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S.Messe (settimana)
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Henryk

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La liturgia di questa domenica, in cui si celebra la 91ma Giornata Missionaria mondiale , ci invita a comprendere meglio che vivere da veri cristiani è anche vivere da cittadini onesti, giusti e rispettosi delle leggi dello stato.

Nella prima lettura, il profeta Isaia si rivolge al popolo in esilio perchè accolga la proposta di Ciro, re dei Persiani, di ritornare nella terra dei padri. Anche un re pagano può diventare per Dio strumento di liberazione ed esecutore della sua volontà.

Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Tessalonicesi, Paolo saluta la comunità di Tessalonica chiamandola Chiesa, e afferma che lo Spirito di Cristo è all’opera per confermarla nella fede e costituirla segno di speranza.

Nel Vangelo di Matteo, Gesù, ai farisei che lo interpellavano sul tributo, afferma la distinzione tra i doveri verso Dio e i doveri verso lo stato. “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” è l’unico pronunciamento esplicito di Gesù su una questione politica. Cesare e Dio, la Chiesa e lo Stato, sono percorsi che portano alla stessa meta: non si può essere bravi cristiani senza essere di conseguenza anche bravi cittadini.

Dal libro del profeta Isaia
Dice il Signore del suo eletto, di Ciro:
«Io l’ho preso per la destra,
per abbattere davanti a lui le nazioni,
per sciogliere le cinture ai fianchi dei re,
per aprire davanti a lui i battenti delle porte
e nessun portone rimarrà chiuso.
Per amore di Giacobbe, mio servo,
e d’Israele, mio eletto,
io ti ho chiamato per nome,
ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca. Io sono il Signore e non c’è alcun altro,
fuori di me non c’è dio;
ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci,
perché sappiano dall’oriente e dall’occidente
che non c’è nulla fuori di me.
Io sono il Signore, non ce n’è altri».
Is 45,1, 4-6
Questo brano fa parte dei testi (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “deutero Isaia ”. Probabilmente era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che, dalla sue profezie prendono speranza. Infatti a partire dal 550 a.C. compare un nuovo popolo, non semitico, i Persiani, sotto il comando del loro re: Ciro. Egli in 10 anni sottomette l’oriente e agli occhi dei popoli oppressi, deportati dai Babilonesi, egli appare come un liberatore. Il Deuteroisaia non si limita a presentarlo come lo strumento scelto da Dio per portare a termine il suo piano in favore di Israele, ma gli attribuisce prerogative tipiche dei re di Giuda, ponendolo così in una prospettiva “messianica”.
Il brano liturgico inizia riportando l’oracolo: Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: «Io l’ho preso per la destra, per abbattere davanti a lui le nazioni, per sciogliere le cinture ai fianchi dei re, per aprire davanti a lui i battenti delle porte e nessun portone rimarrà chiuso»

Ciro viene presentato come l’eletto di Dio, vale a dire il messia, titolo che competeva al re di Giuda in quanto consacrato con l’unzione regale, che faceva di lui il rappresentante di Dio in mezzo al suo popolo.
È questa l’unica volta in cui questo titolo viene attribuito a un personaggio che non ha nulla a che fare con il popolo eletto. Conferendogli questo titolo il profeta vuole dimostrare che a Ciro è stata conferita una missione speciale come strumento e rappresentante di Dio, il quale perciò lo sostiene e lo aiuta.
L’assistenza di Dio nei suoi confronti viene espressa con l’espressione “l’ho preso per la destra” , utilizzata in precedenza anche per il Servo del Signore, che è una figura profetico-messianica (V. 42,6), e questo dimostra che le imprese militari di Ciro sono state guidate da Dio verso uno scopo da Lui prestabilito: la restaurazione del popolo giudaico nella sua terra.

L’intervento di Dio in favore di Ciro viene descritto con tre immagini:
“abbattere davanti a lui le nazioni”, “ sciogliere le cinture ai fianchi dei re” e “aprire davanti a lui i battenti delle porte”. Con queste espressioni Isaia vuole spiegare la rapida ascesa di questo re, che, sfruttando la decadenza di Babilonia sotto il re Nabonide, che regnò dal 556 al 539 a.C, diventato sgradito ai suoi sudditi per aver sostituito il dio Marduk con la dea lunare Sin, era entrato quasi senza colpo ferire in Babilonia, dove le porte della città gli erano state aperte spontaneamente dai sacerdoti e dai governanti locali.
In un testo babilonese, chiamato “cilindro di Ciro”, redatto dai sacerdoti al momento della marcia vittoriosa di Ciro nel 538 a.C., si dice che il dio babilonese Marduk “ha nominato il nome di Ciro e l’ha chiamato al dominio su tutta la terra”.

Nei versetti successivi (omessi dalla liturgia) viene raccontato che il Signore marcerà davanti a Ciro, spianerà le asperità del terreno, spezzerà le porte di bronzo, romperà le spranghe di ferro. Gli consegnerà tesori nascosti e le ricchezze ben celate, perché egli sappia che Lui solo è il Signore, Dio di Israele, che lo chiama per nome.
Il fatto di riconoscere che il Signore è il Dio di Israele non significa la conversione di Ciro alla religione ebraica, ma semplicemente il riconoscersi, in modo anche inconsapevole, come esecutore di un progetto che è stato deciso dal Dio di Israele (V. Esd 1,2-3).
Il brano liturgico continua riportando l’intervento divino in favore di Ciro con espressioni che si ispirano al rito di investitura regale: “Per amore di Giacobbe, mio servo, e d’Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca”.
Ciò che ha spinto il Signore a rivolgersi a Ciro è stato l’amore per il Suo popolo, che viene indicato con il nome del patriarca Giacobbe, che riceve la qualifica di “servo” e di Israele, altro nome di Giacobbe, che viene considerato l’eletto di Dio.

