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S.Messe (settimana)
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KRZYZ

Henryk

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La liturgia di questa domenica ci aiuta a comprendere meglio come Dio non ama l’ipocrisia di chi dice subito si e non fa la sua volontà.La misura del valore autentico e nascosto di ogni persona è in ultima istanza solo nelle mani di Dio che vede nei cuori e non giudica per sentito dire!

Nella prima lettura, tratta dal Libro del profeta Ezechiele, ci porta a considerare che ogni uomo è arbitro della propria salvezza in quanto il Signore è pronto a perdonare sia il giusto che il peccatore che pentendosi si converte

Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Filippesi, Paolo riporta l’inno di lode a Colui che eseguì in modo perfetto la missione affiedatagli al Padre Suo. Obbediente fino alla morte: per amore del Padre e per amore dell’uomo.

Nel Vangelo di Matteo, troviamo Gesù che presenta una parabola che è un vero e proprio quadretto di vita familiare, semplice, ma sempre attuale: un figlio apparentemente corretto che dice subito si alla richiesta del padre, ma poi non obbedisce, e l’altro figlio, il classico ribelle, che prima dice no, ma poi pentito fa la volontà del padre. Questo testo è un chiaro invito a infrangere i luoghi comuni nel giudicare gli uomini. Ogni creatura, infatti, ha sempre in sè la fiaccola dell’amore di Dio, anche quando è appannata dal peccato, e ai nostri occhi umani sembra sul punto di spegnersi. Gesù non ha mai spento nessuna fiaccola, anche la più flebile, ma vi ha sempre aggiunto nuovo olio perchè potesse ritornare a splendere.

Dal libro del profeta Ezechiele
Così dice il Signore: «Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra? Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso.
E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà». Ez 18,25-28

Il profeta Ezechiele nacque intorno al 620 a.C. verso la fine del regno di Giuda. Fu deportato in Babilonia nel 597 a.C. assieme al re Ioiachin, stabilendosi nel villaggio di Tel Aviv sul fiume Chebar. Cinque anni più tardi ricevette la chiamata alla missione di profeta, con il compito di rincuorare i Giudei in esilio e quelli rimasti a Gerusalemme. Ezechiele anche se non fu un profeta all'altezza di Isaia o Geremia, ebbe una sua originalità, che in certi casi può averlo fatto apparire ingenuo. Usò immagini di grande potenza evocativa, specie negli oracoli di condanna, ebbe toni ed espressioni particolarmente duri ed efficaci.
Nella parte precedente questo brano, che la liturgia ci propone, Ezechiele aveva messo in discussione, come aveva già fatto Geremia (cfr. Ger 31,29), il proverbio secondo cui «i padri hanno mangiato l'uva acerba e i denti dei figli si sono allegati» ed esordisce affermando, a nome di Dio, che questo proverbio non deve essere più ripetuto, ed indica quali sono le condizioni perché un uomo possa vivere .
In questo brano il profeta immagina che gli israeliti criticano il comportamento di Dio per cui pronto il Signore risponde: «Ascolta dunque, popolo d'Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?» Il pensiero di scontare la pena di peccati commessi dai loro padri era per i giudei un comodo alibi per non responsabilizzarsi, mentre l’idea di una responsabilità personale li stimolava ad essere responsbaili delle loro azioni.

Dopo aver difeso il comportamento di Dio il profeta sintetizza il suo messaggio: in due ipotesi.
Nella prima dice: “Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso.”
Nella seconda prospetta il caso opposto: “E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».
Dio mette davanti a Israele la vita e il bene, la morte e il male, e comanda che il popolo lo ami, minacciando in caso contrario i castighi più terribili (Dt 30,15-20). Ma Dio non è indifferente alle scelte delle Sue creature, Egli non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva .
La fede in un Dio amante della vita sta alla base della fede di Israele. Questa fede comporta l’osservanza dei comandamenti riguardanti la giustizia e la solidarietà con i più poveri. Se Dio vuole che il popolo gli sia fedele, l’unico motivo è che da questa fedeltà derivi al popolo la possibilità di essere prospero e felice.
In un’epoca in cui non si parlava ancora di una vita oltre la morte, sentirsi in comunione con Dio implicava anche un benessere materiale, che diventava però segno della benedizione divina solo se era condiviso con il bisognoso.

Salmo 24 Ricòrdati, Signore, della tua misericordia.

Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza;
io spero in te tutto il giorno.

Ricòrdati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre.
I peccati della mia giovinezza
e le mie ribellioni, non li ricordare:
ricòrdati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.

Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via.

Il salmista è pieno d’umiltà al ricordo delle sue numerose colpe della sua giovinezza. E’ sgomento alla vista che tanti suoi amici lo hanno tradito per un nulla. Uno screzio è bastato perché si mettessero contro di lui. Egli, piegato dal peso dei suoi peccati, domanda che Dio guardi a lui e non a quanto ha fatto non osservando “la sua alleanza e i suoi precetti”. Si trova in grande difficoltà di fronte ad avversari che lo odiano in modo violento e lui non ha via di salvezza che quella del Signore. Gli errori passati sono il frutto del suo abbandono della “via giusta”. Ora sa che “tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà”, cioè non portano a rovina, ma anzi danno prosperità, poiché la discendenza di chi teme il Signore “possederà la terra”. L’orante voleva affermarsi sugli altri agendo con spavalderia, con vie traverse, ed ecco che sconfessa tutto il suo passato, trattenendone però la lezione di umiltà, che gli ha dato. Egli sa che non andrà deluso perché ha deciso di essere protetto da "integrità e rettitudine”, cioè dall’osservanza dell’alleanza stabilita da Dio con Israele. L’orante non pensa solo a se stesso, si sente parte del popolo di Dio, e invoca la liberazione di Israele dalle angosce date dai nemici. La liberazione dell’Israele di Dio, la Chiesa, cioè l’Israele fondato sulla fede in Cristo, non escludendo nella sua carità quello etnico basato sulla carne e sul sangue, per il quale la pace passerà dall’accoglienza del Principe della pace.
Commento di P. Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Filippesi
Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù
egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi nei cieli,
sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
Fil 2,1-11

Continuando la lettera ai Filippesi, che Paolo ha scritto da Efeso durante il terzo viaggio missionario, dopo averli incoraggiati a “combattere unanimi per la fede del vangelo senza lasciarsi intimidire in nulla dagli avversari” provenienti dall’esterno (1,27-30), in questo brano liturgico egli li esorta all’unità, e all’impegno per la salvezza.

Paolo inizia la sua esortazione con quattro frasi poste al condizionale:
“se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione”, In questo modo egli mette in luce alcuni atteggiamenti che devono animare la vita della comunità. Questi atteggiamenti costruiscono la comunità stessa, la quale può raggiungere il suo scopo solo se tutti i suoi membri si lasciano impregnare da “sentimenti di amore e di compassione”. Ma al tempo stesso Paolo sottolinea che questi atteggiamenti procurano anche a lui conforto e consolazione: rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. L’accenno alla gioia che gli procurano spinge l’apostolo a precisare meglio il suo pensiero: ciò che gli sta a cuore è il fatto che essi abbiano un medesimo sentire e con la stessa carità, Dunque ciò che gli sta soprattutto a cuore non è l’unità esteriore dell’agire, ma l’essere uniti nell’amore vicendevole e unanime nei pensieri, cioè nel modo di vedere e di valutare i valori fondamentali della vita.
Egli poi continua affermando: “ Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri”. Con queste parole egli esorta i filippesi a evitare lo spirito di rivalità e di concorrenza che rappresentano il rischio più grosso per la vita di una comunità.

Per evitare di cadere in una spirale di intolleranza reciproca è importante perseguire il bene, cercando sì il proprio interesse, ma sempre all’interno di un bene più grande, che è quello di tutti. Per ottenere ciò è necessaria una buona dose di umiltà, che consiste nel non ritenersi superiori agli altri, cioè nel non pensare di essere al centro di tutto e di far girare gli altri intorno a sé.
Infine queste esortazioni all’amore fraterno vengono condensate in un’unica richiesta:
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù .

