che in certi casi può averlo fatto apparire ingenuo. Usò immagini di grande potenza evocativa, specie negli oracoli di condanna, ebbe toni ed espressioni particolarmente duri ed efficaci.
Nel brano che abbiamo Dio si rivolge ad Ezechiele dicendo di averlo costituito sentinella per gli israeliti: Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia.. Ma diversamente però dalla sentinella, la quale vede avvicinarsi i nemici, il profeta è avvertito da Dio stesso quando una sventura sta per abbattersi sul popolo. Il profeta è infatti il portavoce di Dio, l’uomo sulla cui bocca Dio pone la sua parola (Dt 18,18). Osea scriveva che il profeta è come il trombettiere dell’esercito che “Dá fiato alla tromba!”(8,1) . E’ quindi, una missione da compiere in prima linea con rischi, ma anche con un impegno straordinario perchè essa coinvolge il destino di molti altri.

Vengono poi prospettate delle possibilità: Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te... Se il profeta viene meno al suo compito, la rovina si abbatterà comunque sull’empio: ciò significa che questi doveva sapere che prima o poi la sua empietà sarebbe stata punita.
Ma il profeta reticente avrà la sua parte di responsabilità, della quale dovrà rendere conto a Dio. Egli infatti è venuto meno al suo dovere, rendendo inefficace l’ultima possibilità offerta da Dio al malvagio.

Poi c’è la seconda possibilità: “Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato”. Se il profeta si è mosso a tempo e ha fatto sapere all’empio quello che lo aspetta ed egli non si è convertito, allora la responsabilità è tutta sua: egli solo ne pagherà le conseguenze, mentre il profeta non ne sarà responsabile.
Il brano sottolinea la responsabilità che non solo il profeta, ma ogni credente, ha nei confronti di coloro che sbagliano. Per Ezechiele vale il principio secondo cui nessuno può salvarsi da solo. Perciò chi assiste al male compiuto da un altro non può disinteressarsi, lavandosene le mani, lasciando che egli vada incontro alla rovina. L’impegno in favore del fratello che sbaglia deve però arrestarsi di fronte alla sua libertà: nessuno è autorizzato ad intervenire con la forza per impedirgli di compiere il male. Nessuno può, soprattutto, sostituirsi a Dio, il quale vuole la conversione dell’empio e non gradisce il bene se è compiuto per forza.

Salmo 94 Ascoltate oggi la voce del Signore.
Venite, cantiamo al Signore,
acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie,
a lui acclamiamo con canti di gioia.

Entrate: prostràti, adoriamo,
in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo,
il gregge che egli conduce.

Se ascoltaste oggi la sua voce!
«Non indurite il cuore come a Merìba,
come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere».

Il salmo è un invito alla preghiera durante una visita al tempio, probabilmente durante la festa delle capanne, che celebrava il cammino nel deserto (Cf. Dt 31,11), visto che il salmo ricorda l'episodio di Massa e Meriba.
Dio è presentato come “roccia della nostra salvezza”, indicando la roccia la sicurezza data da Dio di fronte ai nemici.
Egli è “grande re sopra tutti gli dei”; sono gli dei concepiti dai pagani, dietro i quali striscia l'azione dei demoni. Egli è colui che ha in suo potere ogni cosa: “Nella sua mano sono gli abissi della terra, sono sue le vette dei monti...”.

Il gruppo orante è invitato ad accostarsi a Dio, cioè ad entrare nell'atrio del tempio. Successivamente il gruppo è invitato a prostrarsi davanti al Signore. Segue l'invito ad ascoltare la voce del Signore. Nel silenzio dell'adorazione davanti al tempio Dio muove il cuore (“la sua voce”) indirizzandolo al bene, all'obbedienza dei comandamenti, al cambiamento della vita.
“Non indurite il cuore”; il cuore indurito non ascolta la voce del Signore e segue i suoi pensieri, ma si troverà a vagare nei deserti di un'esistenza senza Dio, senza alcun riposo
Commento di Padre Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai romani
Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge.
Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della legge infatti è la carità
Rm 13,8-10

Paolo, nella prima parte del capitolo 13 della Lettera ai Romani, aveva messo in luce l’atteggiamento che i cristiani di Roma dovevano assumere nei confronti delle autorità dello stato. L’invito a pagare le tasse, che prima aveva esposto, offre a Paolo lo spunto per fare un discorso più ampio circa i doveri sociali del cristiano. Questo brano inizia con un’esortazione: “non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole” . Gli obblighi infatti verso l’autorità civile, come qualsiasi altro debito, quando sono pagati, non esistono più, mentre c’è un debito che non può essere pagato una volta per tutte, quello cioè che esige di amarsi “l’un l’altro”. A questa esortazione fa seguito immediatamente la motivazione: “perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge”.
A questo punto Paolo dà un’ulteriore spiegazione: “Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».”

I comandamenti che Paolo porta come esempio sono ricavati dal decalogo ma egli sottolinea la ragione e conclude affermando: “La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della legge infatti è la carità”.
Lo scopo di tutta la legge è precisamente quello di evitare il male in tutti i suoi aspetti, e per raggiungere questo scopo l’unico mezzo efficace è l’amore: perciò l’amore è la “pienezza della legge”. La legge non è quindi abbandonata ma è pienamente contenuta nel comandamento dell’amore.

Secondo Paolo i comandamenti della legge restano dunque validi, ma quasi scompaiono di fronte al comandamento dell’amore, così come anche questo perde la sua importanza quando la persona ha scoperto come l’amore sia la parte essenziale e naturale della propria esistenza. Chi ha compreso come l’Amore sia esigente, sa con chiarezza che cosa è bene e che cosa è male e non può sbagliare se obbedisce all’impulso interiore dello Spirito. Soltanto su un amore così inteso e vissuto è possibile fondare la vita di una comunità capace di aprirsi alla ricerca di un bene veramente universale.

 

 

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.
In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.
In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».
Mt 18, 15-20

Questo quarto discorso di Gesù che l’evangelista Matteo ci riporta consiste in una raccolta di detti che hanno come tema centrale la vita della chiesa.
Tutta la struttura del discorso parte da due domande poste dai discepoli che volevano sapere chi fosse il più grande nel regno dei cieli e quella di Pietro che chiedeva quante volte doveva perdonare.
Il brano liturgico si struttura con la presentazione di cinque ipotesi e la relativa soluzione, e termina con una frase conclusiva.