In forza del Suo amore per Israele Dio “ha chiamato per nome” Ciro, cioè lo ha scelto tra tanti come la persona più adatta a attuare i suoi progetti, e gli “ha dato un titolo” cioè un nome nuovo, forse appunto quello di Messia, che indica la sua missione. Tutto ciò Dio lo ha fatto sebbene Ciro non lo conoscesse. Questo re non appartiene al popolo ebraico, quindi non può sapere chi è il Signore e tanto meno rendersi conto che è Lui a guidarlo nelle sue campagne vittoriose in vista di un fine che egli non può neppure immaginarsi. Nonostante il suo coinvolgimento in un preciso progetto del Signore, Ciro resta dunque quello che è e non si converte alla religione ebraica che neppure conosce.

L’oracolo termina con queste parole: Io sono il Signore e non c’è alcun altro, fuori di me non c’è dio;
ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci, perché sappiano dall’oriente e dall’occidente che non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri».
È qui sintetizzato il tema fondamentale del Deuteroisaia: l’unicità di Dio, un Dio che è capace di muovere la storia secondo i Suoi disegni, facendo ritornare gli israeliti nella loro terra, e dimostra questa Sua prerogativa proprio servendosi di un personaggio che non lo conosce.
È paradossale che Dio si serva proprio di Ciro per far sapere dall’oriente all’occidente, cioè in tutto il mondo, che non esiste altro Dio fuori di Lui.

Salmo 96 (95) Grande è il Signore e degno di ogni lode.

Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie.

Grande è il Signore e degno di ogni lode,
terribile sopra tutti gli dèi.
Tutti gli dèi dei popoli sono un nulla,
il Signore invece ha fatto i cieli.

Date al Signore, o famiglie dei popoli,
date al Signore gloria e potenza,
date al Signore la gloria del suo nome.
Portate offerte ed entrate nei suoi atri.

Prostratevi al Signore nel suo atrio santo.
Tremi davanti a lui tutta la terra.
Dite tra le genti: «Il Signore regna!».
Egli giudica i popoli con rettitudine.

Il salmo è un invito all'assemblea dei popoli a riconoscere la grandezza di Dio. L'universalismo del salmo ha come base l'unicità di Dio, e la consapevolezza che tutti i popoli della terra hanno un'origine comune, e che, allontanatisi da Dio, ne hanno in qualche misura un ricordo nelle loro concezioni religiose, infettate di politeismo e di idolatria. Ora Dio chiama a raccolta tutte le famiglie dei popoli a ritornare a lui (Cf. Ps 21,28), che ha formato un popolo quale suo testimone, radunato attorno al tempio di Gerusalemme.
Il popolo di Israele è invitato a diffondere la conoscenza del vero Dio in mezzo ai popoli. Una certezza deve avere Israele, che egli è “terribile sopra tutti gli dei”, e che “tutti gli dei dei popoli sono un nulla”. Dietro gli dei concepiti dalle nazioni sono presenti i demoni sui quali Dio esercita pieno dominio.

L'invito ai popoli non è solo quello di aprirsi a Dio, ma di andare pellegrini “nei suoi atri”, e prostrarsi davanti a lui. Il “suo atrio santo”, sono quelli del tempio di Gerusalemme. I “sacri ornamenti”, sono vesti degne del tempio.
Tutta la terra deve essere presa dal timore di Dio: “Tremi davanti a lui tutta la terra”.
L'annuncio di Israele ai popoli deve affermare la regalità di Dio su di loro: “Dite tra le genti: ”.
Egli è colui che con la sua provvidenza regge il mondo, e agisce con giustizia sui popoli: “È stabile il mondo, non potrà vacillare! Egli giudica i popoli con rettitudine”.
Il Signore “viene a giudicare la terra”; questo avverrà con la venuta di Cristo, re di giustizia e di pace il quale affermerà la giustizia (Cf. Ps 93). “Viene”, dice il salmista. Ora è venuto il Cristo, il Figlio di Dio incarnatosi nel grembo verginale di Maria. Egli viene continuamente con la sua grazia (Ap 1,8); poi, alla fine del mondo, verrà per il giudizio finale: “Giudicherà il mondo con giustizia e nella sua fedeltà i popoli”. “Nella sua fedeltà”, cioè per dare la risurrezione gloriosa a coloro che lo hanno accolto.
Difficile poter dire la data di composizione del salmo; probabilmente è stato scritto in un tempo di grande compattezza di Israele, poco dopo la costruzione del tempio di Salomone, prima che avvenisse lo scisma delle tribù del nord (1Re 11,26s).
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicési che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace.
Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro.
Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui. Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione.
1Ts 1,1-5b

La I^ Lettera ai Tessalonicesi è probabilmente la più antica tra le lettere di S.Paolo e fu scritta dall’Apostolo all’inizio degli anni 50. Paolo è stato a Tessalonica (oggi Salonicco) nel suo secondo viaggio(circa 20 anni dopo la morte di Gesù) e come spesso gli accadeva, era dovuto fuggire e pertanto aveva passato nella città poco tempo per poter svolgere bene una missione completa e approfondita (negli Atti 17,1-9 è riportato ciò che avvenne a Tessalonica).
Paolo dunque è preoccupato per la comunità che ha dovuto lasciare in fretta e manda Timoteo e Sila, suoi collaboratori, a constatare di persona come stavano le cose. Il rapporto che riceve è buono. Quella comunità che si poteva pensare fragile, si era sviluppata, viveva in un sorprendente spirito di speranza, di fede e di carità. Paolo resta sorpreso anche dopo 15 anni di esperienza missionaria ed esprime la sua gioia. scrivendo questa lettera il cui breve prescritto è riportato nel brano che la liturgia di presenta.
“Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicési che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace.”

