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S.Messe (settimana)
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KRZYZ

Henryk

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La liturgia di questa domenica ci propone delle letture che ci aiutano a comprendere che la salvezza non è un privilegio solo di alcuni e Dio non fa distinzioni tra uomini di differenti popoli, culture, razze e lingue.

Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia, leggiamo come Dio, scegliendo Israele come suo popolo, non ha inteso escludere dalla salvezza gli altri uomini. Tutte le nazioni, infatti, saranno riunite nella Gerusalemme celeste, che con l’avvento del Messia, il tempio diventerà “casa di preghiera per tutti i popoli”.

Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, l’apostolo Paolo esprime la certezza che anche il popolo d’Israele, pur non avendo accolto Gesù-Messia, troverà misericordia.

Nel Vangelo di Matteo, l’evangelista mette in luce la grande fede della donna cananea che implora Gesù di liberare sua figlia da un demonio. In un primo momento Gesù non esaudisce le sue preghiere, ma lo fa solo dopo l’intercessione degli apostoli e la perseveranza e la fede della donna.
Nel gesto di Gesù emerge chiaramente che la salvezza non ha confini razziali o culturali, ma passa attraverso la coscienza di ogni uomo, la sua libertà e la sua fede.

Dal libro del profeta Isaia
Così dice il Signore:
«Osservate il diritto e praticate la giustizia,
perché la mia salvezza sta per venire,
la mia giustizia sta per rivelarsi.
Gli stranieri, che hanno aderito al Signore per servirlo
e per amare il nome del Signore,
e per essere suoi servi,
quanti si guardano dal profanare il sabato
e restano fermi nella mia alleanza,
li condurrò sul mio monte santo
e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera.
I loro olocausti e i loro sacrifici
saranno graditi sul mio altare, perché la mia casa si chiamerà
casa di preghiera per tutti i popoli».
Is 56,1,6-7

Con questo capitolo inizia il periodo del dopo esilio e la ricostruzione del tempio di Gerusalemme (iniziata dal 536 e terminata nel 515 a.C). Questo testo, attribuito al terzo Isaia, ritenuto discepolo spirituale del secondo Isaia, riferisce la consolazione che Dio offre al suo popolo ed il messaggio delle meraviglie che il Signore opera per la nuova Gerusalemme, ricostruita e ripopolata. La liberazione da Babilonia ha aperto molte speranze, ma il ritorno in patria non porta verso quella radicale novità annunciata dal Deuteroisaia, che aveva parlato di un nuovo Esodo come passaggio dall’infedeltà e dal peccato alla fedeltà con Dio, quasi come la concretizzazione dell’Alleanza.

Una serie di problemi concreti mette a dura prova le rinate speranze: i rimpatriati a Gerusalemme non trovano più le terre e le case che erano state di loro proprietà. Devono ricominciare da capo a ricostruirsi la vita. Soprattutto devono porre al centro della loro vita religiosa e politica il Signore. Per questi motivi gli esegeti sono convinti che i contenuti di questi dieci capitoli risalgono al tempo di Neemia, il governatore venuto a Gerusalemme per guidare e incoraggiare la ricostruzione di Gerusalemme, del Tempio e organizzare la vita politica e religiosa del popolo.
Il Tritoisaia da una parte si ricollega alle parole di consolazione di Is 40-55, dove si annuncia la ricostruzione di Gerusalemme e dall'altra richiama il messaggio di conversione del primo Isaia (capitoli 1-39), attualizzandola in questa nuova situazione di scoraggiamento, perdita di speranza e infedeltà.

Nei brani di consolazione il profeta afferma che la salvezza, lo splendore della gloria di Dio sul Suo popolo (60,1s.) cambierà la loro situazione caratterizzata dai bisogni economici (60,17; 62,8-9), dall'insicurezza politica (60,10-18), da rovine e distruzione (61,4) e soprattutto da un perdurante stato di umiliazione (61,7; 62,4). Centro del Tritoisaia è il capitolo 61, il quale dichiara che la missione del profeta è essenzialmente un lieto annuncio per i poveri, gli ammalati, gli emarginati; è predicare il condono dei debiti da parte del Signore, vale a dire il Suo anno di grazia. E questo corrisponde al Giubileo.

In questo brano il profeta, mentre offre suggerimenti di fedeltà, incoraggia a prepararsi al tempo nuovo: "Osservate il diritto e praticate la giustizia…". Perciò ai rimpatriati è rivolto l'invito di superare la tentazione dell'esclusivismo, cioè di formare una comunità etnicamente pura. Il profeta annuncia che ora, per volontà del Signore, potranno aderire anche coloro che prima erano esclusi come lo straniero e l'eunuco, purché vivano le esigenze dell'alleanza. Insieme, con molta saggezza, anche gli stranieri giusti sono condotti al monte santo (Gerusalemme-Sion) di Dio come gli israeliti e con gioia pregheranno insieme nella casa di preghiera che è "Casa di preghiera per tutti i popoli“.

Salmo 66- Popoli tutti, lodate il Signore.

Dio abbia pietà di noi e ci benedica,
su di noi faccia splendere il suo volto;
perché si conosca sulla terra la tua via,
la tua salvezza fra tutte le genti.

Gioiscano le nazioni e si rallegrino,
perché tu giudichi i popoli con rettitudine,
governi le nazioni sulla terra.

Ti lodino i popoli, o Dio,
ti lodino i popoli tutti.
Ci benedica Dio e lo temano
tutti i confini della terra.