Paolo non si accontenta di proporre dei comportamenti, anche se sublimi, che però rischiano di rimanere astratti, senza impatto nella vita delle persone. Egli propone un modello da seguire, che è quello del loro Maestro, Gesù Cristo. Egli però non chiede di imitare quello che Lui ha fatto, ma piuttosto di avere gli stessi sentimenti che hanno ispirato la Sua vita. Ciò che conta non è il fare, ma il pensare, cioè l’adesione convinta e vissuta, i valori per i quali Gesù è vissuto ed è morto
Per presentare concretamente quale sia stato il modo di pensare di Gesù, Paolo inserisce a questo punto l’inno cristologico, preso forse dalla liturgia di qualche comunità, che esprime tutta l’ampiezza del mistero di Cristo, che qui è celebrato in due grandi aspetti: discesa e risalita, che formano una curva le cui estremità si ricongiungono.
L’inno si apre con: egli, pur essendo nella condizione di Dio,

E continua con una frase in cui si spiega in che modo Gesù ha gestito il Suo essere nella condizione di Dio: non ritenne un privilegio l’essere come Dio,
Questa espressione è stata comunemente tradotta “l’essere uguale a Dio”, con riferimento alla natura o essenza divina di Cristo. L’inno prosegue affermando che Cristo svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Perciò non solo non volle avvalersi del Suo privilegio, ma addirittura vi rinunciò, in quanto “svuotò se stesso”. Questo però non significa che Gesù ha cessato di essere uguale a Dio, ma che si è spogliato, nella Sua umanità, della gloria divina manifestata solo nella trasfigurazione (Mt 17,1-8) che poi riceve dal Padre.
E’ andato fino al più profondo dell’abbassamento “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. La precisazione “morte di croce” assume un significato speciale, in quanto la pena capitale della crocifissione richiamava alla mente dei filippesi, che vivevano in una città romana, l’umiliazione più degradante e più ignominiosa, il colmo dell’abiezione: essi potevano così rendersi conto che Gesù aveva raggiunto il limite estremo dell’umiliazione sottoponendosi perfino al crudelissimo e terribile supplizio, della crocifissione.
“Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome”, il Padre lo glorifica, gli sottomette l’universo e gli dà la piena prerogativa del suo titolo regale e divino di Signore “perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.”
Nel pensiero di Paolo forse qui emerge il ricordo dell’orgoglio di Adamo, che pretendeva di farsi uguale a Dio, per contrapporlo al dono e all’abnegazione di Cristo. Ma l’inno soprattutto ricorda ancora più chiaramente i canti del Servo del Signore (Is 53) il cammino di umiliazione che ha portato Gesù, sulla linea del personaggio predetto da Isaia, alla sofferenza e alla morte. In altre parole, Egli diversamente da Adamo, non ha voluto condurre il Suo rapporto con Dio in termini di potere o di dominio, ma di amore e di servizio.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».
Mt 21, 28-32

Questo episodio che l’evangelista Matteo ci riporta, avviene dopo l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, e la cacciata dal tempio dei venditori, perciò il contesto della parabola è quello del conflitto aperto tra Gesù e le autorità religiose e civili che governano Gerusalemme.
Matteo ci presenta cinque controversie che segnano la rottura tra Gesù e chi esercita il potere.
La prima in particolare riguarda l'autorità di Gesù. I capi, infatti, dopo che Gesù aveva scacciato i venditori dal Tempio, ingaggiano con lui una vera e propria battaglia che si concluderà con la Sua condanna. Gesù non si sottrae allo scontro, anzi desidera confrontarsi e chiama i suoi interlocutori ad esporsi e a prendere posizione.
Gesù qui racconta che un uomo che aveva due figli, chiede al primo di andare a lavorare nella vigna. Questi risponde di sì, ma poi non ci va. Poi chiede la stessa cosa al secondo, che risponde di no, ma poi, pentitosi, ci va. Dal testo appare in modo abbastanza evidente che i destinatari della parabola sono i gran sacerdoti e gli anziani, menzionati nella controversia precedente quella su quale autorità Gesù agisse (v. 23), mentre il simbolo della vigna si riferisce al popolo d'Israele (Is 5,1-7) .

L'invito del padre ai due figli evidenzia la sua premura per la vigna, mentre la risposta dei figli sottolinea la loro libertà nei confronti del padre ed esprime teologicamente la risposta di fede o d'incredulità alla parola di Dio.
Al termine di questo breve racconto Gesù provoca il giudizio dei suoi interlocutori chiedendo: “Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”. E quando questi non possono fare a meno di rispondere: “Il primo”, Gesù allora afferma: “In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.” C’è da tenere presente che nell’ambiente giudaico questa affermazione è sorprendente e quanto mai provocatoria perché nel rabbinismo la conversione di queste due categorie di persone era ritenuta quasi impossibile!

Gesù poi prosegue: “Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli”. Matteo con questo versetti intende agganciare la parabola alla funzione del Battista, oggetto della disputa precedente tra Gesù e le autorità giudaiche. La “via della giustizia” è un'espressione sapienziale (V. Pr 8,20; 16,31), che indica qui la fedeltà del Precursore alla missione affidatagli da Dio, considerata da Matteo parallela a quella del Messia
Questa parabola è tipica della predicazione di Gesù, il quale, proprio per sottolineare l’iniziativa salvifica di Dio a vantaggio di tutti, mette in primo piano gli ultimi, presentandoli come l’oggetto privilegiato dell’indulgenza divina. Gesù non ha mai giudicato gli uomini per categorie, per cui i pubblicani e le prostitute andranno in paradiso, non in quanto pubblicani e prostitute, ma perché, pur essendo vissuti nel peccato, hanno poi accolto l’annuncio del regno, abbracciando la fede e le sue opere, come gli operai dell’ultima ora.
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Il figlio della parabola che dice sì e fa no rappresenta coloro che conoscevano Dio e seguivano la sua legge, ma poi all'atto pratico, quando si è trattato di accogliere Cristo che era "il fine della legge", si sono tirati indietro. Il figlio che dice no e fa sì rappresenta coloro che un tempo vivevano fuori della Legge e della volontà di Dio, ma poi, davanti a Gesù, si sono ravveduti e hanno accolto il Vangelo. Di qui la conclusione che Gesù tira davanti ai "principi dei sacerdoti e anziani del popolo": "In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passeranno avanti nel regno di Dio".
Nessun detto di Cristo è stato più manipolato di questo. Si è finito per creare a volte una specie di aura evangelica intorno alla categoria delle prostitute, idealizzandole e opponendole ai cosiddetti benpensanti, che sarebbero tutti, indistintamente, scribi e farisei ipocriti. La letteratura è piena di prostitute "buone". Basti pensare alla Traviata di Verdi, o alla mite Sonia di Delitto e castigo di Dostoevskij!
Ma questo è un terribile fraintendimento. Gesù fa un caso limite, come per dire: "Perfino le prostitute -che è tutto dire- vi precederanno nel regno di Dio". La prostituzione è vista in tutta la sua serietà e presa come termine di paragone per stabilire la gravità del peccato di chi rifiuta ostinatamente la verità.

Non ci si rende conto, oltre tutto, che idealizzando la categoria delle prostitute, si viene a idealizzare anche quella dei pubblicani che sempre l'accompagna nel Vangelo, cioè degli strozzini. Se Gesù accosta tra loro queste due categorie non è, del resto, senza un motivo; gli uni e le altre hanno posto il denaro al di sopra di tutto nella vita.
Gesù aveva troppo rispetto per la donna per non soffrire, lui per primo, per quello che essa diventa, quando si riduce in questo stato. Ciò per cui egli apprezza la prostituta non è la sua maniera di vivere, ma la sua capacità di cambiare e di mettere a servizio del bene la propria capacità di amare. Come la Maddalena che, convertitasi, seguì Cristo fin sotto la croce e divenne la prima testimone della risurrezione (supposto che fosse una di esse).