Paolo qui si esibisce con il suo nome, senza aggiungere nessuna delle sue qualifiche apostoliche, e aggiunge anche il nome dei suoi due collaboratori, Silvano e Timoteo.
Il primo è lo stesso personaggio, chiamato Sila, che secondo gli Atti egli ha scelto come compagno nel secondo viaggio missionario dopo essersi separato da Barnaba (V. At 15,40). Timoteo invece è un cristiano di madre ebraica che l’apostolo ha preso con sé, sempre nel secondo viaggio, a Listra, dopo averlo fatto circoncidere (V. At 16,1-3). Sia l’uno che l’altro avevano partecipato attivamente all’evangelizzazione di Tessalonica (V. At 17,1). Paolo non dice che essi abbiano scritto la lettera con lui, ma li sente così vicini e partecipi della sua attività da parlare anche a nome loro.

Paolo scrive alla “Chiesa dei Tessalonicesi” perchè egli suppone che il gruppetto di persone che in Tessalonica hanno aderito a Cristo sia la rappresentanza, in quella città, del popolo di Israele, ormai entrato nella fase finale della salvezza inaugurata da Cristo. Questa loro dignità proviene dal fatto di essere “in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo”: Il prescritto termina con l’usuale augurio di grazia e di pace. Il termine “pace” (eirêne, shalôm) rappresenta il saluto tipico del mondo ebraico e significa la pienezza di ogni bene, spirituale e materiale, in un rapporto di comunione con l’unico Dio.

Una volta terminato il prescritto Paolo inizia il ringraziamento: “Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro”. Paolo si presenta qui come un uomo di preghiera, che porta nel cuore davanti a Dio i cristiani da lui convertiti. l’operosità della vostra fede,indica quell’operare che ha origine dalla fede, cioè la fede che opera mediante l’amore (V. Gal 5,6); la fatica della vostra carità (fatica dell’amore), è quell’affaticarsi per gli altri che è espressione di amore. Infine ”la fermezza della vostra speranza”(la pazienza della speranza) è la capacità di sopportare le tribolazioni della vita, continuamente alimentata dalla speranza nel compimento finale. Appaiono qui per la prima volta le tre virtù “teologali”, le quali indicano uno stretto rapporto con Dio che dà origine a un impegno d’amore e di servizio nei confronti dei fratelli.

L’intensità della vita cristiana dei tessalonicesi viene fatta risalire da Paolo a un dono speciale di Dio: perciò li chiama “fratelli amati da Dio che siete stati scelti da lui.” L’elezione era prerogativa del popolo di Israele (Dt 7,7) ma in forza dell’elezione ricevuta, ora i tessalonicesi sono diventati il popolo eletto degli ultimi tempi.
Infine Paolo mette in luce il motivo per cui si sente di fare affermazioni così elevate circa la vita cristiana dei tessalonicesi: Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione.
I tessalonicesi ne sono consapevoli perché sanno bene come egli (con i suoi collaboratori) si sono comportati in mezzo ad essi per il loro bene. La potenza che ha accompagnato la parola da lui annunziata non consiste in opere miracolose, ma nella sua capacità di provocare quella fede viva e spontanea che rivela l’azione dello Spirito Santo.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi.
Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?».
Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare».
Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
Mt 22, 15-21

Matteo, dopo le tre “parabole di rottura”,riporta altre quattro “controversie.” In esse Gesù si confronta con i rappresentanti dei movimenti giudaici e il primo tema affrontato è quello del tributo a Cesare.
Matteo introduce il brano con queste parole: i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno”. Dopo questa premessa adulatoria gli inviati fanno a Gesù la loro domanda: Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?».

Il tributo personale all’imperatore romano, consisteva in una tassa annuale (spesso alquanto esosa), che costituiva anche un tacito riconoscimento del dominio straniero e la rinunzia implicita alla speranza messianica. Il pagamento di questa tassa rappresentava quindi un problema di coscienza, data la concezione teocratica in Israele, che determinò la ribellione di alcuni rivoluzionari, contrari al versamento del tributo.
Da ciò si comprende che il problema posto a Gesù era di carattere politico e al tempo stesso religioso, in quanto riguardava le esigenze di Dio come unico sovrano di Israele. La domanda dei farisei e degli erodiani ha quindi lo scopo di portare Gesù sul terreno delle attese nazionalistiche giudaiche per provocare una risposta che, a seconda dei casi, gli allontanasse la simpatia della gente o permettesse di denunciarlo al tribunale romano.
Gesù è consapevole della loro malizia e reagisce alla loro richiesta chiamandoli “ipocriti” e chiedendo perché lo tentino. Poi facendosi mostrare la moneta del tributo chiede di chi fosse l'immagine e l'iscrizione che vi era impressa. Siccome essi rispondono che era di Cesare, egli allora afferma: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
Gesù non rifiuta l'autorità, non è un anarchico, la riconosce, la rispetta, ma le dà il giusto valore.