La benedizione divina, sperimentabile in Israele come in Oriente nella fertilità dei campi e nella fecondità delle greggi e delle donne, si trasforma in questo Salmo in un segno universalistico in sostegno apologetico della fede in Jhwh. Anzi, essendo l’eccezionale prosperità agricola uno degli schemi tradizionali per tratteggiare l’era messianica, il nostro inno è stato successivamente riletto come preludio del nuovo e perfetto ordine cosmico, inaugurato dal Messia nell’era escatologica.
La festa autunnale che il Salmo suppone, trascolora in una festa messianica in cui sono convocati tutti i popoli della terra. La luce si Sion si irradierà all’ora sull’intera umanità (Is 2.1-5; 60), le benedizioni di Abramo si dirameranno in tutte le nazioni della terra.
Commento tratto da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, a voi, genti, ecco che cosa dico: come apostolo delle genti, io faccio onore al mio ministero, nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di salvarne alcuni. Se infatti il loro essere rifiutati è stata una riconciliazione del mondo, che cosa sarà la loro riammissione se non una vita dai morti?
Infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia a motivo della loro disobbedienza, così anch’essi ora sono diventati disobbedienti a motivo della misericordia da voi ricevuta, perché anch’essi ottengano misericordia. Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti!
Rm 11,13-15,29-32

Paolo, continuando la sua lettera ai Romani, dopo aver esaminato nella parte precedente questo brano la situazione in cui Israele è venuto a trovarsi in seguito alla venuta di Cristo, affronta il problema di coloro che non hanno creduto e delinea il significato che essi hanno nel piano di Dio.

Il rifiuto del vangelo da parte dei giudei e l’accoglienza che gli hanno riservato i pagani potrebbe dare l’impressione che Dio abbia abbandonato proprio quel popolo al quale storicamente ha conferito le sue promesse. Paolo rifiuta questa ipotesi ed afferma che anche l’indurimento di Israele rientra nel piano di Dio. Alcuni dei suoi membri, di cui il giudeo Paolo, cristiano e apostolo, si sente il rappresentante, hanno conseguito mediante la fede l’elezione divina, mentre gli altri, a causa del loro indurimento, sono stati tagliati fuori da essa. Sottolinea poi che se la loro caduta e il loro fallimento hanno portato a tutto il mondo una ricchezza così grande – come la chiamata dei pagani - bisogna supporre che la loro piena partecipazione sarà in grado di realizzare un bene ancora più grande.

Nel brano che abbiamo Paolo osserva che egli stesso, proprio in quanto apostolo dei gentili, esercita il suo ministero nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del suo sangue e di salvarne alcuni. Egli osserva poi, riprendendo il pensiero appena espresso, Se infatti il loro essere rifiutati è stata una riconciliazione del mondo, che cosa sarà la loro riammissione se non una vita dai morti?
In quanto al vangelo infatti essi sono nemici, ma quanto all’elezione sono amati da Dio. Poi c’è l’affermazione conclusiva: i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! Essi infatti non si basano sui meriti dell’uomo, ma su una decisione divina che come tale non può cambiare: su questa convinzione si fonda l’affermazione di Paolo secondo cui un giorno tutto Israele si convertirà a Cristo.

La futura conversione a Cristo di tutto il popolo giudaico viene poi illustrata mediante un paragone: Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia a motivo della loro disobbedienza, così anch’essi ora sono diventati disobbedienti a motivo della misericordia da voi ricevuta, perché anch’essi ottengano misericordia. In conclusione Paolo afferma che “Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti!. In altre parole Dio voleva evitare che la misericordia verso Israele fosse intesa come effetto dei suoi meriti: anche Israele deve fare l’esperienza della disobbedienza per comprendere che la salvezza è un dono gratuito di Dio.

Pensiamo agli ebrei, con un senso di commozione,di gratitudine, di affetto, ricordando anche ciò che ha detto Giovanni Paolo II, durante la storica visita nella Sinagoga di Roma il 13 aprile 1986:“La religione ebraica non ci è estrinseca, ma in certo qual modo, è intrinseca alla nostra religione… Siete i nostri fratelli prediletti e, si potrebbe dire, i nostri fratelli maggiori”.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidòne. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola.
Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele».
Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni».
Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.
Mt 15, 21-28

Matteo, in questo brano del suo Vangelo, ci racconta che Gesù si ritira verso la regione di Tiro e Sidone, che secondo la mentalità giudaica dell’epoca, era considerata zona straniera in prevalenza pagana.
Qui avviene che una donna cananea uscita da quel territorio, gli grida: “Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio”. Gesù non le risponde direttamente, e solo quando i suoi discepoli si fanno avanti, Egli spiega loro il Suo atteggiamento. I discepoli quando dicono a Gesù : “Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!”, manifestano un loro parere benevolo, ma può anche avere lo scopo che esaudendo il desiderio della donna essa cessi di gridare, e se ne vada.

Gesù allora spiega loro la ragione del suo silenzio: “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele”. Con questa frase, Gesù sembra limitare il suo campo d’azione al popolo dell’alleanza. Una così rigida delimitazione era già apparsa in un altro racconto di Matteo dell’invio dei discepoli, ai quali Gesù aveva ordinato di rivolgersi solo alle pecore perdute della casa di Israele (v.10,6). L’appellativo di “pecore perdute” si rifà alla nota immagine biblica del popolo come gregge senza pastore (Ez 36).
Nel frattempo la donna si avvicina a Gesù, si prostra davanti a lui e ripete: “Signore aiutami!” .A questo punto Matteo riferisce,la risposta che Gesù dà alla donna che ci lascia sconcertati: “Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”.