Quello che a Gesù preme inculcare con quella sua parola, lo dice chiaramente alla fine: i pubblicani e le prostitute si sono convertite alla predicazione di Giovanni Battista; i principi dei sacerdoti e gli anziani no. Il Vangelo non ci spinge dunque a promuovere campagne moralistiche contro le prostitute, ma neppure a scherzare con il fenomeno, quasi fosse una cosa da nulla.
Oggi, tra l'altro, la prostituzione si presenta sotto una forma nuova che riesce a far soldi a palate, senza neppure correre i tremendi rischi che sempre hanno corso le povere donne condannate alla strada. Questa forma consiste nel vendere il proprio corpo, rimanendo tranquille dietro una macchina fotografica o una telecamera, sotto la luce dei riflettori. Quello che la donna fa quando si presta alla pornografia e a certi eccessi della pubblicità è un vendere il proprio corpo per gli sguardi, anziché per il contatto. È prostituzione bell'e e buona, e peggiore di quella tradizionale, perché si impone pubblicamente e non rispetta la libertà e i sentimenti della gente.

Ma fatta questa doverosa denuncia, tradiremmo lo spirito del Vangelo se non mettessimo anche in luce la speranza che quella parola di Cristo offre alle donne che per le circostanze più diverse della vita (spesso per disperazione), si sono ritrovate sulla strada, vittime il più delle volte di sfruttatori senza scrupoli. Il Vangelo è "vangelo", cioè buona notizia, notizia di riscatto, di speranza, anche per le prostitute. Anzi forse prima di tutto per esse. Gesù ha voluto che fosse così.

commento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap. – predicatore della Casa Pontificia .

 


La liturgia di questa domenica ci porta a considerare che la vita cristiana, come ci indica il Vangelo, non si può organizzare su una contabilità di dare e avere come se Dio fosse l’agenzia delle entrate, ma sulla grazia e i Suoi doni che ci precedono sempre, perché l’amore di Dio supera ogni forma di giustizia.

La prima lettura tratta dal Libro del profeta Isaia, ci illumina per comprendere il segreto comportamento di Dio nella storia. E’ il Signore stesso che ce lo ricorda quando afferma: “Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.”

Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Filippesi, Paolo afferma che Cristo è tutto per lui. e vivere o morire non ha importanza purchè Cristo Gesù sia glorificato.

Il Vangelo di Matteo, ci propone la parabola degli operai che il Padrone manda a lavorare nella Sua vigna in diverse ore del giorno e nel momento della retribuzione gli ultimi operai si vedranno pagare come qui operai della prima ora. Come cristiani siamo invitati a seguire lo stile del padrone della vigna, che è quello di Gesù. Esso non si basa prima di tutto sul merito o sulla rigida giustizia, ma si lascia conquistare dall’amore gratuito che dona e fa credito anche a chi non ha diritti da accampare.

Dal Libro del profeta Isaia
Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino.
L’empio abbandoni la sua via
e l’uomo iniquo i suoi pensieri;
ritorni al Signore che avrà misericordia di lui
e al nostro Dio che largamente perdona.
Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri,
le vostre vie non sono le mie vie.
Oracolo del Signore.
Quanto il cielo sovrasta la terra,
tanto le mie vie sovrastano le vostre vie,
i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.
Is 55,6-9

Questo testo fa parte dei capitoli 40-55 del Libro di Isaia attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “deutero Isaia ”. Forse era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che dalla sue profezie prendono speranza.

Era accaduto che a partire dal 550 a.C. un nuovo popolo, non semitico, i Persiani, sotto il comando del loro re, Ciro, in pochi anni sottomisero l’oriente e agli occhi dei popoli oppressi, deportati dai Babilonesi, Ciro sembrò come un liberatore. Da allora nella comunità degli Ebrei esiliati si videro apparire racconti, oracoli, canti che esaltavano l’opera di Dio nella storia del mondo. Era finito il tempo in cui dominavano gli idoli, il vero Dio, il solo Dio apparve loro il padrone degli avvenimenti, che agiva per la liberazione e la salvezza del suo popolo. Con la caduta di Babilonia nel 539, Ciro autorizzò gli Israeliti a ritornare in patria e a praticare il loro culto. Si pensò persino che Ciro fosse l’inviato del Signore, un messia, un uomo di Dio, che avrebbe realizzato ovunque la pace. Ma per quanto Ciro fosse una figura gloriosa della storia, l’inviato di Dio sarebbe arrivato secoli dopo sotto spoglie più umili, quelle di un Giusto, che espia nel dolore le colpe degli uomini.

Il brano liturgico inizia con un’esortazione generale alla ricerca di Dio ed inizia con queste parole:
Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino.
Il tema del “cercare” Dio nasce dalla consuetudine diffusa in tutte le religioni di visitare il santuario di una divinità per poterla incontrare nella statua che la rappresenta e ottenere da essa doni e grazie.. In questa circostanza l’invito a cercare Dio è simile a quello di invocarlo e ha come motivazione il fatto che Egli si fa trovare, è vicino. Rivolto agli esuli, questo invito ha lo scopo di renderli attenti alla presenza di Dio nella storia e disponibili lasciarsi coinvolgere nella Sua azione, che sta per mostrarsi in un intervento risolutivo a loro favore, la liberazione e il ritorno nella loro terra.
L’esigenza di cercare Dio comporta quindi un impegno preciso:

“L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui al nostro Dio che largamente perdona.”
Il termine “empio” in parallelo con “uomo iniquo” indica colui che non si preoccupa di compiere il volere di Dio nella sua vita quotidiana. In questa situazione indica quei giudei che si erano stabiliti nella terra d’esilio integrandosi nella società in cui si trovavano senza più pensare alla possibilità di un ritorno nella loro terra. L’empio e l’iniquo sono quindi invitati ad abbandonare rispettivamente la loro “via “e i loro “pensieri.” Il termine “via” indica il comportamento pratico, mentre i “pensieri” indicano più direttamente i propositi e i progetti che si hanno. Secondo la mentalità biblica pensieri e azione sono intimamente collegati: per trasformare le abitudini è indispensabile cambiare la mentalità, il cuore delle persone, per poter “ritornare” a Dio.

Questo verbo “ritornare” indica la “conversione”, ossia letteralmente un cambiamento di rotta per rientrare sul proprio cammino e incontrare nuovamente il Signore.
Per colui che è andato molto fuori strada. non è facile convertirsi, soprattutto se si ha un’immagine di un Dio vendicativo e crudele. Perciò il profeta sottolinea che il Signore è un Dio misericordioso e propenso al perdono. Per cogliere fino in fondo la misericordia infinita di Dio bisogna perciò superare la tendenza naturale a immaginare Dio con categorie umane.
Questo è il problema di ogni pratica religiosa e il profeta lo affronta in questi termini:

“Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.”
Anche Dio ha i Suoi pensieri e le Sue vie, ma sia i pensieri che le vie sono totalmente diversi da quelli dell’uomo. I pensieri di Dio sono i Suoi progetti in favore del cosmo e dell’uomo. Le Sue vie sono i suoi interventi nella storia. Ciò che Dio pensa e per cui agisce è solo la salvezza del Suo popolo e in prospettiva di tutta l’umanità. I pensieri e le vie di Dio non solo sono diversi, ma “sovrastano” quelli dell’uomo, sono più alti di essi come è più alto il cielo rispetto alla terra.