Il rispetto per le leggi civili, comprese quelle del pagamento delle imposte, è un dovere, spesso, ingrato, ma è pur sempre un dovere, e ad esso nessuno deve sottrarsi, e tanto meno chi dice di esser cristiano, poiché costui è tenuto, in ogni circostanza, a dare una testimonianza credibile del suo impegno religioso. Perciò le parole di Gesù, che comandano di "rendere a Cesare quel che appartiene a Cesare...", suona per tutti come un richiamo forte, anche per noi oggi, in cui l'evasione e corruzione dilagano a molti livelli.
Il discorso di Gesù, però, non si esaurisce col tributo da pagare allo Stato, ma di dare a Dio ciò che è di Dio. Cesare e Dio, la Chiesa e lo Stato, sono percorsi che portano alla stessa meta: non si può essere bravi cristiani senza essere di conseguenza anche bravi cittadini

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Il Vangelo di questa domenica termina con una di quelle frasi lapidarie di Gesù che hanno lasciato un segno profondo nella storia e nel linguaggio umano: "Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio". Non più: o Cesare o Dio, ma: e l'uno e l'altro, ognuno nel suo piano. È l'inizio della separazione tra religione e politica, fino ad allora inscindibili presso tutti i popoli e i regimi. Gli ebrei erano abituati a concepire il futuro regno di Dio instaurato dal Messia come una teocrazia, cioè come un governo diretto di Dio su tutta la terra tramite il suo popolo. Ora invece la parola di Cristo rivela un regno di Dio che è in questo mondo, ma non è di questo mondo, che cammina su una lunghezza d'onda diversa e che può perciò coesistere con qualsiasi altro regime, sia esso di tipo sacrale che "laico".
Si rivelano così due tipi qualitativamente diversi di sovranità di Dio sul mondo: la sovranità spirituale che costituisce il regno di Dio e che egli esercita direttamente in Cristo, e la sovranità temporale o politica che Dio esercita indirettamente, affidandola alla libera scelta delle persone e al gioco delle cause seconde.

Cesare e Dio non sono però messi sullo stesso piano, perché anche Cesare dipende da Dio e deve rendere conto a lui. "Date a Cesare quello che è di Cesare" significa dunque: "Date a Cesare quello che Dio stesso vuole che sia dato a Cesare". È Dio il sovrano ultimo di tutti, Cesare compreso. Noi non siamo divisi tra due appartenenze; non siamo costretti a servire "due padroni". Il cristiano è libero di obbedire allo stato, ma anche di resistere allo stato quando questo si mette contro Dio e la sua legge. In questo caso non vale invocare il principio dell'ordine ricevuto dai superiori, come sono soliti fare in tribunale i responsabili di crimini di guerra. Prima che agli uomini, occorre infatti obbedire a Dio e alla propria coscienza. Non si può dare a Cesare l'anima che è di Dio.

Il primo a tirare le conclusioni pratiche di questo insegnamento di Cristo, è stato san Paolo. Egli scrive: "Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c'è autorità se non da Dio... Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio...Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio" (Rom 13, 1 ss.). Pagare lealmente le tasse per un cristiano (ma anche per ogni persona onesta) è un dovere di giustizia e quindi un obbligo di coscienza. Garantendo l'ordine, il commercio e tutta una serie di altri servizi, lo stato dà al cittadino qualcosa per il quale ha diritto a una contropartita, proprio per poter continuare a rendere questi stessi servizi.

L'evasione fiscale, quando raggiunge certe proporzioni - ci ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica -, è un peccato mortale, al pari di ogni altro furto grave. È un furto fatto non allo "stato", cioè a nessuno, ma alla comunità, cioè a tutti. Questo suppone naturalmente che anche lo stato sia giusto ed equo nell'imporre le sue tasse.
La collaborazione dei cristiani alla costruzione di una società giusta e pacifica non si esaurisce nel pagare le tasse; deve estendersi anche alla promozione dei valori comuni, quali la famiglia, la difesa della vita, la solidarietà con i più poveri, la pace. C'è anche un altro ambito in cui i cristiani dovrebbero dare un contributo più incisivo alla politica. Non riguarda tanto i contenuti quanto i metodi, lo stile. Occorre svelenire il clima di perpetuo litigio, riportare nei rapporti tra i partiti un maggiore rispetto, compostezza e dignità. Rispetto del prossimo, mitezza, capacità di autocritica: sono tratti che un discepolo di Cristo deve portare in tutte le cose, anche in politica. È indegno di un cristiano abbandonarsi a insulti, sarcasmo, scendere a risse con gli avversari. Se, come diceva Gesù, chi dice al fratello "stupido!", è già reo della Geenna, che ne sarà di molti uomini politici?
commento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap. – predicatore della Casa Pontificia .

 


Santiago de Compostela (Spagna) – 5/9 Settembre 2017
“Pellegrinaggio come incontro tra i popoli”

Dal 5 al 9 settembre si è tenuto a Santiago di Compostela (Spagna) il IV° Incontro Europeo dei Laici Salettini dal titolo: “Pellegrinaggio come incontro fra i popoli”. Eravamo una cinquantina provenienti dalla Francia, dalla Polonia, dalla Svizzera, dalla Spagna, noi italiani in dieci, due da Torino e otto da Roma. Ogni delegazione era accompagnata dal proprio Assistente, noi da Padre Heliodoro.