Il comportamento di Gesù nei confronti della donna cananea riflette inizialmente i canoni della tradizione giudaica: Egli infatti secondo il colorito linguaggio orientale, etichetta la donna come un “cane infedele” . Gesù non è un essere disincarnato, ma vive all’interno di una precisa cultura, di un ambiente ben definito.
Non dimentichiamo che la Chiesa delle origini ha vissuto con forti tensioni il problema dell’ammissione dei pagani alla mensa spirituale dell’unico popolo di Dio, come è testimoniato dal dibattito al concilio di Gerusalemme (Atti 15) e dalla polemica di Paolo e contro Paolo proprio su questo argomento.
Gesù dice dunque alla donna ciò che aveva detto prima ai discepoli.

La donna non reagisce con risentimento e suscettibilità, ma con una umiltà che rivela nella donna una singolare conoscenza dell'uomo che le sta di fronte. Essa si impadronisce della sola cosa positiva che può leggere nella risposta di Gesù e la volge a suo vantaggio: " È vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. Questo è il punto alto a cui giunge la donna. che non può non toccare il cuore di Gesù. Gesù è vinto, da questa fede, si commuove, lo si percepisce dalla risposta che dà:
“Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri”.

Noi dovremmo ricordare la fede della Cananea quando sperimentiamo il silenzio di Dio, dobbiamo cioè, continuare a inseguire Gesù e a insistere finché si fermi e ci ascolti, perché qui vediamo che Lui ascolta anche quando non ascolta e si ferma anche quando va avanti. E' la nostra fede in Lui che non deve mai fermarsi e l'impossibile diverrà possibile.
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Un grande ammiratore della Cananea era Sant’Agostino. Quella donna gli ricordava sua madre Monica. Anche lei aveva inseguito il Signore per anni, piangendo e chiedendogli la conversione del figlio.
Non si era lasciata scoraggiare da nessun rifiuto. Aveva inseguito il figlio fino in Italia e a Milano, fino a che lo vide tornato al Signore. In uno dei suoi discorsi egli ricorda le parole di Cristo: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto” e conclude dicendo: “Così fece la Cananea: chiese, cercò, bussò alla porta e ricevette. Facciamo anche noi lo stesso e anche a noi sarà aperto.

La solennità dell’assunzione in cielo della Beata Vergine Maria – anima e corpo - è un dogma solennemente proclamato da Pio XII il 1 novembre 1950. “Per capire l'Assunzione - ha detto Papa Benedetto XVI “dobbiamo guardare alla Pasqua, , il grande Mistero della nostra Salvezza, che segna il passaggio di Gesù alla gloria del Padre attraverso la passione, la morte e la risurrezione. Maria che ha generato il Figlio di Dio nella carne, è la creatura più inserita in questo mistero, redenta fin dal primo istante della sua vita, e associata in modo del tutto particolare alla passione e alla gloria del suo Figlio. L'Assunzione al Cielo di Maria è pertanto il mistero della Pasqua di Cristo pienamente realizzato in Lei. Ella è intimamente unita al suo Figlio risorto, vincitore del Peccato e della morte, pienamente conformata a Lui”. (Angelus 15 agosto 2012)

Nella prima lettura, tratta dal Libro dell’Apocalisse, incontriamo l’immagine simbolica di una donna che partorisce un figlio maschio. E’ facile per noi riconoscere in lei Maria che dà alla vita il Signore Gesù. Tuttavia, anche nell’Apocalisse l’immagine si amplifica, per diventare simbolo della Chiesa, che con il suo impegno testimonia nella storia la presenza del Figlio di Dio. Egli è rapito in cielo per renderci partecipi della sua vittoria sulla morte. La donna continuerà a combattere con noi nel deserto, ma condividendo già la gloria di Dio, ci mostra quale sarà l’esito finale della lotta: tutto, anche la morte, sarà posto sotto i piedi di suo Figlio.

Con la seconda lettura, tratta dalla prima lettera di S.Paolo ai Corinzi, possiamo comprendere di più come l’assunzione al cielo di Maria è il frutto della risurrezione di Cristo, che è la “primizia” dei risorti. Maria anticipa il destino di gloria promesso a “quelli che sono di Cristo”.

Nel Vangelo, Luca ci presenta la visita premurosa di Maria alla cugina Elisabetta. Alla lode della cugina, Maria risponde con un gioioso cantico di lode a Dio, che ha fatto in lei cose grandi.
In questa festa siamo tutti invitati a contemplare un anticipo profetico di quel destino che “in Cristo, primizia di coloro che sono morti” attende ciascuno di noi. Come canta nel Magnificat, Maria sa che la sua gioia si allarga a un cerchio ampio di uomini e donne perchè: “di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono”.,

Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni apostolo
Si aprì il tempio di Dio che è nel cielo e apparve nel tempio l’arca della sua alleanza.
Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto.
Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna, che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito.
Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio.
Allora udii una voce potente nel cielo che diceva:
«Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio
e la potenza del suo Cristo».
Ap 11,19a – 12,1-6ª.10ab

Il libro dell'Apocalisse, che è stato scritto dall’Apostolo Giovanni o da un suo discepolo nell’Anno 95, quando si trovava in esilio all’isola di Patmos, si compone di 22 capitoli. E’ la rivelazione di Gesù Cristo come Egli è, (da qui il nome Apocalisse=rivelazione) il Signore dei signori, il Re dei re, il quale si riappropria di ciò che gli appartiene: la terra.
Anche nel linguaggio comune si è sentito parlare del "settimo sigillo", questo perché nell'Apocalisse la prima serie di giudizi è dettata dall'apertura di sette sigilli.
In Israele ai tempi dell'Antico Testamento l'atto di proprietà veniva redatto, quindi arrotolato e sigillato, in caso di contestazione l'atto di proprietà veniva aperto.
Ecco, Cristo nell'Apocalisse apre i sigilli perché ha deciso di riprendere possesso della terra.