La prima ipotesi è presentata così: Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello”.
Questa azione è al primo livello quella compiuta nel “segreto”: il dialogo personale, infatti, stabilisce un’intimità che permette di sciogliere le incomprensioni e di rispettare meglio la dignità e l’onore del fratello. Il dovere di intervenire non si limita solo al caso di un’offesa personale, ma si estende a tutte le occasioni in cui emerge nella comunità un comportamento contrario allo spirito del vangelo.
L’esigenza di intervenire si contempla anche nel Libro del Levitico dove si dice: “Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d’un peccato per lui” (Lv 19,17) Con il riconoscimento del proprio errore da parte di chi ha sbagliato il caso resta chiuso e non viene richiesta nessuna procedura ulteriore.

Nel caso che l’ammonizione a tu per tu sia rifiutata, si richiede un secondo tentativo: “se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni.”
Questa azione al secondo livello è quello dei “testimoni”. Perciò prima di mettere in pubblico la mancanza commessa dal fratello viene richiesto l’intervento privato di due o tre membri della comunità. Questo passo è suggerito anche dal Deuteronomio : “Un solo testimone non avrà valore contro alcuno (...); qualunque peccato (Dt 19,15).questi abbia commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni”.
È possibile che neppure l’intervento delle due o tre persone chiamate in causa risolva il problema. Perciò il testo continua con altri due supposizioni: Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano”. Ossia se neanche così è disposto ad assumersi le proprie responsabilità, egli deve essere trattato come con un pagano e un pubblicano. Nella mentalità giudaica ciò significa essere allontanato dalla comunità, ossia scomunicato.

Il motivo di un provvedimento così rigoroso è sicuramente determinato non tanto per ragioni punitive, quanto per la preoccupazione di evitare di scandalizzare i fratelli più deboli e di mantenere sano il livello di vita della comunità. Una decisione analoga, è contemplata anche nella parabola dell’invitato a nozze privo dell’abito nuziale (V. Mt 22,11-13), ed è richiesta anche da Paolo nei confronti dell’incestuoso di Corinto (V,1Cor 5,4-5).
Dopo aver indicato come comportarsi col fratello che sbaglia, Matteo conclude:

In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.
Questo detto richiama da vicino quello con cui nel vangelo di Giovanni, Gesù risorto assegna ai Suoi discepoli il compito di perdonare o non perdonare i peccati (V.Gv 20,23), cioè di annunziare a tutto il mondo la riconciliazione operata da Cristo. In questo caso il detto mette in primo piano il potere assegnato alla comunità di prendere decisioni autorevoli circa i suoi membri.
Al termine del brano riguardante la correzione fraterna, Matteo riporta due massime strettamente collegate al brano precedente. Nella prima di esse dice: “se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà.” ossia solo se la preghiera è sincera e parte dal cuore dei fratelli potrà essere esaudita.

In questo caso la preghiera è suggerita dalla sollecitudine per i fratelli che hanno sbagliato, e ha come scopo la loro conversione e la loro riammissione nella comunità.
A spiegazione di questo detto viene affermato:
“Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”.
La forza della preghiera comunitaria dipende dalla presenza di Cristo che unisce tra di loro nel Suo nome i fratelli, i quali hanno aderito alla Sua parola e alla Sua persona e sono partecipi della Sua stessa fede.
Una frase simile la si trova anche nei testi rabbinici : “Se due stanno insieme e in mezzo a loro ci sono le parole della Torah, in mezzo a loro sta la Shekinàh (Dio)” La differenza sta nel fatto che il vincolo che unisce i discepoli non sono le parole della legge, ma la persona del Cristo risuscitato, nel quale Dio si rende presente in mezzo a loro.
Una comunità riconciliata è il segno tangibile della presenza di Dio non solo in mezzo ai credenti, ma in tutta l’umanità. Solo la preghiera perciò può riconciliare non solo il fratello che sbaglia, ma anche tutta l’umanità immersa nell’errore,

 

Il Vangelo di questa domenica, tratto dal capitolo 18° di Matteo, presenta il tema della correzione fraterna nella comunità dei credenti: cioè come io devo correggere un altro cristiano quando fa una cosa non buona. Gesù ci insegna che se il mio fratello cristiano commette una colpa contro di me, mi offende, io devo usare carità verso di lui e, prima di tutto, parlargli personalmente, spiegandogli che ciò che ha detto o ha fatto non è buono. E se il fratello non mi ascolta? Gesù suggerisce un progressivo intervento: prima, ritorna a parlargli con altre due o tre persone, perché sia più consapevole dello sbaglio che ha fatto; se, nonostante questo, non accoglie l’esortazione, bisogna dirlo alla comunità; e se non ascolta neppure la comunità, occorre fargli percepire la frattura e il distacco che lui stesso ha provocato, facendo venir meno la comunione con i fratelli nella fede.

Le tappe di questo itinerario indicano lo sforzo che il Signore chiede alla sua comunità per accompagnare chi sbaglia, affinché non si perda. Occorre anzitutto evitare il clamore della cronaca e il pettegolezzo della comunità – questa è la prima cosa, evitare questo -. «Va’ e ammoniscilo fra te e lui solo» . L’atteggiamento è di delicatezza, prudenza, umiltà, attenzione nei confronti di chi ha commesso una colpa, evitando che le parole possano ferire e uccidere il fratello. Perché, voi sapete, anche le parole uccidono! Quando io sparlo, quando io faccio una critica ingiusta, quando io “spello” un fratello con la mia lingua, questo è uccidere la fama dell’altro! Anche le parole uccidono. Facciamo attenzione a questo. Nello stesso tempo questa discrezione di parlargli da solo ha lo scopo di non mortificare inutilmente il peccatore. Si parla fra i due, nessuno se ne accorge e tutto è finito.

È alla luce di questa esigenza che si comprende anche la serie successiva di interventi, che prevede il coinvolgimento di alcuni testimoni e poi addirittura della comunità. Lo scopo è quello di aiutare la persona a rendersi conto di ciò che ha fatto, e che con la sua colpa ha offeso non solo uno, ma tutti. Ma anche di aiutare noi a liberarci dall’ira o dal risentimento, che fanno solo male: quell’amarezza del cuore che porta l’ira e il risentimento e che ci portano ad insultare e ad aggredire. E’ molto brutto vedere uscire dalla bocca di un cristiano un insulto o una aggressione. E’ brutto. Capito? Niente insulto! Insultare non è cristiano. Capito? Insultare non è cristiano.
In realtà, davanti a Dio siamo tutti peccatori e bisognosi di perdono. Tutti. Gesù infatti ci ha detto di non giudicare. La correzione fraterna è un aspetto dell’amore e della comunione che devono regnare nella comunità cristiana, è un servizio reciproco che possiamo e dobbiamo renderci gli uni gli altri. Correggere il fratello è un servizio, ed è possibile ed efficace solo se ciascuno si riconosce peccatore e bisognoso del perdono del Signore. La stessa coscienza che mi fa riconoscere lo sbaglio dell’altro, prima ancora mi ricorda che io stesso ho sbagliato e sbaglio tante volte.