I piani di Dio sono quindi sconosciuti all’uomo, e questo non solo perché Dio è un Dio misterioso (v. Is 45,15), ma anche e soprattutto perché l’uomo è rivolto alle cose che gli interessano, mentre Dio cerca il vero bene di tutti.
In questo testo il Deuteroisaia presenta Dio come Colui che è immensamente superiore all’uomo, che ha pensieri e comportamenti diametralmente opposti ai suoi, ma che è anche Colui che è vicino e si lascia trovare dall’uomo. In forza della Sua trascendenza, Dio non può essere definito, perché inevitabilmente sarebbe ridotto a categorie umane. Di Lui si può dire con più sicurezza quello che non è che non quello che è. Tuttavia questo Dio inaccessibile si fa vicino all’uomo e gli parla attraverso gli eventi della storia, ed anche quelli strettamente personali, è compito dell’uomo riconoscerlo per sentirlo vicino e poter camminare con Lui.
S.Agostino ha avuto un’espressione stupenda per definire ciò che prova l’uomo quando alla fine della sua intensa ricerca trova Dio: “Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in te”. (Confess. 1, 1, 1)

 

Salmo 144 Il Signore è vicino a chi lo invoca.
Ti voglio benedire ogni giorno,
lodare il tuo nome in eterno e per sempre.
Grande è il Signore e degno di ogni lode;
senza fine è la sua grandezza.

Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.

Giusto è il Signore in tutte le sue vie
e buono in tutte le sue opere.
Il Signore è vicino a chiunque lo invoca,
a quanti lo invocano con sincerità.

Molti sono i frammenti di altri salmi che entrano nella composizione di questa composizione, che tuttavia risulta bellissima nella sua forma alfabetica e ricca di stimoli alla fede, alla speranza, alla pietà, alla lode.
Il salmo è uno dei più recenti del salterio, databile nel III o II secolo a.C.
Esso inizia rivolgendosi a Dio quale re: “O Dio, mio re, voglio esaltarti (...) in eterno e per sempre”. “In eterno e per sempre”, indica in modo incessante e continuativo nel tempo.
Segue uno sguardo su come la trasmissione, di generazione in generazione, delle opere di Dio non sia sentita solo come fatto prescritto (Cf. Es 13,14), ma come gioia di comunicazione, poiché le opere di Dio sono affascinanti: “Il glorioso splendore della tua maestà e le tue meraviglie voglio meditare. Parlino della tua terribile potenza: anch’io voglio raccontare la tua grandezza. Diffondano il ricordo della tua bontà immensa, acclamino la tua giustizia".

Il salmista fa un attimo di riflessione sulla misericordia di Dio, riconoscendo la sua pazienza verso il suo popolo. E' il momento dell'umiltà. La lode non può essere disgiunta dall'umile consapevolezza di essere peccatori: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature“. “Su tutte le creature”, cioè su tutti gli uomini, e pure sugli animali (Cf. Ps 35,7; 103,21).

Il salmista desidera che tutte le opere di Dio diventino lode a Dio sul labbro dei fedeli: “Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli. Dicano la gloria del tuo regno...”. “Tutte le tue opere”, anche quelle inanimate (Cf. Ps 148). Il significato profondo di questo invito cosmico sta nel fatto che, il salmista vede le creature come bloccate da una cappa buia posta dalle divinizzazioni pagane. Il salmista desidera che esse siano libere da quella cappa, che nega loro la glorificazione del Creatore.
La lode a Dio sul labbro dei fedeli diventa annuncio a tutti gli uomini: “Per far conoscere agli uomini le tue imprese e la splendida gloria del tuo regno”. “Il regno” (malkut) è Israele e le “imprese” sono quelle della liberazione dall'Egitto, ecc. Terminata la successione monarchica dopo la deportazione a Babilonia, Israele, pur senza scartare minimamente la tensione verso il futuro re, il Messia, si collegò alla tradizione premonarchica dove il re era unicamente Dio.

Nel libro dell'Esodo si parla di Israele come regno (19,6): “Un regno di sacerdoti e una nazione santa”. Israele come regno di Dio si manifesta in modo evidente mediante l'osservanza della legge data sul Sinai; ma Israele non è solo suddito di Dio, ma anche figlio (Cf. Es 4,22).
Il salmista continua a celebrare la bontà di Dio verso gli uomini: “Giusto è il Signore in tutte le sue vie (...). Il Signore custodisce tutti quelli che lo amano, ma distrugge tutti i malvagi”.
Il salmista termina la sua composizione esortandosi alla lode a Dio e invitando, in una visione universale, “ogni vivente” a benedirlo: “Canti la mia bocca la lode del Signore e benedica ogni vivente il suo santo nome, in eterno e per sempre”. “Ogni vivente”; anche gli animali, le piante - ovviamente a loro modo - celebrano la gloria di Dio (Cf. Ps 148,9-10).
Il cristiano nella potenza dello Spirito Santo annuncia le grandi opere del Signore (At 2,11), che sono quelle relative a Cristo: la salvezza, la liberazione dal peccato, ben più alta e profonda di quella dall'Egitto; il regno di Dio posto nel cuore dell'uomo e tra gli uomini in Cristo, nel dono dello Spirito Santo; i cieli aperti, il dono dei sacramenti, massimamente l'Eucaristia.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di San Paolo apostolo ai Filippesi
Fratelli, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia.
Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno.
Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo.
Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo.
Fil. 1,20c-24.27ª

Paolo scrisse la lettera ai Filippesi mentre si trova in carcere, probabilmente durante la sua detenzione a Efeso nel 53-54. La lettera è ispirata da sentimenti di amicizia e Paolo l’ha scritta per ringraziare la comunità di Filippi d'averlo aiutato materialmente. Filippi è una città nel nord della Grecia, situata a circa 15 chilometri dal mare. I cristiani della comunità erano prevalentemente di origine pagana, come si evince dal fatto che nella lettera Paolo, a parte una breve allusione, non cita mai l’Antico Testamento.. La lettera. strutturata in 4 capitoli, si occupa di dimensioni specifiche dell'identità e della vita cristiana

Il brano liturgico, tratto dal primo capitolo, riporta questa annuncio di Paolo:
”Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia. Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno”.
Ciò che sta a cuore all’apostolo è la glorificazione di Cristo, che avviene quando sarà conosciuto da un numero sempre più grande di persone. Questa glorificazione avviene “nel corpo” di Paolo, cioè per mezzo di tutta la sua persona nei due aspetti che la caratterizzano, cioè la vita e la morte, perché per lui “vivere è Cristo”, di conseguenza “il morire è un guadagno”. Un guadagno, in quanto comporta la piena partecipazione alla sua esperienza umana e la caduta dell’unico ostacolo che gli impedisce di “guadagnare” completamente Cristo (V. Fil 3,8), cioè di vivere pienamente per Lui e con Lui.
Paolo si trova in prigione, in una situazione in cui la morte potrebbe sopraggiungere da un momento all’altro. Egli non può non pensare a questa eventualità, e lo fa nella prospettiva del suo rapporto con Cristo:”Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo.”

Da una parte Paolo si rende conto che il suo vivere nel corpo comporta un“lavorare con frutto” cioè un’attività fruttuosa per l’evangelizzazione. Si trova quindi in un dilemma difficile da sciogliere: pur ritenendo che per lui sarebbe meglio morire, riconosce che per i filippesi è ancora necessario che egli “rimanga nel corpo”, cioè continui la sua vita su questa terra.
Certo Paolo non può determinare il futuro, ma, nei versetti seguenti non riportati dal brano, si limita ad esprimere una sua percezione: “Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere d’aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede, (vv. 25-26).

Paolo prevede che la sua vita continuerà e accetta volentieri che la prigionia non termini con la sua morte. Questa convinzione non si basa su come potrà andare il processo che dovrà affrontare, ma sulla considerazione che ancora lo aspetta molto lavoro, quello cioè di aiutare i suoi a crescere nella fede.
Egli spera anche che il vanto che essi ripongono in lui, ma soprattutto in Gesù Cristo che egli rappresenta, aumenti per una nuova visita che egli vorrebbe fare loro.
La conclusione del testo liturgico è un’esortazione rivolta ai filippesi:
“Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo.”