L'Apocalisse è il libro della Bibbia che completa le informazioni profetiche rispetto al piano di Dio. Descrive in modo molto dettagliato gli eventi futuri dell'umanità. In sostanza l'ultimo libro della Bibbia, forse il più importante per quanto riguarda le profezie e la comprensione del piano di Dio, è diviso in cinque parti:
1. Capitoli da 1 a 3. Lettera alle sette chiese dell'Asia, Dio usa Giovanni, l'autore del libro, per rivelare alla Chiesa le cose che dovranno avvenire.
2. Capitoli 4 e 5. L'affermazione dell'autorità divina di Cristo sulla terra.
3. Capitoli da 6 a 19. Il periodo di sette anni della Tribolazione, descritta attraverso gli eventi ed i giudizi, periodo che inizia con l'apertura del primo sigillo, il cavallo bianco cavalcato dall'Anticristo, con l'arco senza le frecce, prende il potere senza fare la guerra, il cavallo bianco sembra significare che abbia usurpato il ruolo di Cristo. Il periodo termina con Gesù che viene cavalcando un cavallo bianco, seguito dai suoi eserciti, non ci sarà battaglia, viene posta fine alla Tribolazione.
4. Capitolo 20. Il regno dei mille anni governato da Gesù Cristo, al termine dei quali ci sarà l'ultima ribellione dell'umanità, l'apertura dei libri ed il giudizio universale relativo a quelli che non hanno la salvezza di Cristo.
5. Capitoli 21 e 22. La vita eterna con Dio con dei nuovi cieli e la nuova terra, il compimento finale del Piano di Dio.
Questo brano, che la liturgia ci presenta, tratto dal capitolo 12, si può dire è la pagina più bella dell’Apocalisse:
«Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle...».
L’intero capitolo è dominato anche da un altro “segno”, quello di un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra, ed è tutto intarsiato di allusioni a testi biblici.

Sono state date nel tempo numerose e valide interpretazioni, la più comune è quella che identifica nella donna, Maria che genera il Cristo. In realtà il pensiero di Giovanni è probabilmente orientato in altra direzione. La donna simboleggia anche il popolo di Dio, prima l’antico Israele, da cui Gesù ha preso carne, l’altro il nuovo Israele, la Chiesa, corpo di Cristo. Entrambi sono alle prese con le persecuzioni del dragone, cioè di Satana, qui descritto con simboli del dominio. Il bimbo maschio, dato alla luce dalla Donna, è evidentemente il Messia, visto nella sua realtà storica.
In questo testo sia S.Agostino che S.Bernardo hanno visto nella Donna dell’Apocalisse il simbolo di Maria, come altri testi sacri che richiamano il mistero della Chiesa, possono essere applicati alla Vergine Maria, in quanto il vero mistero che la circonda, s’inserisce nel mistero della Chiesa e insieme lo illumina, come lo ha sottolineato il Concilio Vaticano II.

Salmo 44 - Risplende la Regina, Signore, alla tua destra.
Figlie di re stanno fra le tue predilette;
alla tua destra sta la regina, in ori di Ofir.

Ascolta, figlia, guarda, porgi l'orecchio,
dimentica il tuo popolo
e la casa di tuo padre.
Il re è invaghito della la tua bellezza.
E’ lui il tuo Signore: rendigli omaggio.

Dietro a lei le vergini sue compagne
Condotte in gioia ed esultanza;
guidate in gioia ed esultanza,
sono presentate nel palazzo del re.

Questo salmo per essere compreso ha bisogno di una precisazione teologica. I re di dinastia davidica erano delle figure del futuro re, il Messia. Così il salmo guarda al futuro Messia mentre celebra le nozze di un re d’Israele. Le lodi che lo scriba presenta al re hanno come ultimo traguardo il Cristo.
Le nozze sono quelle tra Salomone e la figlia del re di Tiro. Non esiste nella storia biblica o extrabiblica una menzione di queste nozze, ma si sa che Davide e poi Salomone ebbero stretti contatti d’amicizia con il re di Tiro circa la costruzione del Tempio, e del resto nel salmo si parla di Tiro, e della “figlia del re”.
Il salmista è uno scriba che ha composto un poema di lode e lo recita davanti al re. Le sue lodi sono splendide, non protocollari, egli celebra nel re il futuro Messia. Tutte le nozze del re Salomone con la figlia del re di Tiro, diventano figura della azioni future del Messia e in questo senso pieno vanno lette.

Lo scriba è pieno di gioia, lodando il re sa di compiere un atto che termina nella lode a Dio.
Il re è detto “il più bello tra i figli dell’uomo”. Bello di una bellezza divina il Cristo. Sulle sue “labbra è diffusa la grazia”, cioè la parola sapiente, la giustizia nel governare, la promozione dell’osservanza alla Legge. “Dio ti ha benedetto per sempre”, perché non ritirerà mai il suo favore alla casa di Davide (2Sam 7,12).

Lo scriba invita il re, chiamato prode, a cingersi la spada al fianco per combattere i suoi nemici, che vogliono ostacolare il suo lottare (“cavalca”) per la causa “della verità, della mitezza e della giustizia”. Così Cristo avanzerà nel mondo per mezzo della verità - lui la Verità -, della mitezza e della giustizia. Egli colpirà alla fine i suoi nemici con la spada della sua condanna (Ps 2,9; Ap 19,15).
Lo scriba afferma che il trono del re dura per sempre, poiché esso è destinato al futuro Messia. Il re è chiamato Dio, perché fa le veci di Dio, ma sarà veramente Dio nel futuro Messia.
“Scettro di rettitudine è il tuo scettro regale”, dice lo scriba. "Di rettitudine" perché fondato sulla Legge, che ha per sostanza l’amore.