Per questo, all’inizio della Messa, ogni volta siamo invitati a riconoscere davanti al Signore di essere peccatori, esprimendo con le parole e con i gesti il sincero pentimento del cuore. E diciamo: “Abbi pietà di me, Signore. Io sono peccatore!. Confesso, Dio Onnipotente, i miei peccati”. E non diciamo: “Signore, abbi pietà di questo che è accanto a me, o di questa, che sono peccatori”. No! “Abbi pietà di me!”. Tutti siamo peccatori e bisognosi del perdono del Signore. È lo Spirito Santo che parla al nostro spirito e ci fa riconoscere le nostre colpe alla luce della parola di Gesù. Ed è lo stesso Gesù che ci invita tutti, santi e peccatori, alla sua mensa raccogliendoci dai crocicchi delle strade, dalle diverse situazioni della vita (cfr Mt 22,9-10). E tra le condizioni che accomunano i partecipanti alla celebrazione eucaristica, due sono fondamentali, due condizioni per andare bene a Messa: tutti siamo peccatori e a tutti Dio dona la sua misericordia. Sono due condizioni che spalancano la porta per entrare a Messa bene. Dobbiamo sempre ricordare questo prima di andare dal fratello per la correzione fraterna.
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 7 settembre 2014

 

UNA CERIMONIA COMMOVENTE
Sfidando l’anomala calura che caratterizza queste giornate estive anche sull’Appennino Umbro-Marchigiano, venerdì 4 agosto alle ore 11.00, nel piccolo santuario di Salmata di Nocera Umbra dedicato a Nostra Signora de La Salette, si è celebrata una Messa particolare durante la quale Padre Bruno, Padre Giuliano, Padre Giancarlo e Padre Celeste hanno ricordato e rinnovato i loro primi voti salettini pronunciati 60 anni fa. Concelebravano anche Padre Elpidio, Padre Heliodoro e Padre Gianmatteo.

La liturgia di questa domenica ci indica quale sia la via per seguire Gesù: incamminarsi con lui verso la Croce, perchè chi vuol essere con Lui, deve accettare di rischiare la propria vita, seguendo il suo esempio.

Nella prima lettura, vediamo come il profeta Geremia vorrebbe sottrarsi al compito che Dio gli ha affidato. E’ una confessione dolorosa che il profeta fa delle ostilità che la sua vocazione profetica incontra, ma alla fine riconosce che la Parola di Dio è divenuta più forte di lui, è come un fuoco che gli brucia dentro, che non può più contenere. Il profeta anticipa la figura del servo sofferente, immagine di Gesù.

Nella seconda lettura, dalla lettera ai Romani, San Paolo ci esorta a non comportarci secondo la logica del mondo che non conosce Cristo, ma di imparare a discernere per lasciarci poi trasformare dallo Spirito nella ricerca del volere di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.

Il Vangelo di Matteo, ci presenta Gesù che rivela ai suoi discepoli il senso del suo essere Messia: non il successo e la fama, ma lo scandalo della croce. Gesù alle pretese di Pietro, che a nome degli altri apostoli, aveva commentato «... Signore questo non ti accadrà mai» gli rivela che chi non accetta la logica della croce non pensa secondo Dio, ma secondo gli uomini. Poi aggiunge, rivolto ai suoi discepoli di allora, e a noi oggi:”Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.” Questo è il paradosso cristiano: perdersi per ritrovarsi in Dio; spendersi per acquistare, servire per essere dalla parte di Dio; donare la vita per vivere da risorti.

Dal libro del profeta Geremìa
Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre;
mi hai fatto violenza e hai prevalso.
Sono diventato oggetto di derisione ogni giorno;
ognuno si beffa di me.
Quando parlo, devo gridare, devo urlare: «Violenza! Oppressione!».
Così la parola del Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno tutto il giorno.
Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!».
Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa;
mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo.
Ger 20,7-9

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T. a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C). Incompreso, perseguitato, spesso minacciato di morte, Geremia, timido ma amico di Dio, non cessa di lanciare angosciati appelli alla conversione, non esita a mostrare a dito i responsabili che hanno deviato il popolo. Egli se la prende con la falsa coscienza dei benpensanti che si credono nel giusto, solo perchè osservano le pratiche religiose, senza viverle nell’animo.

Questo brano riporta i noti versetti, :“Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre;mi hai fatto violenza e hai prevalso,” che sono tratti dal cap. 20, e fanno parte dell’ultima sezione delle celebri confessioni; contengono parole impressionanti, ma si troveranno ancora di più sconcertanti nei versetti successivi. Il profeta si sente ingannato da Dio che lo ha reso, a causa della sua missione, un escluso dalla società, vorrebbe ribellarsi infatti dice: Mi dicevo: "Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!". Lui si propone questo, un po’ come un uomo innamorato di una donna che dice a sé stesso "Non penserò più a lei!” ma poi si rende conto che il suo amore è più forte di lui, capisce che “è come un fuoco ardente, chiuso nelle sue ossa, che non si può contenere” . La sua vocazione, è divenuta più forte di lui!
Geremia, profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù, rimane per il suo popolo, e per tutti i cristiani, un testimone della speranza. Egli fu anche l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà. La sua intimità con Dio e la religione del cuore, che egli ha vissuto e predicato, fanno di lui il profeta-maestro della vita interiore dell’uomo di ogni tempo.

Salmo 62 Ha sete di te, Signore, l’anima mia.

O Dio, tu sei il mio Dio,
dall’aurora io ti cerco,
ha sete di te l’anima mia,
desidera te la mia carne
in terra arida, assetata, senz’acqua.

Così nel santuario ti ho contemplato,
guardando la tua potenza e la tua gloria.
Poiché il tuo amore vale più della vita,
le mie labbra canteranno la tua lode.