Ciò che Paolo esprime in questo brano è prima di tutto l’amore profondo che lo unisce a Cristo. È dunque chiaro che il desiderio della morte, da lui accennato in questo brano, non è effetto di una sofferenza pesante alla quale desidera sottrarsi, ma piuttosto un passo necessario per essere pienamente conforme a Colui che è vissuto, morto e risorto per noi.
In altre parole la morte è importante non perché apre la strada a un incontro glorificante, ma perché rappresenta l’ultimo passo della configurazione del discepolo al suo maestro, è l’espressione del dono totale attuato con Lui e per Lui.
È solo attraverso la morte che si manifesta questo dono. E se Paolo per il momento è disposto a rinunziarvi, lo fa perché la sua stessa vita è un continuo morire con Cristo e per Cristo nel servizio dei fratelli.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”.
Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”.
Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro.
Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.
Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».
Mt 20, 1-16a

Questa parte del Vangelo di Matteo segna una svolta nel ministero di Gesù, che lascia la Galilea per dirigersi verso Gerusalemme, attraversando il territorio della Giudea, al di là del Giordano. Gesù continua la formazione dei suoi discepoli, approfondendo l’insegnamento sulle condizioni per entrare nel regno dei cieli.
Il brano liturgico narra la parabola degli operai mandati nella vigna e Matteo è l’unico evangelista a riportarla. La parabola inizia con la consueta l’espressione “Il regno dei cieli è simile” …e continua con la similitudine dicendo; “a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna”.
L’immagine della vigna, utilizzata in seguito per altre due parabole, è desunta dalla tradizione biblica, dove simboleggiava il popolo d’Israele spesso infedele al suo Dio (cfr. Is 5,1-7; Ger 2,21; Ez 17,6-10; 19,10-14).
Le modalità con cui sono assunti gli operai corrispondono alle usanze palestinesi del tempo di Gesù. Il primo ingaggio avviene al mattino, all’inizio della giornata, cioè alle ore sei. Con gli operai viene pattuito il salario quotidiano di un denaro, che essi accettano senza recriminazioni: perché era il prezzo di mercato.

Successivamente il padrone esce altre quatto volte, all’ora terza (le nove), sesta (le dodici), nona (le quindici) e undicesima (le diciassette), e ogni volta trova operai senza lavoro che manda alla sua vigna.
Le assunzioni, eccetto l’ultima, avvengono secondo la divisione greco-romana della giornata. A quelli delle nove dice che darà loro quanto è giusto, senza precisare la cifra. Lo stesso ripete ai due gruppi successivi. Agli operai che incontra alle diciassette chiede, con un tono di rimprovero “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Quando essi rispondono che nessuno li ha presi a giornata, manda anche loro nella vigna, senza promettere nulla e senza badare al fatto che restava ben poco tempo per lavorare.
Proprio queste ultime due chiamate ormai fuori tempo risultano strane e inverosimili tipiche delle parabole, il cui scopo è quello di provocare chi ascolta, affinché possano pensare a una logica diversa da quella a cui sono abituati.
Ma l’aspetto più provocatorio del racconto lo troviamo nelle modalità con cui il padrone effettua il pagamento: egli fa venire gli operai e cominciando dagli ultimi dà a tutti un denaro. Il fatto di cominciare dagli ultimi sicuramente è solo un espediente per far sì che i primi si rendano conto che anche gli ultimi hanno ricevuto un denaro, come era stato pattuito con loro. Vedendo ciò costoro si aspettano naturalmente di ricevere di più, ma con loro grande delusione si accorgono che la paga è la stessa. Essi perciò, mentre ritirano il denaro, si lamentano con il padrone perché anche gli ultimi, che avevano lavorato solo un’ora, sono stati trattati come loro che avevano sopportato il peso della giornata e il caldo.

Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, gli dice: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”..
. Le parole del padrone costituiscono la vera interpretazione della parabola. Con esse Gesù intende sottolineare che l’ingresso nel regno dei cieli non va considerato come una ricompensa dovuta per diritto, in base ai meriti personali, ma come un dono gratuito, espressione della misericordia infinita di Dio. La parabola termina con una massima che dovrebbe darne la chiave di lettura: “Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi”.
Il messaggio base della parabola nella predicazione di Gesù sottolinea una questione molto viva e dibattuta nella prima esperienza della Chiesa, cioè l’apertura universale a tutti i popoli e a tutte le culture.
La parificazione dei pagani nella Chiesa delle origini intaccava certi privilegi e certe logiche umane che ritenevano la salvezza un bene e un patrimonio nazionale e culturale, Lo stile di Gesù è invece identico per tutti, giudei e pagani, giusti e peccatori. L’antica alleanza, basata sul diritto e sulla giustizia, si apre – come aveva annunziato Geremia (31,21-34) – alla nuova alleanza fondata sulla grazia e sul perdono.

Il Regno è un dono di Dio e non un salario per le opere della legge; la salvezza non è una ricompensa quasi contrattuale, ma è innanzitutto un’iniziativa divina fatta di amore e di comunione a cui l’uomo è invitato a partecipare con gioia e senza limitazioni. Il cristiano è, perciò, invitato a seguire lo stile del padrone della vigna, che è quello di Gesù, che non si basa prima di tutto sul merito, ma si lascia conquistare dall’amore gratuito che dona e fa credito anche a chi non ha diritti da accampare. La manifestazione di un amore puro e totale è la perfetta imitazione del Padre celeste “che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. (Mt 5,45)

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Andate anche voi nella mia vigna
La parabola degli operai mandati a lavorare nella vigna in ore diverse del giorno ha creato sempre grosse difficoltà ai lettori del Vangelo. È accettabile il modo di fare del padrone che dà la stessa paga a chi ha lavorato un’ora e a chi ha lavorato un’intera giornata? Non viola, esso, il principio della giusta ricompensa? I sindacati insorgerebbero in coro oggi, se qualcuno facesse come quel padrone.
La difficoltà nasce da un equivoco. Si considera il problema della ricompensa in astratto e in generale, oppure in riferimento alla ricompensa eterna in cielo. Vista così, la cosa contraddirebbe in effetti il principio secondo cui Dio “rende a ciascuno secondo le sue opere” (Rom 2, 6). Ma Gesù si riferisce qui a una situazione concreta, a un caso ben preciso. L’unico denaro che viene dato a tutti è il regno dei cieli che Gesù ha portato sulla terra; è la possibilità di entrare a far parte della salvezza messianica. La parabola comincia dicendo: “Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba…”.
Il problema è, ancora una volta, quello della posizione di ebrei e pagani, o di giusti e peccatori, nei confronti della salvezza annunciata da Gesù. Anche se i pagani (rispettivamente, i peccatori, i pubblicani, le prostitute ecc.) solo davanti alla predicazione di Gesù si sono decisi per Dio, mentre prima erano lontani (“oziosi”), non per questo occuperanno nel regno una posizione diversa e inferiore. Anch’essi siederanno alla stessa mensa e godranno della pienezza dei beni messianici. Anzi, poiché essi si mostrano più pronti ad accogliere il Vangelo, che non i cosiddetti “giusti”, ecco che si realizza quello che Gesù dice a conclusione della parabola odierna: “Gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi”.

Una volta conosciuto il regno, cioè una volta abbracciata la fede, allora sì che c’è posto per le diversificazioni. Non è più identica la sorte di chi serve Dio per tutta la vita, facendo fruttare al massimo i suoi talenti, rispetto a chi dà a Dio solo i rimasugli della vita, con una confessione rimediata, in qualche modo, all’ultimo momento.
La parabola contiene anche un insegnamento di ordine spirituale di massima importanza: Dio chiama tutti e chiama a tutte le ore. Il problema, insomma, della chiamata, più che quello della ricompensa……
Vorrei attirare l’attenzione su un aspetto che è forse marginale nella parabola, ma quanto mai sentito e vitale nella società moderna: il problema della disoccupazione. Alla domanda del padrone: “Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi?”, gli operai risposero: “Nessuno ci ha presi a giornata”. Questa risposta sconsolata potrebbe essere data oggi da milioni di disoccupati.