Egli, il re, è stato consacrato tale “con olio di letizia”, a preferenza dei suoi uguali, cioè dei suoi fratelli discendenti di Davide. Cristo sarà consacrato re per opera dello Spirito Santo nel Giordano, sarà lui consacrato re tra tutti i discendenti di Davide (Lc 1,32); egli che sarà riconosciuto per la fede nella sua realtà di Figlio di Dio.
Le vesti del re emanano profumi, secondo l’uso orientale. Il profumo indica l’amabilità della persona. C’è festa attorno a lui: “Da palazzi d’avorio ti rallegri il suono di strumenti a corda”. Palazzi d’avorio perché ricchi di mobili intarsiati d’avorio. E’ la festa per lui. E’ la celebrazione della grandezza che ha ricevuto da Dio. Cristo è ben degno che dalle regge dei re si innalzi la celebrazione della sua grandezza, che sorpassa all’infinito ogni grandezza (Cf. Fil 2,9).

Lo scriba fa menzione dell’harem del re, fatto di figlie di re, segno della influenza tra i popoli. I popoli si sono alleati con lui dando a lui le figlie dei re. Ma alla destra del re c’è la regina. Questa regina viene dai pagani. E’ la figlia del re di Tiro, ma è invitata a lasciare ogni ricordo del suo popolo e della sua casa. Così la Chiesa viene anche dai pagani. E i pagani porteranno al Cristo le loro ricchezze: “Gli abitanti di Tiro portano doni”. Mentre “i più ricchi del popolo (Israele)” cercano il favore del re.

Certo Israele si aprirà a Cristo e i più ricchi di dottrina in Israele cercheranno di essere graditi al Re dei re, e ne guarderanno il volto pronti ad obbedire alla sua parola.
La regina è presentata in tutto il suo splendore; è la donna che l’Apocalisse presenta avvolta nel sole (12,1).
Le “vergini, sue compagne”, che facevano corolla alla figlia del re di Tiro, entrano anch’esse nel palazzo regale, diventando partecipi della sua gioia.
Il salmista alla fine della sua composizione guarda decisamente al futuro Messia. Ai suoi padri, cioè ai capi delle dodici tribù d’Israele succederanno “i tuoi figli”, cioè i dodici apostoli, che saranno, nel loro essere a fondamento della Chiesa, capi di tutta la terra.La grandezza, la gloria del Cristo sarà ricordata da tutte le generazioni; e tutti i popoli lo “loderanno in eterno, per sempre”.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla 1^ lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti.
Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita. Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo.
Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza.
E’ necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi
1Cor 15,20-27

Paolo scrisse intorno al 53 a.C., da Efeso, questa 1^ lettera ai Corinzi, che è considerata una delle più importanti dal punto di vista dottrinale. Vi si trovano infatti informazioni e decisioni su numerosi problemi cruciali del Cristianesimo primitivo, sia per la sua "vita interna": purezza dei costumi, svolgimento delle assemblee religiose e celebrazione dell'eucaristia, uso dei carismi, sia per i rapporti con il mondo pagano.
Nell’ultimo capitolo della lettera Paolo, rispondendo a problemi che gli avevano posto, affronta il tema della risurrezione finale dei credenti. Nella prima parte egli dimostra la sua tesi sulla risurrezione finale (vv. 1-34), nella seconda (vv. 35-53) ne illustra invece le modalità; egli conclude la sua esposizione con un inno di lode a Cristo vincitore della morte (vv. 54-58).
Il rifiuto della risurrezione dei credenti porterebbe all’assurdo di negare di conseguenza anche la risurrezione stessa di Cristo. Ma questo metterebbe in crisi la loro fede stessa perciò Paolo riafferma il punto centrale di questa fede: ”Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”

Per Paolo la risurrezione di Cristo è una primizia non solo perché precede la risurrezione di tutti i credenti, ma anche e soprattutto perché ne è il modello e la causa. Il concetto di “primizia” viene ulteriormente elaborato da Paolo alla luce della concezione biblica secondo cui i membri di un gruppo formano una sola cosa con colui che ne è il capo e che li rappresenta. Rifacendosi a questa concezione Paolo afferma in due frasi disposte in modo parallelo che, come la morte è originata da un uomo, altrettanto deve essere per la risurrezione; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo.
In quanto solidale con Adamo l’umanità fa fin d’ora l’esperienza della morte mentre la risurrezione dai morti invece per ora si è attuata solo in Cristo. La risurrezione finale dei credenti è dunque una conseguenza della comunione con Cristo, di cui la solidarietà in Adamo appare solo come una realtà negativa ormai passata.

A questo punto l’apostolo sente di dover fare una precisazione circa i tempi della salvezza. Egli afferma: “Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo”. Tra la risurrezione di Cristo, che è un evento già attuato, e quella dei credenti, che avrà luogo alla fine, c’è non solo una diversità di tempo, ma anche di “ordine”. Questa diversità proviene dal fatto che Cristo è la “primizia”: la Sua risurrezione prelude perciò a quella dei credenti, la quale però avrà luogo solo “alla sua venuta”, cioè al momento del Suo ritorno glorioso.