Quando penso a te che sei stato il mio aiuto,
esulto di gioia all’ombra delle tue ali.
A te si stringe l’anima mia:
la tua destra mi sostiene.
Il salmo presenta un pio giudeo, che fin dal primissimo mattino si pone in orazione. Egli cerca Dio, perché gli si è rivelato a lui per mezzo del dono della fede e delle Scritture, e ora cerca l’unione con lui, l’intima conoscenza di lui, in un “cercare” in cui il “trovare” spinge ancor più a cercare.
L’orante è presentato come un assetato in mezzo ad un deserto. Ma l’assetato del salmo sa dov’è la fonte, non è disorientato; sa che la fonte della pace e della gioia è Dio: Dio stesso è questa fonte.
L’orante ha un punto di riferimento: il tempio; e così vi si reca per trarre ristoro nella contemplazione Dio: “Così nel santuario ti ho contemplato, guardando la tua potenza e la tua gloria”. L’orante cerca Dio, ama Dio, non tanto i benefici di Dio. Ama lui, e lo dichiara poiché dice che la comunione con lui (“il tuo amore") “vale più della vita”. Questa dolce consapevolezza è la molla della sua lode: “Le mie labbra canteranno la tua lode”; “Così ti benedirò per tutta la vita”. Egli, ritornato dal tempio alla sua dimora, probabilmente distante da Gerusalemme, ha come pensiero dolce e vivo Dio, e così “nelle veglie notturne”, quando il sonno è assente, non si agita, ma pensa a Dio, cerca Dio.

Ha tanti nemici che cercano di ucciderlo, che probabilmente sono con bande di predoni Idumei (Cf. Ps 58), ma ha la ferma speranza che i nemici non avranno vittoria e che il re trionferà e insieme a lui chi gli è fedele: “Chi giura per lui” (Cf. 1Sam 17,55; 25,2; 2Sam 11,11; 15,21; ecc.). Gli ultimi versetti, per le loro dure espressioni, non entrano nella recitazione cristiana.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, vi esorto, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.
Rm 12,1-2
Nel corso della sua lettera ai Romani, Paolo ha rivolto diverse esortazioni a carattere dottrinale. Dal capitolo 12 iniziano esortazioni che sembrano a prima vista molto generali, ma in realtà ci dimostrano come egli conosceva bene la situazione della comunità romana perchè le dà direttive concrete e particolari.
In questo brano Paolo sollecita anzitutto i romani dicendo: vi esorto, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. …
Paolo non si appella dunque al buon senso dei destinatari, ma al fatto che essi sono oggetto di un particolare amore da parte di Dio, che ha fatto di loro il suo popolo. In forza del dono ricevuto, i credenti devono a loro volta offrire a Dio i propri “corpi”. Questo termine indica non una parte, ma tutta la persona, nelle sue grandezze e limitazioni. In altre parole Paolo li esorta a mettere al servizio non più del peccato, ma di Dio tutto il loro essere e il loro operare.
I credenti devono offrire a Dio i propri corpi come “sacrificio vivente”
Questo sacrificio è “vivente” perché mediante il battesimo i credenti sono morti al peccato e “camminano in una vita nuova” (Rm 6,4);
Il sacrificio è anche “santo”, in quanto coloro che lo praticano hanno ottenuto in modo pieno la santità del popolo di Dio (V. Rm 1,7) e “gradito a Dio”, poiché essi non mancano di affidarsi alla la Sua volontà.
Questo sacrificio è un “culto”, cioè un servizio divino, analogo a quello che era offerto dai sacerdoti nel tempio e costituiva uno dei privilegi di Israele (V. Rm 9,4); da esso però si distingue in quanto è “spirituale”, cioè dettato dalla ragione guidata dallo Spirito.

Poi l’Apostolo continua raccomandando una componente molto importante di questo sacrificio:
Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.
I credenti non devono conformarsi alla mentalità di questo mondo, ma piuttosto rinnovarsi intimamente per poter discernere la volontà di Dio.
Secondo la terminologia dei rabbini “questo mondo”, in quanto si oppone al “mondo futuro”, è il mondo attuale immerso nel peccato, che Paolo ha descritto lungamente nella prima parte della lettera (Rm 1,18-3,8). Essi devono evitare di “conformarsi” ad esso, cioè di assumere la mentalità che gli è propria, e perciò devono adottare uno stile di vita diverso.
Per fare ciò non devono uscire dal mondo (V. 1Cor 5,9-10), ma piuttosto devono “lasciarsi trasformare”, operando in se stessi un profondo “rinnovamento” della mente, cioè del proprio modo di pensare. *
Ciò ha come effetto la capacità di “discernere”, ossia di scoprire quale sia la volontà di Dio, che consiste in tutto “ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (V.Sal 19,8-9).
La volontà di Dio non si manifesta quindi in precetti che scandiscono la vita personale e comunitaria, ma in un bene che deve essere individuato dalla ragione illuminata dalla fede e dalla carità e praticato nelle più varie circostanze della vita.

Paolo sottolinea così come il credente sia chiamato ad offrire tutto se stesso a Dio nell’obbedienza alla Sua volontà.
La vita cristiana non consiste in atteggiamenti rituali e neppure in slanci mistici dell’anima, ma in un operare quotidiano e costante in conformità al volere divino. Questo è indicato certamente nella legge che Dio ha dato al Suo popolo, ma secondo l’insegnamento di Gesù essa ha cessato di essere un insieme di prescrizioni che regolano i dettagli della vita quotidiana per identificarsi con l’unico comandamento che impone l’amore del prossimo. E proprio a questo amore che il credente deve conformarsi, dissociandosi dalla mentalità di questo mondo, tutta incentrata sul soddisfacimento egoistico dei propri desideri.
Al credente, che deve prendere ogni giorno numerose decisioni piccole e grandi, Paolo non propone dunque come criterio una legge, bensì la ragione del cuore, la quale è ora guidata e illuminata dallo Spirito.
_________________
* Questo pensiero di Paolo è ripreso in pieno nella Lettera a Diogneto, un testo anonimo risalente alla fine del II secolo, e inserito tradizionalmente nel corpo degli scritti dei Padri Apostolici
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».

Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni
Mt 16, 21-27
Nella brano liturgico di domenica scorsa, l’evangelista Matteo ci narrava dell’apostolo Pietro che veniva elogiato da Gesù per averlo riconosciuto Messia, Figlio di Dio, e depositario delle chiavi del regno; questa volta nel brano successivo ci riporta l’episodio in cui Gesù parla per la prima volta ai suoi della sua passione. E' il primo dei tre annunci della passione-morte e risurrezione che Gesù in diverse riprese fa ai discepoli durante il viaggio verso la città santa.
Il brano inizia con narrarci che “Gesù cominciò a spiegare spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno.”