Gesù non era insensibile a questo problema. Se egli descrive così bene la scena è perchè tante volte il suo sguardo si era posato con compassione su quei crocchi di uomini seduti per terra, o appoggiati a qualche muricciolo, con un piede contro la parete, in attesa di essere “ingaggiati”. Quel padrone sa che gli operai dell’ultima ora hanno le stesse necessità degli altri, hanno anche loro bambini da sfamare, come ce l’hanno quelli della prima ora. Dando a tutti la stessa paga, il padrone mostra di non tener conto soltanto del merito, ma anche del bisogno. Le nostre società capitalistiche basano la ricompensa unicamente sul merito (spesso più nominale che reale) e sull’anzianità di servizio, e non sul bisogno di ogni persona. Nel momento in cui un giovane operaio o un professionista ha più bisogno di guadagnare per farsi una casa e una famiglia, la sua paga risulta la più bassa, mentre alla fine della carriera, quando ormai ne ha meno bisogno, la ricompensa (specie presso certe categorie sociali), arriva alle stelle. La parabola degli operai nella vigna ci invita a trovare un più giusto equilibrio tra le due esigenze del merito e del bisogno.

commento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap. – predicatore della Casa Pontificia .

 


1. Il 19 di ogni mese, dopo la Messa delle ore 18 e 30, i Laici Salettini si incontrano per studiare e meditare il Messaggio che la Santa Vergine ci ha lasciato apparendo a La Salette il 19 settembre 1846. Siamo tutti invitati ad approfondire quanto la Bella Signora ha detto a Massimino e a Melania e ad attuare il suo invito “FATELO CONOSCERE A TUTTO IL MIO POPOLO.”

2. Iscrizioni al catechismo

DA DOMENICA 17 settembre 2017
DOPO LA SANTA MESSA DELLE ORE 10,00
PROSEGUIRANNO TUTTA LA SETTIMANA
ORARIO DALLE 17,00 ALLE 19,00

(DA MARTEDI’ 19 A DOMENICA 24)
ATTENZIONE ESCLUSO LUNEDI’ 18

Inizio del catechismo per gli anni già avviati,
dalla prima settimana di ottobre ad eccezione del:
2° anno di comunione
LUNEDÌ 25 - H=17,00-18,30 (DINA)

MARTEDÌ 26 - H=17,00-18,30 (CATERINA/LUISA)

INIZIO 1° ANNO COMUNIONE
(dopo festa patronale DOMENICA 8 OTTOBRE)
Mercoledì 11 = PIERA E MONICA
Giovedì 12 = AURORA, ROSA E IVANA


La liturgia di questa domenica tratta un tema difficile: il perdono. Con la nostra mentalità umana vorremmo stabilire una misura, una norma che ci dia soddisfacimento. Perdonare, sì, ma quante volte? L’arte del perdonare è difficile, ma non impossibile.

Nella prima lettura, tratta dal Libro del Siracide, troviamo un brano il cui contenuto supera non solo la legge del taglione, ma è una vera anticipazione sulla dottrina del “Padre “nostro” e del discorso della montagna. Tale dottrina si fonda sulla condivisione che si è tutti bisognosi di perdono.

Nella seconda lettura, Paolo nella sua lettera ai romani, parla delle relazioni fra i cristiani di diversa tradizione, che a motivo appunto della loro diversità determinano pluralismo nell’espressione della fede. L’amore del prossimo è la legge nuova di Cristo, fonte, maestro e modello della carità senza limiti e senza distinzioni.

Nel Vangelo, Matteo ci riporta che, per rispondere alla domanda di Pietro su quante volte deve perdonare il fratello che commette una colpa, il Signore Gesù formula la sua risposta riprendendo il bel numero simbolico di 7 che aveva proposto Pietro, in una moltiplicazione tale da proporre una completezza senza limiti: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette” vale a dire “Bisogna perdonare sempre” E poi espone la parabola il cui senso è che Dio perdona gratuitamente il peccato a chi gli chiede perdono, dimostrando una benevolenza e una misericordia senza limiti.

Dal libro del Siràcide
Rancore e ira sono cose orribili,
e il peccatore le porta dentro.
Chi si vendica subirà la vendetta del Signore,
il quale tiene sempre presenti i suoi peccati.
Perdona l’offesa al tuo prossimo
e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati.
Un uomo che resta in collera verso un altro uomo,
come può chiedere la guarigione al Signore?
Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile,
come può supplicare per i propri peccati?
Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore,
come può ottenere il perdono di Dio?
Chi espierà per i suoi peccati?
Ricòrdati della fine e smetti di odiare,
della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti.
Ricorda i precetti e non odiare il prossimo,
l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui.
Sir 27, 30 - 28, 9

Il libro del Siracide è un libro un po’ particolare perché fa parte della Bibbia cristiana, ma non figura nel canone ebraico. Si tratta di un testo deuterocanonico che, assieme ai libri di Rut, Tobia, Maccabei I e II, Giuditta, Sapienza e le parti greche del libro di Ester e di Daniele, è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, per cui è stato accolto dalla Chiesa Cattolica, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo.
È stato scritto originariamente in ebraico a Gerusalemme attorno al 196-175 a.C. da Yehoshua ben Sira (tradotto "Gesù figlio di Sirach", da qui il nome del libro "Siracide"), un giudeo di Gerusalemme, in seguito fu tradotto in greco dal nipote poco dopo il 132 a.C. che nel prologo spiega che tradusse il libro quando si trovava a soggiornare ad Alessandria d’Egitto, nel 38° anno del regno Tolomeo VIII, che regnò in Egitto a più riprese a partire dal 132 a.C.. Benché non sia stato accolto nel canone ebraico, il Siracide è citato frequentemente negli scritti rabbinici; nel Nuovo Testamento la lettera di Giacomo vi attinge molte espressioni, ed anche la saggezza popolare fa proprie alcune massime.

Il libro è composto da 51 capitoli e si divide in due grandi sezioni, nella prima delle quali sono esposti gli insegnamenti della Sapienza (Sir 1,1-42,14), mentre nella seconda si descrive l’opera della Sapienza nella natura e nella storia (Sir 42,15-50,26). Il punto culminante della prima di queste due sezioni è rappresentato dal carme chiamato “elogio della Sapienza” (Sir 24,1-21): questo brano divide la sezione in due parti, di cui la prima (Sir1,1-23,27) focalizza l’attenzione sulla sapienza che ogni essere umano percepisce nella sua coscienza, mentre la seconda (Sir 24,1-42,14) mette maggiormente in luce la sapienza che proviene dalla legge.
Da questa seconda parte è tratto il brano liturgico che consiste in una piccola raccolta di massime riguardanti il perdono.
Nella prima massima si dà un giudizio molto severo su due atteggiamenti abbastanza comuni nei confronti del prossimo: Rancore e ira sono cose orribili,e il peccatore le porta dentro.” Mentre l’ira implica una reazione immediata ed emotiva nei confronti di chi ha arrecato un’offesa, il rancore cova il desiderio di vendetta che uno tiene dentro di sè magari per lungo tempo. Ciascuno di questi due atteggiamenti sono consideriate “cose orribili” e sono quindi considerati come peccati di carattere religioso.

Le cinque massime successive approfondiscono le implicazioni religiose di alcuni comportamenti negativi in campo sociale. Anzitutto si affronta il tema della vendetta: Chi si vendica subirà la vendetta del Signore,il quale tiene sempre presenti i suoi peccati. Si suppone che ogni essere umano abbia dei conti in sospeso con Dio: chi si vendica per le offese che riceve si pone nella situazione di ricevere su di sé, di rimando, la vendetta di Dio per le offese che lui stesso gli ha arrecato.
La massima successiva riguarda invece il perdono:”Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati.” La preghiera che uno rivolge a Dio per ottenere il perdono dei suoi peccati è fruttuosa solo se egli per primo perdona il suo prossimo.