Nella seconda parte del brano Paolo collega strettamente il regno di Cristo con il regno di Dio, mettendo in luce il loro avvicendarsi nel piano della salvezza. Egli ritiene che con la risurrezione di Cristo abbia avuto inizio il Suo regno messianico, che deve durare fino alla fine, quando egli “consegnerà il regno a Dio Padre” e ciò non avverrà però prima che Egli abbia “ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza”. Paolo sottolinea espressamente che l’ultimo nemico ad essere annientato sarà proprio la morte, la cui sconfitta avrà luogo appunto mediante la risurrezione dei morti. Se Cristo non fosse capace di eliminarla, non sarebbe veramente il Signore nel quale la comunità professa la sua fede.

L’apostolo infine precisa (nel versetto successivo non riportato nel brano): “Quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche il Figlio sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” da questo “tutto” è escluso colui che gli ha sottomesso ogni cosa, cioè il Padre.
Nella prospettiva di Paolo l’attesa della risurrezione finale implica quindi la lotta, insieme con Cristo, contro tutte le realtà negative che condizionano la vita umana, quali l’ingiustizia, la violenza, lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.

È proprio la speranza della risurrezione, in quanto implica una salvezza che abbraccia tutte le cose create, che spinge il credente a non chiudersi nel suo individualismo, ma ad impegnarsi affinché il mondo nuovo promesso da Gesù cominci ad apparire già ora nel corso della storia.

Dal vangelo secondo Luca
In quei giorni, Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo! che devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. Allora Maria disse: “L'anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l'umiltà della sua serva.
D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e Santo è il suo nome:
di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio;
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia,
come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”.
Maria rimase con lei circa tre mesi,poi tornò a casa sua.
Lc 1, 39-56

In questo brano Luca sembra dipingere a parole l’episodio della Visitazione, che è il mistero della comunicazione muta di due donne diverse per età, ambiente, caratteristiche.
Maria ha saputo dall’angelo che Elisabetta, “che tutti dicevano sterile” aspettava un bambino. A questa notizia ella decide immediatamente di recarsi da lei: “In quei giorni, Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda”. La fretta con cui Maria intraprende questo viaggio rispecchia la sua fede e la sua completa disponibilità al piano divino. Per recarsi da Elisabetta Maria attraversa una delle regioni montagnose che circondano Gerusalemme e raggiunge una “città di Giuda” che la tradizione individua con il villaggio di Ein Karim, a 6 Km ad ovest di Gerusalemme.

“Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo”
Con la discesa dello Spirito su Elisabetta si attua la promessa dell’angelo a Zaccaria: sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre (Lc 1,15). Per bocca di sua madre è lo stesso Giovanni che dà inizio al suo compito profetico di annunziare la venuta del Messia, infatti proprio sotto l’azione dello Spirito Elisabetta
esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo!”

La frase ispirata di Elisabetta è una duplice benedizione. Anzitutto ella dichiara Maria “benedetta tra le donne”, cioè dotata di una benedizione superiore a quella delle altre donne. E soggiunge: che devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo.” Per la prima volta Gesù viene designato qui come “Signore” e ciò sotto l’influsso dello Spirito.

Infine Elisabetta conclude: E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. Mentre Zaccaria non aveva avuto fede (Lc. 1,20), Maria ha creduto alla parola di Dio, come aveva fatto Abramo (Gen 15,6). La storia, guidata da Dio sotto il segno della Provvidenza, trova in lei il suo compimento. A queste parole il cuore di Maria si apre alla gioia ed ella rende grazie a Dio pronunziando un inno che, dalla parola iniziale nella traduzione latina, viene chiamato «Magnificat».

Nei primi versetti Maria dice:”L'anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l'umiltà della sua serva. D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e Santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono.”Maria si rivolge a Dio come suo «salvatore» e gli esprime la sua esultanza e la sua lode per i benefici di cui l’ha colmata. Il primo motivo di questa esultanza consiste nel fatto che ha guardato l'umiltà della sua serva. cioè ha operato una scelta preferendo proprio colei che, per la sua “umiltà” può essere paragonata a una serva. E come serva si era già dichiarata Maria nella risposta all’angelo nell’evento dell’annunciazione

Maria fa poi una considerazione generale circa il suo futuro destino affermando che,in forza della chiamata divina, d’ora in poi tutte le generazioni la diranno beata: l’esaltazione di Maria si estenderà dunque senza limiti di tempo e di spazio. Da questa constatazione Maria passa poi di nuovo ad esaltare l’iniziativa divina a suo riguardo: il Potente ha fatto per lei grandi cose; con ciò ha dimostrato che il Suo nome è santo e che la Sua misericordia si estende “di generazione e generazione” in favore di quelli che lo temono. La santità del nome divino si manifesta appunto nelle opere che Egli compie per la liberazione del Suo popolo.

Nei versetti seguenti il canto di lode diventa più ampio : Ha spiegato la potenza del suo braccio;
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Con queste parole Maria mostra che quanto Dio ha fatto in suo favore non è altro che un esempio di come egli guida le vicende del mondo. Anzitutto Maria esalta la potenza che ha dimostrato stendendo il suo braccio (Es 6,6) e disperdendo i superbi nei “pensieri del loro cuore”, cioè nei loro progetti di grandezza. Poi prosegue con due parallelismi contrapposti: ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili, cioè quelli privi di potere, ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato a mani vuote i ricchi.