E’ proprio Pietro, che poco prima lo aveva proclamato: “il Cristo, il Figlio del Dio vivente” si sente in disaccordo con questo annunzio. Riconoscendo in Gesù il Messia promesso, Pietro come i suoi compagni pensava anche lui al liberatore politico e militare che con la forza di Dio avrebbe vinto tutti gli oppressori del suo popolo, instaurando una condizione di pace universale.
Anche questa volta, forse rafforzato dall’elogio ricevuto poco prima, prende coraggio e riprende Gesù dicendo: Dio te ne scampi, Signore, questo non ti accadrà mai”
La contro-reazione di Gesù è però quanto mai forte: “ Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”

Il contrasto con la scena precedente - in cui Gesù aveva proclamato "beato" Pietro - non può essere immaginato più netto e più crudo. Gesù lo chiama addirittura "satana": il Nemico - che nel deserto aveva cercato di persuaderlo a imboccare la via del potere e del successo, ora torna all'assalto con una forza di suggestione ancora maggiore, servendosi del discepolo stesso. Ciò spiega la sua risposta dura e decisa: " Va’ dietro a me, Satana” che richiama quel “Vattene, satana!" (Mt 4,10) con cui Gesù aveva liquidato il tentatore. Probabilmente, però, l'espressione può essere anche intesa nel richiamare Pietro a mettersi di nuovo nella sua posizione di discepolo che non pretende di precedere il Maestro insegnandogli la strada, ma lo segue accettando umilmente di condividere la sua sorte.
Tu mi sei di scandalo", cioè vuoi impedirmi di seguire il volere di mio Padre: "perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini".

Questo ultimo richiamo arriva anche a noi che ragioniamo molto spesso come Pietro e gli altri discepoli. Anche noi, come loro, spesso siamo prigionieri di un'immagine di Dio che - se è veramente potente e buono - non può permettere il dolore in tutte le sue forme e dovrebbe sopprimere quanti operano il male. Questo Dio però, dobbiamo rendercene conto ogni giorno di più, che è un dio a nostra immagine e somiglianza e non è il Dio di Gesù.

Poi Gesù ci dice quali sono le condizioni per seguirlo "Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua….".
Sono parole che suonano dure ai nostri orecchi, ma sono le uniche che possono liberarci dalla prigionia delle nostre tradizioni, delle nostre abitudini, delle nostre pigrizie, per cui possiamo capire che “rinnegare se stessi”, vuol dire rinnegare l’uomo vecchio che è in noi, per ritrovare la purezza della nostra origine, la ragione vera della nostra vita.

La via per la salvezza è una via diversa da quella del mondo che spinge invece a cercare solo se stessi senza occuparsi degli altri. Per questo Gesù insiste: "Chi vorrà salvare la propria vita la perderà".
Nessuno può salvarsi da solo perchè colui che vuole salvarsi da solo si perderà e non avrà neanche gustato la felicità dell'amicizia e della fraternità. Potrà anche guadagnare il mondo intero, ma non sarà mai soddisfatto. La felicità non sta nel possedere i beni del mondo, che dovremo prima e poi lasciare, ma nell'essere uomini e donne rinnovati nel cuore e nello spirito dal Vangelo.
********************
Nell’itinerario domenicale con il Vangelo di Matteo, arriviamo oggi al punto cruciale in cui Gesù, dopo aver verificato che Pietro e gli altri undici avevano creduto in Lui come Messia e Figlio di Dio, «cominciò a spiegare [loro] che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto … , venire ucciso e risorgere il terzo giorno». E’ un momento critico in cui emerge il contrasto tra il modo di pensare di Gesù e quello dei discepoli. Pietro addirittura si sente in dovere di rimproverare il Maestro, perché non può attribuire al Messia una fine così ignobile. Allora Gesù, a sua volta, rimprovera duramente Pietro, lo rimette “in riga”, perché non pensa «secondo Dio, ma secondo gli uomini» e senza accorgersene fa la parte di satana, il tentatore.
Su questo punto insiste, nella liturgia di questa domenica, anche l’apostolo Paolo, il quale, scrivendo ai cristiani di Roma, dice loro: «Non conformatevi a questo mondo - non entrare negli schemi di questo mondo - ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio»

In effetti, noi cristiani viviamo nel mondo, pienamente inseriti nella realtà sociale e culturale del nostro tempo, ed è giusto così; ma questo comporta il rischio che diventiamo “mondani”, il rischio che “il sale perda il sapore”, come direbbe Gesù, cioè che il cristiano si “annacqui”, perda la carica di novità che gli viene dal Signore e dallo Spirito Santo. Invece dovrebbe essere il contrario: quando nei cristiani rimane viva la forza del Vangelo, essa può trasformare «i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita» (Paolo VI, Esort. ap.Evangengelii nuntiandi, 19).
E’ triste trovare cristiani “annacquati”, che sembrano il vino allungato, e non si sa se sono cristiani o mondani, come il vino allungato non si sa se è vino o acqua! E’ triste, questo. E’ triste trovare cristiani che non sono più il sale della terra, e sappiamo che quando il sale perde il suo sapore, non serve più a niente. Il loro sale ha perso il sapore perché si sono consegnati allo spirito del mondo, cioè sono diventati mondani.
Perciò è necessario rinnovarsi continuamente attingendo la linfa dal Vangelo. E come si può fare questo in pratica? Anzitutto proprio leggendo e meditando il Vangelo ogni giorno, così che la parola di Gesù sia sempre presente nella nostra vita. Ricordatevi: vi aiuterà portare sempre il Vangelo con voi: un piccolo Vangelo, in tasca, nella borsa, e leggerne durante il giorno un passo. Ma sempre con il Vangelo, perché è portare la Parola di Gesù, e poterla leggere. Inoltre partecipando alla Messa domenicale, dove incontriamo il Signore nella comunità, ascoltiamo la sua Parola e riceviamo l’Eucaristia che ci unisce a Lui e tra noi; e poi sono molto importanti per il rinnovamento spirituale le giornate di ritiro e di esercizi spirituali. Vangelo, Eucaristia e preghiera. Non dimenticare: Vangelo, Eucaristia, preghiera. Grazie a questi doni del Signore possiamo conformarci non al mondo, ma a Cristo, e seguirlo sulla sua via, la via del “perdere la propria vita” per ritrovarla. “Perderla” nel senso di donarla, offrirla per amore e nell’amore – e questo comporta il sacrificio, anche la croce – per riceverla nuovamente purificata, liberata dall’egoismo e dall’ipoteca della morte, piena di eternità.
La Vergine Maria ci precede sempre in questo cammino; lasciamoci guidare e accompagnare da lei.
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 31 agosto 2017