Ritorna poi il tema della collera: Un uomo che resta in collera verso un altro uomo,come può chiedere la guarigione al Signore? La malattia veniva spesso considerata come la punizione per un peccato commesso, perchè se uno mantiene in sé la collera verso il prossimo pone un ostacolo al perdono di Dio e quindi impedisce la guarigione che solo il perdono prima concesso potrebbe favorire.
La massima successiva parla della misericordia: Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile,
come può supplicare per i propri peccati?

Il termine “misericordia” corrisponde ai vocaboli ebraici ricavati dalla radice r h m, che richiama il seno materno (V Is 54,8): essa indica dunque l’atteggiamento di compassione e di tenerezza della madre per il proprio figlio. Dio dimostra questa misericordia verso Israele Suo popolo soprattutto perdonando i suoi peccati. Ma nessuno può aspettarsi la misericordia da parte di Dio se lui stesso non la esercita verso il suo “simile”.
Un’altra massima riprende il tema del rancore: Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore, come può ottenere il perdono di Dio? Chi espierà per i suoi peccati?“ Dio ha più motivi per conservare rancore, poiché la Sua dignità è infinitamente superiore a quella dell’uomo che lo offende; se quindi l’uomo che è solo una creatura debole e limitata, mantiene rancore verso uno che è sul suo stesso livello, non può aspettarsi di veder perdonati i propri peccati da parte di Colui che gli è immensamente superiore.

Le ultime due massime del brano richiamano l’attenzione sul rapporto tra perdono e osservanza dei comandamenti. Ambedue iniziano con l’invito a ricordare: ciò che il Signore ha fatto per il popolo durante il cammino dell’esodo. Questa è la premessa e la condizione essenziale, come è scritto nel Deuteronomio, per poter osservare la legge di Dio (8,18-19).
La prima massima è formata da due frasi parallele: Ricòrdati della fine e smetti di odiare, della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti.. Il ricordo qui ha per oggetto la propria fine, con il binomio “dissoluzione e morte”. Il ricordo di quello che lo aspetta in quel momento avrà come esito da un lato l’eliminazione dell’odio e dall’altro l’osservanza dei comandamenti. Il pensiero della propria fine comporta dunque l’osservanza dei comandamenti che a sua volta si manifesta nel perdono.

Nella frase successiva l’ordine è capovolto: Ricorda i precetti e non odiare il prossimo, l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui. Questa volta è il ricordo dei comandamenti che produce come effetto principale il “non odiare il prossimo”, perchè il ricordo dell’alleanza invita a non tener conto dell’offesa subita.
Per sintetizzare il Siracide ci vuole dire che il rancore nei confronti del fratello è come uno schermo che interrompe anche il dialogo con Dio. Se tu perdoni al fratello, anche Dio ti perdonerà; se tu sei implacabile, anche Dio lo sarà con te.

Salmo 103 - Il Signore, è buono e grande nell’amore

Benedici il Signore, anima mia!
quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tutti i suoi benefici

Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue infermità,
salva dalla fossa la tua vita,
ti circonda di bontà e misericordia

Non è in lite per sempre,
non rimane adirato in eterno.
Non ci tratta secondo i nostri peccati
e non ci ripaga secondo le nostre colpe.

Perchè quanto il cielo è alto sulla terra
Così la sua misericordia è potente
Su quelli che lo temono;
Quanto dista l’oriente dall’occidente,
Così egli allontana da noi le nostre colpe.

La critica è incline a datare la composizione di questo salmo nel tardo postesilio.
Il salmista esorta se stesso a benedire il Signore, e a non “dimenticare tutti i suoi benefici”. Questo ricordare è importantissimo nei momenti dolorosi per non cadere nello scoraggiamento e al contrario stabilirsi in una grande fiducia in Dio. Il salmista non presenta grandi tormenti storici della nazione; pare di poter indovinare normalità di vita attorno a lui. Egli si presenta a Dio come colpevole di numerose mancanze, ma ha sperimentato la misericordia di Dio, che lo ha salvato da angosce e anche probabilmente da una malattia grave: “Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità; salva dalla fossa la tua vita”.
Il salmista non cessa di celebrare la bontà, la giustizia di Dio, e prova una grande dolcezza nel fare questo: una dolcezza pacificante: “Ti circonda di bontà e di misericordia”.

Il salmista, fedele all'alleanza, loda Dio per la legge data per mezzo di Mosè: “Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie, le sue opere ai figli d'Israele ”. Ma Dio non ha dato a Mosè solo la legge, ha anche dato l'annuncio del Cristo futuro, dal quale abbiamo la grazia e la verità (Cf. Gv 1,17). La misericordia di Dio celebrata dal salmista si è manifestata per mezzo di Gesù Cristo.
Il salmista si sente sicuro, compreso da Dio, che agisce sul suo popolo con la premura di un padre verso i figli. Un padre che “ricorda che noi siamo polvere”, e che perciò pur rilevando le colpe è pronto a perdonare pienamente: “Non è in lite per sempre, non rimane adirato in eterno”.

L'alleanza osservata è fonte di bene, di unione con Dio. Egli effonde “la sua giustizia”, cioè la sua protezione dal male, sui “figli dei figli”.
Il salmista pieno di gioia conclude invitando tutti gli angeli a benedire Dio. Gli angeli non hanno bisogno di essere esortati a benedire Dio, ma certo possono essere invitati a rafforzare il nostro benedire Dio. Per una lode universale sono invitate a benedire Dio tutte le cose create (Cf. Ps 18,1s): “Benedite il Signore, voi tutte opere sue”.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai romani
Fratelli, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore.
Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore.
Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.
Rm 14, 7-9

L’Apostolo Paolo continuando la sua lettera ai Romani esorta all’accoglienza reciproca, mettendo così a fuoco il problema che divide la comunità (Rm 14,1-12); suggerisce poi i criteri a cui devono ispirarsi per dirimere la controversia (Rm 14,13-21). In seguito si concentra brevemente sul tema della fede (Rm 14,22-23) e, rivolgendosi ai forti, presenta loro Cristo come modello di comportamento (Rm 15,1-6). Infine riprende nuovamente il tema dell’accoglienza ponendo l’accento sull’esempio di Cristo (Rm 15,7-13).

Il testo liturgico si limita a proporre alcuni versetti del capitolo 14. Nei versetti non riportati dal brano liturgico si riporta
che nella comunità di Roma si contrappongono due fazioni: alla primo appartiene chi “crede di poter mangiare di tutto”, mentre all’altra, quello dei deboli, aderisce chi “mangia solo legumi”. La preoccupazione per l’osservanza di particolari norme alimentari era una consuetudine anche nell’antichità .Tuttavia le parole di Paolo contemplano l’ambito giudaico, dove esistevano norme minuziose circa la purità dei cibi: la consumazione di soli legumi richiama in particolare il comportamento dei tre giovani deportati a Babilonia, i quali si limitavano a questo cibo per non contaminarsi con i pasti serviti a corte (Dn 1,8.11-13). Le due fazioni si contrappongono anche per quanto riguarda l’osservanza di particolari feste religiose ereditate dal giudaismo. Paolo riconosce la legittimità di questi diversi comportamenti: infatti sia chi si preoccupa di cibi o di feste, sia chi non vi presta attenzione, non lo fa per motivi egoistici, ma per il Signore, cioè allo scopo di rendergli onore e ringraziamento.

A questo punto ha inizio il brano liturgico, nel quale Paolo fa alcune considerazioni conclusive di carattere generale. Anzitutto egli afferma: “nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso”
I due verbi “vivere” e “morire” indicano la totalità dell’esistenza umana. Per Paolo il credente, in quanto tale, non può vivere una vita egoistica, tutta orientata alla ricerca del proprio interesse e della propria soddisfazione personale; in questa prospettiva anche la morte non può essere vissuta come un evento che riguarda unicamente l’individuo. La vita del credente deve essere orientata diversamente: “perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore.