Lunedì, 16 Ottobre 2017 18:14

Confirmazione 14.10.2017

Giovedì, 12 Ottobre 2017 20:22

Messaggio di Maria a La Salette

Introduzione al Messaggio della Ss.ma Vergine a La Salette (19 settembre 1846) :

La Ss.ma Vergine apparve alla vigilia della Festa dell'Addolorata nelle prime ore del pomeriggio a due fanciulli nativi di Corps (Grenoble) sulle Alpi francesi a 1.800 m. di altezza a La Salette, luogo di singolare bellezza.
La Vergine apparve piangente e splendente di luce che proveniva da un Crocifisso che porta sul petto. Ai lati del Crocifisso appare l'immagine di un martello e di una tenaglia.
Il Messaggio che segue fu rivolto tramite i due pastorelli al popolo di allora, ma leggendolo si nota che è quanto mai attuale e urgente per i nostri giorni e per la nostra società che ha perso il senso della sacralità di Dio!

Apparizione2«Avvicinatevi, figli miei, non abbiate paura:
sono qui per annunciarvi un grande messaggio».

ll primato di Dio e il suo Popolo
«Se il mio popolo non vuole sottomettersi,
sono costretta a lasciare libero il braccio di mio Figlio.
Esso è così forte e così pesante che non posso più sostenerlo».

Maria, madre di compassione
«Da quanto tempo soffro per voi!
Poiché voglio che mio Figlio non vi abbandoni,
ho ricevuto l'incarico di pregarlo di continuo;
ma voi non ci fate caso.
Per quanto pregherete e farete,
mai potrete compensare la pena che mi sono presa per voi».

Il giorno del Signore
«Vi ho dato sei giorni per lavorare,
mi sono riservato il settimo
e non me lo volete concedere.
È questo che appesantisce tanto il braccio di mio Figlio».

Lode al nome del Signore
«Anche i carrettieri non sanno che bestemmiare il nome di mio Figlio.
Queste sono le due cose che appesantiscono il braccio di mio Figlio».

I segni dei tempi
e le nostre responsabilità quotidiane
«Se il raccolto si guasta, la colpa è vostra.
Ve l'ho fatto vedere l'anno passato con le patate:
voi non ci avete fatto caso.
Anzi, quando ne trovavate di guaste, bestemmiavate il nome di mio Figlio.
Esse continueranno a marcire
e quest'anno, a Natale, non ve ne saranno più.
Se avete del grano, non seminatelo.
Quello seminato sarà mangiato dagli insetti
e quello che maturerà cadrà in polvere,
al momento della battitura.
Sopraggiungerà una grande carestia.
Prima di essa i bambini al di sotto dei sette anni saranno colpiti da convulsioni
e moriranno tra le braccia di coloro che li terranno.
Gli altri faranno penitenza con la carestia.
Le noci si guasteranno e l’uva marcirà».

Conversione e riconciliazione
«Se si convertono, le pietre e le rocce diverranno mucchi di grano
e le patate nasceranno da sole nei campi».

Eucarestia domenicale e preghiera quotidiana
"Fale la vostra preghiera, figli miei?"
-Non molto, Signora - rispondono entrambi.
"Figli miei, bisogna proprio farla, sera e mattino.
Quando non avete tempo dite almeno un Pater e un’Ave.
Quando potrete fare meglio, ditene di più.
D’estate, a Messa vanno solo alcune donne anziane.
Gli altri lavorano di domenica, tutta l’estate.
D’inverno, quando non sanno che fare, vanno a Messa,
ma solo per burlarsi della Religione.
ln Quaresima vanno in macelleria come i cani".

Presenza e provvidenza di Dio
"Avete mai visto del grano guasto, figli miei?”
-No, Signora - rispondono.
Ma tu, figlio mio, certamente una volta lo hai visto con tuo padre, nel campo del Coin.
II padrone del campo disse a tuo padre di andare a vedere il suo grano guasto.
Ci andaste tutti e due, prendeste in mano due o tre spighe, le stropicciaste e tutto cadde in polvere.
AI ritorno, quando eravate a mezz’ora da Corps,
tuo padre ti diede un pezzo di pane dicendoti:
-.Prendi, figlio mio, mangia ancora del pane per quest'anno,
perché non so chi ne mangerà l’anno prossimo,
se il grano continua in questo modo».
- Oh sì, Signora - risponde Massimino - ora lo ricordo. Prima
non me lo ricordavo.

Apparizione3Testimonianza e impegno missionario
«Ebbene, figli miei, lo farete conoscere a tutto il mio popolo.
Andiamo, figli miei,
fatelo conoscere a tutto il mio popolo».

 

 

La liturgia di questa domenica ha come tema un banchetto di nozze, una festa un po’ speciale a cui il Signore invita in tempi e modi diversi invita tutti. .

Nella prima lettura tratta dal Libro del profeta Isaia, il brano si apre con un annuncio insperato: sul monte Sion il Signore prepara un pranzo sontuoso, gli invitati sono tutti gli uomini senza distinzione di razza e situazione sociale. Essi però prima di accedere al banchetto devono far cadere dagli occhi la loro cecità, è il velo delle lacrime che appanna la vista, è la miseria umana che deve essere annientata. Anzi, muore la stessa Morte e si apre un orizzonte di felicità e di speranza per questi invitati che sono posti sotto la guida della “mano del Signore”.

Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Filippesi, Paolo, ringrazia gli amici per il loro aiuto, ma il suo grazie non è tanto per il dono ricevuto, quanto piuttosto per il grande cuore di chi lo ha donato, che a sua volta il Signore colmerà di ogni bene.
Nel Vangelo di Matteo, troviamo due parabole connesse tra di loro: la prima è quella degli invitati alle nozze, la seconda prende lo spunto dal simbolismo della “veste” indicativo di uno stile di vita coerente con la fede. Per far parte degli eletti bisogna meritarselo, non importa se convocati al primo o al secondo appello. La parabola è chiara: bisogna indossare la veste nuziale! Chi, pur avendo formalmente accolto la chiamata di Gesù, continua a vivere come se la rivoluzione evangelica dovesse ancora venire, verrà rifiutato. E Gesù conclude con una frase che ci deve far pensare: “molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti”

Dal libro del profeta Isaia
Preparerà il Signore degli eserciti
per tutti i popoli, su questo monte,
un banchetto di grasse vivande,
un banchetto di vini eccellenti,
di cibi succulenti, di vini raffinati.
Egli strapperà su questo monte
il velo che copriva la faccia di tutti i popoli
e la coltre distesa su tutte le nazioni.
Eliminerà la morte per sempre.
Il Signore Dio asciugherà le lacrime
su ogni volto,
l’ignominia del suo popolo
farà scomparire da tutta la terra,
poiché il Signore ha parlato.
E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio;
in lui abbiamo sperato perché ci salvasse.
Questi è il Signore in cui abbiamo sperato;
rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza,
poiché la mano del Signore si poserà
su questo monte».
Is 25,6-9

Questa parte del libro del profeta Isaia è una sezione di oracoli chiamata “grande Apocalisse” perché riguarda la fine del mondo e il giudizio finale. Al centro di questa raccolta troviamo l’oracolo che preannunzia il banchetto degli ultimi tempi.
Il banchetto viene così descritto: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte,un banchetto di grasse vivande,un banchetto di vini eccellenti,di cibi succulenti, di vini raffinati”. Il simbolismo del banchetto è noto nella Bibbia, ma qui Isaia si riferisce anzitutto al banchetto dell’alleanza, che i capi di Israele avevano consumato sul monte Sinai al cospetto di DIO, ma in questo caso però il convito viene preparato direttamente da Dio. Anche qui il banchetto viene imbandito sulla montagna, che indica simbolicamente il luogo in cui Dio ha messo la Sua dimora. Diversamente dal banchetto del Sinai però qui sono presenti non solo i rappresentanti di Israele, ma ”tutte le nazioni” L’alleanza escatologica quindi non sarà più limitata a un solo popolo, ma si estenderà a tutta l’umanità, La magnificenza dei cibi serviti nel banchetto ne indica l’importanza decisiva nella storia della salvezza.

Nel corso del banchetto il Signore indica ai convitati, sotto forma di doni simbolici, gli scopi che intende perseguire. Anzitutto Dio “strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni.

Sul monte avviene dunque una nuova rivelazione, analoga a quella avvenuta sul Sinai.. Poi” Eliminerà la morte per sempre” Secondo la Genesi la morte era stata la prima conseguenza del peccato di Adamo (V.Gen 3,19). Non si tratta però semplicemente della morte fisica, ma della lontananza da Dio che la morte fisica simboleggia. Oltre a cancellare per sempre la morte, “Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto” Anche la sofferenza sia fisica che morale fa parte della triste relazione tra peccato e morte, per questo nel banchetto finale anch’essa verrà eliminata per sempre. Infine “l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra, poiché il Signore ha parlato”.

Alla promessa fatta da Dio per mezzo del profeta il popolo reagisce con un piccolo inno di lode che verrà pronunziato quando le promesse si saranno realizzate: “Ecco il nostro Dio;in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza,”
In questa preghiera predomina la speranza in una salvezza che può venire solo dal Signore. Il popolo esprime la sua fede nella parola di DIO e aspetta solo da Lui l’eliminazioni di quei mali che gli impediscono di godere fino in fondo della Sua comunione.
Il testo termina con queste parole: “poiché la mano del Signore si poserà su questo monte”.
La “mano del Signore” rappresenta la Sua potenza che gli permette di intervenire in modo straordinario ed efficace nella storia e negli eventi di questo mondo. Ma questa potenza non si esercita più nella guerra contro i Suoi nemici, bensì nella riconciliazione di tutte le nazioni con Lui e tra di loro.

Salmo 22 Abiterò per sempre nella casa del Signore.

Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce..
Rinfranca l’anima mia.

Mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.

Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.

Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni.

L’orante ha fatto l’esperienza di come il Signore lo guidi in mezzo a numerose difficoltà tesegli dai nemici. Egli dichiara che non manca di nulla perché Dio in tutto l’aiuta. Le premure del suo Pastore sono continue e si sente curato come un pastore cura il suo gregge conducendolo a pascoli erbosi e ad acque tranquille. L’orante riconosce che tutto ciò viene dalla misericordia di Dio, che agisce “a motivo del suo nome”, ma egli corrisponde con amore all’iniziativa di Dio nei suoi confronti. La consapevolezza che Dio lo ama per primo gli dà una grande fiducia in lui, cosicché se dovesse camminare nel buio notturno di una profonda valle non temerebbe le incursioni di briganti o persecutori, piombanti dall’alto su di lui. La valle oscura è poi simbolo di ogni situazione difficile nella quale tutto sembra avverso. Dio, buon Pastore, lo difende con il suo bastone e lo guida dolcemente con il suo
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di San Paolo apostolo ai Filippesi
Fratelli, so vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza. Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni.
Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù.
Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Fil 4,12-14.19-20