 

Domenica, 27 Agosto 2017 08:29

XXI Domenica – 27 agosto 2017

Ancora una settimana, fino alla domenica 3 Settembre, l'ordine dell'orario delle Sante Messe sarà estivo. Lunedì 4 settembre ritorneremo all'ordine dell'anno, cioè nei giorni della settimana 7,30 9,00 18,30 e nella domenica 8,00 10,00 11,30 e 18,30

Le letture che la liturgia di questa domenica ci porta a meditare, hanno come filo conduttore il simbolo delle chiavi e il suo significato profondo
La prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia, riporta l’oracolo che annuncia che Dio metterà la chiave della casa di Davide nelle mani di Eliakim, personaggio che simboleggia Cristo, Colui che prenderà su di sé in modo definitivo la chiave di Israele.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, San Paolo di fronte ai disegni meravigliosi e imperscrutabili della sapienza e della misericordia di Dio, invita tutti a contemplare e adorare il Creatore.
Nel Vangelo, San Matteo narra come alla professione di fede di Pietro, Gesù risponde con la dichiarazione che proprio su di lui, Pietro, edificherà la Sua Chiesa, e gli affiderà l’incarico del servizio dell’autorità e della guida nell’unità. Per fede Pietro ha ricevuto il dono delle chiavi del Regno dei cieli e con esse il potere di sciogliere e legare, così per fede noi, come Pietro, possiamo riconoscere in Gesù, il Figlio del Dio vivente.

Dal libro del profeta Isaia
Così dice il Signore a Sebna, maggiordomo del palazzo:
«Ti toglierò la carica, ti rovescerò dal tuo posto.
In quel giorno avverrà
che io chiamerò il mio servo Eliakìm, figlio di Chelkìa;
lo rivestirò con la tua tunica,
lo cingerò della tua cintura e metterò il tuo potere nelle sue mani.
Sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme
e per il casato di Giuda.
Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide:
se egli apre, nessuno chiuderà;
se egli chiude, nessuno potrà aprire.
Lo conficcherò come un piolo in luogo solido
e sarà un trono di gloria per la casa di suo padre».
Is 22,19-23

Il profeta Isaia iniziò la sua opera pubblica verso la fine del regno di Ozia, re di Giuda, attorno al 740 a.C. A quel tempo, l'intera regione siro-palestinese era minacciata dall'espansionismo assiro. Il suo libro si apre con una raccolta di oracoli anteriori alla guerra siro-efraimita (cc. 1-5), a cui fa seguito il “libro dell’Emmanuele”, che risale invece al periodo in cui questo evento ha avuto luogo (cc. 6-12). Dopo queste due parti troviamo una serie di oracoli contro le nazioni (cc. 13-23). Verso la fine di questa raccolta si trova, un oracolo contro Sebna, un personaggio della corte reale, maggiordomo del re. Si tratta di un oracolo, anteriore alla campagna di Sennacherib (701 a.C.): ed è l’unico in cui il profeta si interessa alle sorti di una singola persona. A Sebna il profeta preannunzia la destituzione e la sostituzione con un altro dignitario chiamato Eliakim.

Nella parte precedente questo brano, vengono riportate le ragioni della disgrazia di Sebna e si descrive in modo metaforico la sua caduta. Il profeta lo accusa di essersi fatto costruire un sepolcro sotterraneo seguendo l’uso dei notabili egizi, con lo scopo certamente di immortalare il suo nome e l’immagine usata per indicare la sua caduta in disgrazia è quella di una palla che DIO scaglia lontano e fa rotolare sopra un ampio terreno; in conclusione il profeta gli annunzia che morirà in un paese straniero
Nel brano liturgico viene preannunziata in modo esplicito la sostituzione di Sebna: Il Signore stesso interviene pronunciando questa sentenza : “Ti toglierò la carica, ti rovescerò dal tuo posto. ….
È questo il primo passo della sua caduta. Il profeta però quasi a rendere più dura la sua disgrazia descrive il passaggio del suo incarico ad un altro personaggio della corte:
In quel giorno avverrà che io chiamerò il mio servo Eliakìm, figlio di Chelkìa;
La sostituzione di Sebna con Eliakim viene descritta mediante due azioni rituali, il rivestimento del secondo con gli abiti del primo e il conferimento della chiave. Eliakim verrà rivestito della tunica e cinto con la sciarpa che erano appartenute a Sebna.

Ciò significa che gli sarà conferito il potere che questi prima deteneva: questa umiliazione sarà tanto più cocente in quanto il nuovo dignitario “ Sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per il casato di Giuda”. “Padre” era un titolo o un ufficio di corte (cfr. Is 9,5): al di là del suo significato formale questo vuol forse dire che Eliakim gestirà la sua carica in modo tale da riscuotere non solo l’approvazione del re, ma anche il favore della gente comune. Forse proprio questo non era riuscito a Sebna, e ciò era stato uno dei motivi della sua rimozione.
Inoltre a Eliakim verrà consegnata la chiave della casa di Davide. Con questa chiave egli potrà aprire e chiudere, senza che nessuno possa ostacolarlo: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire. La chiave della casa di Davide rappresenta il potere decisionale in tutti gli affari riguardanti il governo della nazione.
Infine si dice che Eliakim sarà come un paletto conficcato in un” luogo solido” e “sarà un trono di gloria per la casa di suo padre».