Gli ultimi versetti contengono un’esaltazione dell’opera di salvezza che Dio ha attuato in favore del Suo popolo:Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”.
Maria ricorda l’aiuto dato da Dio ad Israele Suo servo come manifestazione della sua misericordia e come adempimento delle promesse fatte ai padri: in questa versetto la mente va ancora una volta al tema del servo, che accomuna Maria e Israele; l’accenno alla “discendenza” di Abramo non poteva non ricordare a noi cristiani la figura di Gesù, in funzione del quale erano state fatte le promesse (il concetto lo riprende Paolo nella lettera ai Galati 3,16).
Al termine del Magnificat Luca annota: Maria rimase con lei circa tre mesi,poi tornò a casa sua.
in questo modo termina il racconto della visita ad Elisabetta.
Per riassumere si può dire che il canto del Magnificat è la celebrazione gioiosa e riassuntiva di tutta la storia della salvezza che da Maria, nella quale trova compimento, viene ripresa e rifatta nelle sue tappe risalendo fine alle origini. Questa storia, che sconvolge le situazioni umane, è condotta da Dio senza interruzioni, con il criterio dell’amore misericordioso che non conosce fine.

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La pagina evangelica dell’odierna festa dell’Assunzione di Maria al cielo descrive l’incontro tra Maria e la cugina Elisabetta, sottolineando che «Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda»
In quei giorni, Maria correva verso una piccola città nei pressi di Gerusalemme per incontrare Elisabetta. Oggi, invece, la contempliamo nel suo cammino verso la Gerusalemme celeste, per incontrare finalmente il volto del Padre e rivedere il volto del suo Figlio Gesù. Tante volte nella sua vita terrena aveva percorso zone montuose, fino all’ultima tappa dolorosa del Calvario, associata al mistero della passione di Cristo. Oggi la vediamo giungere alla montagna di Dio, «vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle» (Ap 12,1) - come dice il libro dell’Apocalisse - e la vediamo varcare le soglie della patria celeste.

È stata la prima a credere nel Figlio di Dio, ed è la prima ad essere assunta in cielo in anima e corpo. Per prima ha accolto e preso in braccio Gesù quando era ancora bambino, ed è la prima ad essere accolta dalle sue braccia per essere introdotta nel Regno eterno del Padre. Maria, umile e semplice ragazza di un villaggio sperduto nella periferia dell’impero romano, proprio perché ha accolto e vissuto il Vangelo, è ammessa da Dio a stare per l’eternità accanto al trono del Figlio. È così che il Signore rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili (cfr Lc 1, 52).

L’Assunzione di Maria è un mistero grande che riguarda ciascuno di noi, riguarda il nostro futuro. Maria, infatti, ci precede nella strada sulla quale sono incamminati coloro che, mediante il Battesimo, hanno legato la loro vita a Gesù, come Maria legò a Lui la propria vita. La festa di oggi ci fa guardare al cielo, preannuncia i “cieli nuovi e la terra nuova”, con la vittoria di Cristo risorto sulla morte e la sconfitta definitiva del maligno. Pertanto, l’esultanza dell’umile fanciulla di Galilea, espressa nel cantico del Magnificat, diventa il canto dell’umanità intera, che si compiace nel vedere il Signore chinarsi su tutti gli uomini e tutte le donne, umili creature, e assumerli con sé nel cielo.

Il Signore si china sugli umili, per alzarli, come proclama il cantico del Magnificat. Questo canto di Maria ci porta anche a pensare a tante situazioni dolorose attuali, in particolare alle donne sopraffatte dal peso della vita e dal dramma della violenza, alle donne schiave della prepotenza dei potenti, alle bambine costrette a lavori disumani, alle donne obbligate ad arrendersi nel corpo e nello spirito alla cupidigia degli uomini. Possa giungere quanto prima per loro l’inizio di una vita di pace, di giustizia, di amore, in attesa del giorno in cui finalmente si sentiranno afferrate da mani che non le umiliano, ma con tenerezza le sollevano e le conducono sulla strada della vita, fino al cielo. Maria, una fanciulla, una donna che ha sofferto tanto nella sua vita, ci fa pensare a queste donne che soffrono tanto. Chiediamo al Signore che Lui stesso le conduca per mano e le porti sulla strada della vita, liberandole da queste schiavitù.

E ora ci rivolgiamo con fiducia a Maria, dolce Regina del cielo, e le chiediamo: «Donaci giorni di pace, veglia sul nostro cammino, fa che vediamo il tuo Figlio, pieni della gioia del Cielo» (Inno dei Secondi vespri).
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 15 agosto 2016

 

Venerdì, 11 Agosto 2017 07:08

XIX Domenica – Anno A –13 agosto 2017

Le letture di questa domenica presentano scene di teofania: il Signore viene incontro all’uomo specialmente nei momenti di necessità quando questi lo invoca con fede.

Nella prima lettura, tratta dal primo libro dei Re, c’è il racconto di Elia che perseguitato a morte da Gezabele, fugge fino al monte Oreb, dove ha un incontro con il Signore, che lo incoraggia a riprendere la sua missione.

Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, Paolo, di fronte al rifiuto di Israele a riconoscere in Gesù il Messia, manifesta il suo profondo dolore fino ad accettare di essere separato da Cristo a vantaggio dei propri fratelli.

Il Vangelo di Matteo, ci presenta Gesù che cammina sulle acque. L’apostolo Pietro che aveva chiesto a Gesù di poterlo raggiungere, si fa vincere dalla paura di affogare e grida aiuto. Poi c’è quel gesto di Gesù che lo afferra per mano, e quel suo dolce rimprovero, che raggiunge anche noi: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».
Il brano lo possiamo vedere anche come un incontro di Gesù con la Sua Chiesa in difficoltà e anche con “poca fede”, rappresentata dal suo portavoce Pietro. La mano del Cristo glorioso, “Signore” dell’universo e della storia, dà sicurezza e infonde speranza e gioia alla Chiesa in crisi e in ricerca, sospesa sul caos del male o sul mare del dubbio. Quella mano stesa verso Pietro non è solo la sua salvezza, ma anche la nostra.