Paolo, quando scrisse la lettera ai Filippesi era prigioniero probabilmente a Efeso ed è durante questo circostanza che riceve la visita di Epafrodito (Fil 2,25) il quale, oltre a prestargli la sua assistenza, gli aveva portato un aiuto in denaro da parte dei cristiani di Filippi (4,18).
Nella parte precedente questo brano, (vv. 10-14), Paolo manifesta la sua gratitudine per gli aiuti ricevuti perché vede in essi una nuova manifestazione dei sentimenti che i filippesi hanno per lui. Per quanto lo riguarda, egli non ha una necessità urgente dei loro aiuti, e all’inizio di questo brano manifesta la sua autonomia con queste parole: “so vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza”. I tre abbinamenti di concetti contrapposti, povertà e ricchezza, sazietà e fame, abbondanza e indigenza, indicano gli estremi di tutta una serie di esperienze, positive e negative, considerate di secondaria importanza che Paolo ha saputo affrontare facendo ricorso al concetto stoico di “autocontrollo”, che consiste nella capacità di accontentarsi del necessario e di sapersene procurare quanto è sufficiente per vivere, mantenendo uno stato d’animo sereno e tranquillo.

Egli però aggiunge: Tutto posso in colui che mi dà la forza. Diversamente dai filosofi, Paolo basa la sua serenità, non su qualità dell’anima acquisita mediante un lungo esercizio, ma sulla fiducia in Dio che gli dà la forza di accettare con coraggio ogni situazione, positiva o negativa, che la vita apostolica presenta.
Dopo aver sottolineato questo suo atteggiamento interiore, egli ritorna al concetto iniziale:
Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni. Gli aiuti dei filippesi gli sono graditi nella misura in cui sono un segno di partecipazione alle sofferenze che egli sopporta per il vangelo
Nei versetti non riportati dal brano (vv. 15-20). Paolo ricorda il contributo che i filippesi gli hanno dato in diverse occasioni: quando, dopo aver evangelizzato Filippi, aveva lasciato la Macedonia, solo loro lo avevano aiutato finanziariamente, e quando si trovava a Tessalonica gli avevano inviato per due volte il necessario. Per evitare equivoci, l’apostolo soggiunge, che non è il loro dono che ricerca, “ma il frutto che ridonda a vostro vantaggio”.
Adesso poi ha ricevuto mediante Epafrodito i loro doni, che considera come “un profumo di soave odore, un sacrificio accetto e gradito a Dio”, e di conseguenza ha il necessario e anche il superfluo (vv. 15-18). Ciò significa che il dono ricevuto non è stato fatto direttamente a lui, ma a Dio stesso.

Nei versetti finali, riportati dal brano liturgico, Paolo aggiunge che al dono dei filippesi corrisponderà un ulteriore dono da parte di Dio a loro vantaggio: Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù. Aiutando Paolo essi in realtà hanno offerto un sacrificio a Dio, quindi si sono messi nella condizione di ricevere da parte sua per mezzo di Cristo doni ancora più grandi, di carattere sia spirituale che materiale. Dio è infinitamente più generoso degli uomini!.
Il brano termina con l’invocazione:Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen. Sia il dono fatto a Paolo, sia gli ulteriori doni che i filippesi riceveranno, tutto deve servire alla gloria di Dio Padre.
In sintesi, Paolo anche se non dimostra di essere troppo contento per gli aiuti finanziari, apprezza non tanto l’aspetto materiale del dono, quanto piuttosto il sentimento che lo ha provocato. Per lui gli aiuti che gli sono pervenuti sono anzitutto un’offerta sacrificale fatta a Dio, e solo secondariamente un servizio alla sua persona. Il fatto di averglieli mandati in un momento in cui egli soffre per il vangelo significa aver capito l’importanza dell’annunzio e il desiderio di collaborare con lui in questa opera.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse:
«Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire.
Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.
Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. ]

Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.
Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».
Mt 22,1-14

In questo brano del Vangelo di Matteo troviamo ancora Gesù che continua a parlare alla gente in parabole. Aveva terminato di esporre la parabola dei vignaioli omicidi e per essere ancora più esplicito racconta una splendida parabola la cui scena ha come sfondo un solenne banchetto nuziale. Si tratta in realtà di due parabole collegate tra loro: la prima è quella degli invitati alla grande cena, (riferita anche da Luca) la seconda è presente solo in Matteo e prende lo spunto dalla veste di cerimonia, simbolo della dignità di una persona
Matteo inizia la parabola dicendo che “Gesù, riprese a parlare con parabole ” Con questa frase egli intende agganciare la nuova parabola alle due precedenti e chi lo ascolta sono sempre i sommi sacerdoti e i farisei (rappresentati dai loro scribi), cioè i due gruppi che, insieme agli anziani, erano membri del sinedrio e formavano l’autorità giudaica.
Il racconto prosegue con l’espressione tipica delle parabole: “Il regno dei cieli è simile a..”e questa volta il termine di paragone è “un re, che fece una festa di nozze per suo figlio”.
Sullo sfondo è chiaro il tema sponsale dell’alleanza, in cui lo sposo non è più Dio stesso, ma Suo figlio, l’erede, mediante il quale si attua il regno di Dio
Quando i preparativi furono completati, il re “mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire”