Con l’immagine del paletto conficcato in luogo solido si vuole dunque significare la stabilità dell’incarico conferito. Il “trono di gloria” indica il suo successo, che porterà onore e potenza a tutta la sua famiglia.
L’importanza di questo testo è dovuta anche al fatto che viene ripreso nell’Apocalisse “Così parla il Santo, il Verace,Colui che ha la chiave di Davide: quando egli apre nessuno chiude, e quando chiude nessuno apre” (3,7) e anche Matteo ci fa riferimento nel suo Vangelo “A te darò le chiavi del regno dei cieli:” (16,19) . Affidare le chiavi è rendere l’affidatario detentore di pieni poteri.
________________
Nei versetti successivi, non riportati dal brano liturgico, leggiamo che proprio perché di Eliakim si sono approfittati tutti i suoi parenti,* egli sarà come un paletto che si spezza e cade, coinvolgendo nella sua rovina tutto ciò che era stato appeso ad esso. Anche per Eliakim, nonostante le sue qualità, il potere sarà una realtà temporanea e provvisoria.
* (situazione che si è sempre ripetuta … dice bene Qoèlet “Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà;non c’è niente di nuovo sotto il sole” Qo 1,9)

Salmo 137 - Signore, il tuo amore è per sempre.
Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore:
hai ascoltato le parole della mia bocca.
Non agli dèi, ma a te voglio cantare,
mi prostro verso il tuo tempio santo.

Rendo grazie al tuo nome
per il tuo amore e la tua fedeltà:
hai reso la tua promessa più grande del tuo nome.
Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto,
hai accresciuto in me la forza.

Perché eccelso è il Signore,
ma guarda verso l’umile;
il superbo invece lo riconosce da lontano.
Signore, il tuo amore è per sempre:
non abbandonare l’opera delle tue mani.

Il salmista ringrazia Dio per avere ascoltato la sua preghiera e avergli usato misericordia. La tradizione parla del re Davide, ma più probabilmente si tratta di Ezechia dopo la clamorosa liberazione di Gerusalemme dall'assedio degli Assiri (2Re 19,35): “Hai reso la tua promessa più grande del tuo nome”.
Egli vuole cantare la sua lode al cospetto di Dio, rifiutando ogni adesione agli idoli: "Non agli dèi, ma a te voglio cantare".
Dio ha risposto alla sua supplica rendendolo più forte di fronte ai sui nemici: “Hai accresciuto in me la forza”.
Il salmista professa la sua fede nel futuro messianico che vedrà “tutti i re della terra” lodare il Signore. Sarà quando “ascolteranno le parole della tua bocca”, dove per “bocca” si deve intendere il futuro Messia.
I re, i popoli, celebreranno le vie del Signore annunciate dal Messia.

Il salmista ha grande fiducia in Dio, affinché la sua missione di re abbia successo: "Il Signore farà tutto per me". Il salmista termina invocando: “Non abbandonare l'opera delle tue mani”, cioè la dinastia di Davide.Noi crediamo che giungerà il tempo della “civiltà dell'amore”, quando i popoli e i potenti che li governano, si apriranno a Cristo. Ogni cristiano deve adoperarsi per questo tempo con la forza (“hai accresciuto in me la forza”) che sgorga dalla partecipazione Eucaristica.
La nostra battaglia non è contro nemici fatti di carne e sangue, come ci dice san Paolo (Ef 6,12), ma “contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male”, cioè contro i demoni.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
O profondità della ricchezza, della sapienza
e della conoscenza di Dio!
Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!
Infatti, chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore?
O chi mai è stato suo consigliere?
O chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne il contraccambio?
Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose.
A lui la gloria nei secoli. Amen.
Rm 11,33-36

L’Apostolo Paolo dopo aver dato la sua spiegazione, ispirata alle Scritture, sul mistero di Israele, ha concluso che alla fine anche tutto il popolo eletto sarà salvato. Al termine di questa sua profonda riflessione Paolo eleva un inno di lode a Dio,.
Il brano liturgico si apre con la lode che Paolo esprime con due esclamazioni: “O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!”. Egli esalta con la prima esclamazione la grandezza di Dio come creatore.
La profondità riguarda tre aspetti: la Sua “ricchezza”, che consiste nelle risorse inesauribili della Sua potenza, la Sua “sapienza”, che è l’attributo manifestato da Dio nella creazione, la Sua “scienza” che è la conoscenza intima e diretta che Dio ha di tutte le realtà create.
Con la seconda esclamazione Paolo esalta Dio come colui che conduce gli esseri umani alla salvezza: i Suoi “giudizi” sono insondabili e le Sue “vie” cioè le Sue scelte, sono inaccessibili: l’uomo può vedere solo gli “effetti delle decisioni divine”, ma le Sue scelte profonde sono al di fuori della sua comprensione.
Paolo poi si pone tre domande che formula con le parole stesse della Scrittura. Per le prime due:chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere?
attinge ad un passo di Isaia e di Geremia (Is 40,13; cfr. Ger 23,18)

Per la terza domanda O chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne il contraccambio? Paolo attinge al libro di Giobbe (Gb 41,3). Anche qui si possono solo dare risposte negative perchè nessuno può pensare neppure lontanamente di aver dato qualcosa a Dio e pretendere così che Dio sia debitore nei suoi confronti. Dio è totalmente al di sopra e al di fuori della portata di ogni Sua creatura!
Alle tre domande fa seguito una piccola professione di fede “Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose”.
Paolo, qui si ispira alla teologia biblica della creazione in cui Dio è presentato come il principio supremo dal quale tutte le cose hanno origine. Dio è anche la causa strumentale, cioè Colui per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte ed è anche la meta verso cui gli esseri umani devono orientarsi per trovare il significato della loro vita . Il brano termine con la formula: “A lui la gloria nei secoli. Amen”. con la quale a Dio solo viene attribuita la lode da parte di tutte le creature.

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti».
Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
Mt 16,13-19

In questo brano l’evangelista Matteo riferisce che Gesù, venendo nelle parti di Cesarea di Filippo, chiede ai suoi discepoli: “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”
La risposta dei discepoli viene espressa con le stesse parole riportate anche nel Vangelo di Marco. Gesù viene così identificato, oltre che con il Battista, convinzione condivisa anche da Erode Antipa, con Elia, atteso come precursore del Messia,oppure con uno degli antichi profeti ritornato in vita. A questi personaggi Matteo aggiunge però anche Geremia, considerato un grande intercessore e difensore d’Israele.
Gesù non fa nessun commento a questa risposta, ma sembra più interessato a conoscere cosa i discepoli pensano di lui. La risposta di Pietro è molto diretta: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Matteo amplia la risposta asserita da Marco aggiungendo “il Figlio del Dio vivente”, come pure la risposta di Gesù a Pietro si trova solo in Matteo: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”. Gesù così afferma che la conoscenza che Simone ha di lui non proviene da “carne e sangue”, cioè dalla sua intelligenza umana, ma da una rivelazione speciale del Padre

Gesù poi prosegue: "E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa”.
Il termine “Pietro”, è la traduzione greca dell’aramaico Kephas (roccia) e sta ad indicare una pietra staccata da un masso o un sasso . Nell’AT il titolo di “roccia” viene attribuito a Dio, in quanto saldo rifugio in cui l’orante trova protezione; nel NT l’appellativo di “pietra” è attribuito a Cristo (At 4,11; Rm 9,33; 1Pt 2,4-7). Simone era già stato chiamato precedentemente con questo nome (8,14; 10,2; 14,28; 15,15) ma secondo Matteo è in questo momento che Gesù glielo assegna ufficialmente. Il cambiamento di nome significa nella Bibbia il conferimento di un compito che orienterà in modo nuovo la vita del prescelto. Per questo scopo Dio aveva cambiato il nome ad Abramo e a Giacobbe (Gen 17,5; 32,29).