Tutta la vita del credente, fino al momento conclusivo della morte, assume il suo vero significato solo se è vissuta “per il Signore”, cioè in un rapporto esistenziale con Colui che l’ha donata (V Gal 2,20 e ciò implica la totale appartenenza al Signore Gesù.

Il brano si conclude con l’affermazione: Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi. L’espressione “vivi e morti” indica la totalità degli esseri umani, che si trovano rispettivamente in questo mondo o nel regno dei morti. A motivo della Sua morte e risurrezione Cristo è diventato la “primizia di coloro che sono morti” (1Cor 15,20) ossia Colui che un giorno darà la vita a coloro che credono in Lui. Il cristiano che ha accettato di diventare partecipe della morte e risurrezione di Cristo è talmente attratto da Lui che può dire come Paolo (Gal2,20) che non è più lui che vive, ma è Cristo che vive in lui. E’ rapportandosi a Cristo il credente ritrova il senso vero della sua vita, e di conseguenza trova spontaneo aprirsi all’altro e amarlo come Cristo lo ama.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.

Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.

Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
Mt 18, 21-35

Il brano liturgico riporta la seconda parte del quarto discorso di Gesù iniziato domenica scorsa in cui l’evangelista Matteo ha composto come una piccola catechesi sul tema della vita ecclesiale.
Questa parte si apre con una domanda di Pietro, il quale si avvicina a Gesù e gli chiede: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». La domanda di Pietro ha per oggetto il tema del perdono, che nella Bibbia è intimamente connesso con quello dell’amore (V. Lv 19,17-18). Alcuni testi biblici invitavano a concedere il perdono per almeno tre volte, come Dio “che perdona l’uomo due, tre volte ” secondo quanto è scritto nel Libro di Giobbe. (33,29)
Pietro sicuramente si sarà sentito generoso proponendo un perdono fino a sette volte, un numero che simboleggia la perfezione, ma che pone comunque un limite al perdono.
Gesù allora gli risponde: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.”
Gesù perciò va oltre spezzando ogni concezione quantitativa del perdono.

Egli ribalta il terribile canto della violenza pronunziato da Lmech in Genesi 4,24 “Sette volte sarà vendicato Caino ma Lamech settantasette”.ed esige così dai suoi discepoli il perdono illimitato, espresso attraverso la cifra simbolica esorbitante di “settanta volte sette”.
Qui Gesù aggiunge una parabola dimostrativa che inizia con la .consueta introduzione:
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi…
È chiaro che la parabola non vuole descrivere che cosa avviene nel regno dei cieli, ma solo proporre una situazione che può illustrarne un aspetto particolare. Il re simboleggia chiaramente Dio. I suoi servi non sono certamente dei semplici servitori, ma dei collaboratori ad alto livello, come apparirà subito dal primo e unico che è stato chiamato a rapporto. Colui che si presenta al re per rendere conto è un personaggio che gli deve ben diecimila talenti . Questa somma era quanto mai esorbitante basti pensare che il valore del talento oscillava tra i seimila e diecimila denari, che corrispondevano ad altrettante dracme. Per un confronto, basti pensare che, secondo G. Flavio, il reddito annuo dei possedimenti di Archelao era di 600 talenti, di Erode Antipa era di 200 talenti (Antichità giudaiche 17,318-320). È chiaro dunque che si tratta di un debito enorme: colui che l’ha contratto deve quindi essere un dignitario di corte o forse un gran possidente.

Siccome costui non può restituire la somma dovuta, il re ordina che sia venduto come schiavo con tutta la sua famiglia e che tutti i suoi beni siano confiscati . Questi però supplica il re di avere pazienza e gli promette di restituirgli la somma dovuta; il re allora si impietosisce e gli condona il debito.
Nella seconda scena la situazione si capovolge: colui a cui è stato condonato questo debito, incontra un suo collega debitore nei suoi confronti di cento denari, lo afferra e quasi lo soffoca pretendendo la restituzione immediata del dovuto. La somma di cento denari, che corrisponde al salario di cento giornate lavorative di un operaio ordinario, messa a confronto con i diecimila talenti è una cifra irrisoria. Questo servo reagisce esattamente come aveva fatto lui con il re: si butta a terra e lo supplica di avere pazienza e quanto prima restituirà il dovuto. Ma la finale invece è totalmente diversa perchè questa volta il servo non ne vuole sapere e lo fa gettare in carcere finché non abbia pagato il debito.

Il confronto tra i due comportamenti è spontaneo, e viene fatto da coloro che ne sono testimoni: essi ne restano molto addolorati e vanno a riferirlo al re. Il Signore allora fa comparire davanti a sé il servo a cui aveva condonato l’enorme debito e, chiamandolo “servo malvagio”, gli ricorda che gli aveva condonato tutto il debito semplicemente perché lo aveva implorato e gli chiede: Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”.

Questa domanda si ispira alla regola d’oro che impone di fare agli altri quello che si desidera per sé. In essa ciò che viene condannato è l’assenza non tanto del condono, quanto piuttosto della pietà che lo avrebbe dovuto ispirare. Il racconto termina con il gesto del padrone che, adirato, revoca il condono accordato precedentemente e getta il servo in carcere finché abbia pagato tutto il dovuto
L’applicazione della parabola non richiede molte parole: Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello La lezione che Gesù dà ai suoi discepoli e a noi oggi è limpida e non ammette eccezioni. Il discepolo deve essere sempre pronto e gioioso nel concedere il perdono senza ricorrere a scusanti o a distinzioni vane sul modello del “perdonare ma non dimenticare”. Ma questo perdono dato al fratello ha una radice profonda: dobbiamo infatti riconoscere che noi per primi siamo dei perdonati da Dio.
Scriveva S.Agostino: “Perdonati, perdoniamo!” , “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Mt 5,7) .
*****

Nel Vangelo di oggi, Pietro chiede al Signore: «Se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». Il Signore risponde: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette». Queste parole vanno al cuore del messaggio di riconciliazione e di pace indicato da Gesù.
In obbedienza al Suo comando, chiediamo quotidianamente al nostro Padre celeste di perdonare i nostri peccati, «come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Se non fossimo pronti a fare altrettanto, come potremmo onestamente pregare per la pace e la riconciliazione?

Gesù ci chiede di credere che il Perdono è la porta che conduce alla riconciliazione. Nel comandare a noi di perdonare i nostri fratelli senza alcuna riserva, Egli ci chiede di fare qualcosa di totalmente radicale, ma ci dona anche la grazia per farlo. Quanto, da una prospettiva umana, sembra essere impossibile, impercorribile e perfino talvolta ripugnante, Gesù lo rende possibile e fruttuoso attraverso l’infinita potenza della sua Croce. La Croce di Cristo rivela il potere di Dio di colmare ogni divisione, di sanare ogni ferita e di ristabilire gli originali legami di amore fraterno.”

Papa Francesco
Parte dell’omelia della Messa per la Riconciliazione celebrata a Seoul, il 18-8-2014

 

Giovedì, 14 Settembre 2017 07:54

INVITO PER I LAICI SALETTINI


Il 19 di ogni mese, dopo la Messa delle ore 18 e 30, i Laici Salettini si incontrano per studiare e meditare il Messaggio che la Santa Vergine ci ha lasciato apparendo a La Salette il 19 settembre 1846.
Siamo tutti invitati ad approfondire quanto la Bella Signora ha detto a Massimino e a Melania e ad attuare il suo invito “FATELO CONOSCERE A TUTTO IL MIO POPOLO.”
Per FARLO CONOSCERE bisogna CONOSCERLO.

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

Parrocchia Nostra Signora de La Salette
Piazza Madonna de La Salette 1 - 00152 ROMA
tel. e fax 06-58.20.94.23
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Settore Ovest - Prefettura XXX - Quartiere Gianicolense - 12º Municipio
Titolo presbiterale: Card. Polycarp PENGO
Affidata a: Missionari di Nostra Signora di «La Salette» (M.S.)
 

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