Si può suppone che gli invitati fossero persone che erano state avvertite per tempo e avevano accettato l’invito, ma all’ultimo momento si tirano indietro. Proprio loro i primi, i privilegiati , rispondono con indifferenza, con fastidio, persino con ostilità e disprezzo.
Non conoscendo il motivo del loro rifiuto il re insiste e manda agli stessi invitati altri servi con questo messaggio: Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”.
Ma anche questa volta “quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.”
La ripetizione dell’invito sottolinea la sollecitudine del re, ma anche la determinazione degli invitati a rifiutare. Questa volta al rifiuto si unisce oltre all’insulto anche l’uccisione degli inviati per un motivo incomprensibile, ma per Matteo rappresenta la persecuzione prima dei profeti, poi del Messia e dei cristiani da parte del popolo giudaico (Mt 5,11; 21,35-39).
Il racconto prosegue riportando l’indignazione del re che “mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città”. Questo indicazione appare piuttosto inverosimile in quanto lascia intendere che, mentre il banchetto è pronto, il re fa una guerra, ovviamente lunga, per punire quelli che avevano rifiutato, e poi va in cerca di altri invitati. Si tratta dunque evidentemente di un dettaglio allegorico, aggiunto da Matteo, che vuole inserire l’evento della guerra giudaica e della distruzione di Gerusalemme da parte dei romani nel 70 d.C., considerata come il castigo inflitto da Dio al Suo popolo per aver rifiutato il dono della salvezza.
Dopo la parentesi della punizione dei primi invitati, il racconto riprende con un nuovo invio dei servi. Avendo constatato che il banchetto nuziale era ormai pronto, ma gli invitati non ne erano degni, il re manda i servi ai crocicchi delle strade con l’ordine di invitare alle nozze tutti quelli che avessero trovati.

I servi fanno come era stato loro ordinato e “radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali”.
Il prolungamento del racconto ha un inatteso finale: Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».
Matteo aggiungendo questo epilogo lo fa per evitare l’equivoco che potrebbe sorgere dal fatto che sia i cattivi che buoni entrano nella sala nuziale. Infatti tra di loro può esserci il falso discepolo che solo Gesù sa smascherare. E’ colui che grida “Signore, Signore!” ma non fa concretamente la volontà del Padre, è colui che ha messo solo “una toppa di panno nuovo su un vestito vecchio”. Gesù invece esige un vestito totalmente nuovo e nell’Apocalisse leggiamo: “La veste di lino sono le opere giuste dei santi.” (Ap 19,8)

Nel Vangelo di questa domenica, Gesù ci parla della risposta che viene data all’invito di Dio - rappresentato da un re - a partecipare ad un banchetto di nozze .
L’invito ha tre caratteristiche: la gratuità, la larghezza, l’universalità. Gli invitati sono tanti, ma avviene qualcosa di sorprendente: nessuno dei prescelti accetta di prendere parte alla festa, dicono che hanno altro da fare; anzi alcuni mostrano indifferenza, estraneità, perfino fastidio. Dio è buono verso di noi, ci offre gratuitamente la sua amicizia, ci offre gratuitamente la sua gioia, la salvezza, ma tante volte non accogliamo i suoi doni, mettiamo al primo posto le nostre preoccupazioni materiali, i nostri interessi e anche quando il Signore ci chiama, tante volte sembra che ci dia fastidio.

Alcuni invitati addirittura maltrattano e uccidono i servi che recapitano l’invito. Ma, nonostante le mancate adesioni dei chiamati, il progetto di Dio non si interrompe. Di fronte al rifiuto dei primi invitati Egli non si scoraggia, non sospende la festa, ma ripropone l’invito allargandolo oltre ogni ragionevole limite e manda i suoi servi nelle piazze e ai crocicchi delle strade a radunare tutti quelli che trovano. Si tratta di gente qualunque, poveri, abbandonati e diseredati, addirittura buoni e cattivi – anche i cattivi sono invitati – senza distinzione. E la sala si riempie di “esclusi”. Il Vangelo, respinto da qualcuno, trova un’accoglienza inaspettata in tanti altri cuori.
La bontà di Dio non ha confini e non discrimina nessuno: per questo il banchetto dei doni del Signore è universale, per tutti. A tutti è data la possibilità di rispondere al suo invito, alla sua chiamata; nessuno ha il diritto di sentirsi privilegiato o di rivendicare un’esclusiva. Tutto questo ci induce a vincere l’abitudine di collocarci comodamente al centro, come facevano i capi dei sacerdoti e i farisei. Questo non si deve fare; noi dobbiamo aprirci alle periferie, riconoscendo che anche chi sta ai margini, addirittura colui che è rigettato e disprezzato dalla società è oggetto della generosità di Dio. Tutti siamo chiamati a non ridurre il Regno di Dio nei confini della “chiesetta” – la nostra “chiesetta piccoletta” – ma a dilatare la Chiesa alle dimensioni del Regno di Dio. Soltanto, c’è una condizione: indossare l’abito nuziale cioè testimoniare la carità verso Dio e verso il prossimo.
Affidiamo all’intercessione di Maria Santissima i drammi e le speranze di tanti nostri fratelli e sorelle, esclusi, deboli, rigettati, disprezzati, anche quelli che sono perseguitati a motivo della fede, e invochiamo la sua protezione ..
Papa Francesco
Parte dell’Angelus di Domenica 12 ottobre 2014

 

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Pro Memoria

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(Papa Giovanni XXIII)

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