Simone riceve il nome di Pietro perché su di lui, in quanto roccia, Gesù edificherà la Sua chiesa e contro la chiesa fondata su Pietro le porte degli inferi non prevarranno. Con questa espressione Gesù non vuole certo dire che la Chiesa sarà preservata da tribolazioni, ma promette che non soccomberà agli assalti del Maligno.
Infine Gesù promette ancora a Pietro: “A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”.
Il conferimento delle “chiavi” poteva indicare nel linguaggio biblico la trasmissione del potere di governo: a Eliakim, nominato maggiordomo del re, è conferita la chiave della casa di Davide, con la quale egli potrà aprire e chiudere (Is 22,22). In senso analogo nell’Apocalisse, Cristo è chiamato “il Santo, il Verace, Colui che ha la chiave di David” (Ap 3,7), che ha “potere sopra la morte e sopra gli inferi.”(Ap 1,18).
A Pietro invece sono assegnate le chiavi del regno dei cieli, cioè un ruolo che viene precisato subito dopo con i verbi “legare” e “sciogliere”.
A Pietro viene dunque conferito il potere di interpretare in modo autorevole l’insegnamento di Gesù e la volontà di Dio da Lui rivelata. Ciò che egli proibirà o permetterà sarà ratificato in cielo, cioè le sue decisioni in campo dottrinale o disciplinare verranno confermate da Dio.
La missione di Pietro è anche quella di offrire il perdono di Dio (come ci ricorda continuamente Papa Francesco) e più ampiamente è quella di consolare, di ammonire, di esortare e di guidare il popolo di Dio.

Il Vangelo di questa domenica è il celebre passo, centrale nel racconto di Matteo, in cui Simone, a nome dei Dodici, professa la sua fede in Gesù come «il Cristo, il Figlio del Dio vivente»; e Gesù chiama «beato» Simone per questa sua fede, riconoscendo in essa un dono speciale del Padre, e gli dice: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa».
Fermiamoci un momento proprio su questo punto, sul fatto che Gesù attribuisce a Simone questo nuovo nome: “Pietro”, che nella lingua di Gesù suona “Kefa”, una parola che significa “roccia”. Nella Bibbia questo termine, “roccia”, è riferito a Dio. Gesù lo attribuisce a Simone non per le sue qualità o i suoi meriti umani, ma per la sua fede genuina e salda, che gli viene dall’alto.
Gesù sente nel suo cuore una grande gioia, perché riconosce in Simone la mano del Padre, l’azione dello Spirito Santo. Riconosce che Dio Padre ha dato a Simone una fede “affidabile”, sulla quale Lui, Gesù, potrà costruire la sua Chiesa, cioè la sua comunità, cioè tutti noi. Gesù ha in animo di dare vita alla “sua” Chiesa, un popolo fondato non più sulla discendenza, ma sulla fede, vale a dire sul rapporto con Lui stesso, un rapporto di amore e di fiducia. Il nostro rapporto con Gesù costruisce la Chiesa. E dunque per iniziare la sua Chiesa Gesù ha bisogno di trovare nei discepoli una fede solida, una fede “affidabile”. È questo che Lui deve verificare a questo punto del cammino.
Il Signore ha in mente l’immagine del costruire, l’immagine della comunità come un edificio. Ecco perché, quando sente la professione di fede schietta di Simone, lo chiama “roccia”, e manifesta l’intenzione di costruire la sua Chiesa sopra questa fede.

Fratelli e sorelle, ciò che è avvenuto in modo unico in san Pietro, avviene anche in ogni cristiano che matura una sincera fede in Gesù il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Il Vangelo di oggi interpella anche ognuno di noi. Come va la tua fede? Ognuno dia la risposta nel proprio cuore. Come va la tua fede? Come trova il Signore i nostri cuori? Un cuore saldo come la pietra o un cuore sabbioso, cioè dubbioso, diffidente, incredulo? Ci farà bene nella giornata di oggi pensare a questo. Se il Signore trova nel nostro cuore una fede non dico perfetta, ma sincera, genuina, allora Lui vede anche in noi delle pietre vive con cui costruire la sua comunità. Di questa comunità, la pietra fondamentale è Cristo, pietra angolare e unica. Da parte sua, Pietro è pietra, in quanto fondamento visibile dell’unità della Chiesa; ma ogni battezzato è chiamato ad offrire a Gesù la propria fede, povera ma sincera, perché Lui possa continuare a costruire la sua Chiesa, oggi, in ogni parte del mondo.

Anche ai nostri giorni tanta gente pensa che Gesù sia un grande profeta, un maestro di sapienza, un modello di giustizia… E anche oggi Gesù domanda ai suoi discepoli, cioè a noi tutti: «Ma voi, chi dite che io sia?». Che cosa risponderemo? Pensiamoci. Ma soprattutto preghiamo Dio Padre, per intercessione della Vergine Maria; preghiamolo che ci doni la grazia di rispondere, con cuore sincero: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
Papa Francesco
Parte dell’Angelus 24 agosto 2017

Pagina 10 di 44

Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

Parrocchia Nostra Signora de La Salette
Piazza Madonna de La Salette 1 - 00152 ROMA
tel. e fax 06-58.20.94.23
e-mail: email
Settore Ovest - Prefettura XXX - Quartiere Gianicolense - 12º Municipio
Titolo presbiterale: Card. Polycarp PENGO
Affidata a: Missionari di Nostra Signora di «La Salette» (M.S.)
 

Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice! Accetta i cookie per chiudere avviso. Per saperne di più riguardo ai cookie utilizzati e a come cancellarli, guarda il regolamento Politica sulla Privacy.

Accetto i cookie da questo sito