Dal primo libro dei Re
In quei giorni, Elia, [essendo giunto al monte di Dio, l’Oreb], entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini: «Esci e fèrmati sul monte alla presenza del Signore». Ed ecco che il Signore passò.
Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna.
1Re19,9.11-13

Elia,vissuto nel IX secolo a.C., fu un grande profeta che svolse la sua missione sotto Acab, re d'Israele, che regnò nella nuova capitale Samaria dall'875 all'854 a.C.. Elia risuscitò il figlio della vedova di Sarepta che lo ospitava durante una carestia; ultimo fedele al Dio di Abramo, sfidò e vinse i profeti del dio Baal sul monte Carmelo e dimostrò la potenza di Dio accendendo, con la preghiera, una pira di legna verde e bagnata, suscitando le ire della regina Gezabele, moglie di Acab, che voleva la sua morte. Elia impaurito fugge al sud, desideroso di lasciarsi morire. Ma un angelo del Signore interviene e lo invita a mangiare un cibo che appare in modo misterioso.

Il brano che abbiamo ci racconta che dopo essersi rifocillato, Elia viene esortato ad iniziare un cammino molto lungo e difficile, per arrivare ad una certa meta. Dopo 40 giorni e 40 notti Elia giunge all’Oreb-Sinai (cioè alla sorgente della fede e della storia di Israele) per rivivere così personalmente il cammino dell'esodo, come lo ricorda il numero quaranta.
Nella solitudine della montagna Elia cerca Dio nel vento impetuoso che squassa i monti, nel fuoco e nel terremoto, cioè secondo schemi personali e tradizionali. Infatti incendi, tempeste, terremoti ed eruzioni vulcaniche, erano la cornice popolare entro cui si verificavano le apparizioni divine. Isaia infatti afferma: Il Signore farà udire la sua voce maestosa e mostrerà come colpisce il suo braccio con ira ardente,in mezzo a un fuoco divorante,tra nembi, tempesta e grandine furiosa (Is 30,30) ed anche il salmo 29, il più antico. dice: Il Signore tuona sulle acque,il Dio della gloria scatena il tuono,il Signore, sull’immensità delle acque. Il Signore tuona con forza, tuona il Signore con potenza.
Ma questo Dio, sognato a propria immagine non si presenta all’appuntamento così con l’uomo. Dio infatti sceglie di presentarsi ad Elia nella tranquillità e nella pace, nel “sussurro di una brezza leggera *” E il profeta, velandosi il volto, “perché nessun uomo può vedere Dio e restare vivo” (Es 33,20) conosce che il Signore è semplicità, paziente e dolce presenza, spirito e vita.

* in ebraico qol demamah daqqah = Qol : vuol dire "voce, suono"; demamah : “silenzio” ;
daqqah “sottile” = Voce di silenzio sottile. Questo fa capire che Dio è una voce che ha il suo vertice, non nel clamore, bensì nel silenzio, nel mistero, nella trascendenza.

Salmo 84 - Mostraci, Signore, la tua misericordia.

Ascolterò che cosa dice Dio,
il Signore: egli annuncia la pace
per il suo popolo, per i suoi fedeli.
Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme,
perché la sua gloria abiti la nostra terra.

Amore e verità s’incontreranno,
giustizia e pace si baceranno.
Verità germoglierà dalla terra
e giustizia si affaccerà dal cielo.

Certo, il Signore donerà il suo bene
e la nostra terra darà il suo frutto;
giustizia camminerà davanti a lui:
i suoi passi tracceranno il cammino

Il salmista ricorda come Dio ha ricondotto "hai ristabilito la sorte di Giacobbe" da Babilonia. I peccati commessi Dio li ha perdonati, mettendo fine alla sua grande ira.
Questa memoria del perdono di Dio alimenta nel salmista la fiducia che Dio perdonerà le mancanze del popolo, che, ritornato nella Giudea, dimostra tiepidezza nei confronti di Dio e per questo incontra sofferenze (Cf. Ag 1,7).
Il salmista, fortificato dal ricordo della misericordia di Dio, innalza quindi la sua supplica: ”Ritorna a noi, Dio nostra salvezza, e placa il tuo sdegno verso di noi".
Il salmista passa a considerare le profezie, ad ascoltare “cosa dice Dio”, e conclude che Dio presenta un futuro di pace “per chi ritorna a lui con fiducia”. Egli guarda ai tempi messianici, e può dire che “la sua gloria abiti la nostra terra” (Is 60,1s); e che “amore e verità s'incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. “Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo”, quando verrà il Messia. La sua presenza farà si che “la nostra terra darà il suo frutto”, cioè il frutto di santità per il quale Israele è stato creato. Davanti al “bene” che Dio elargirà, cioè il Messia, “giustizia camminerà davanti a lui: i suoi passi tracceranno il cammino”.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, dico la verità in Cristo, non mento, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua.
Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne.
Essi sono Israeliti e hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen.
Rm 9,1-5

L’apostolo Paolo nella terza parte della lettera ai Romani (cc. 9-11), affronta la grande obiezione che poteva essere sollevata, contro la dottrina della giustificazione mediante la fede: come mai la salvezza portata da Gesù Cristo, non è stata accettata proprio dal popolo al quale per primo era stata promessa?
Paolo anzitutto dimostra che il modo in cui si è attuata la salvezza non mette in questione la fedeltà di Dio; poi sottolinea come sia stato proprio Israele a escludersi dalla salvezza per la sua infedeltà; infine egli mostra che di fatto, malgrado le apparenze, la salvezza non si attua senza la partecipazione del popolo di Israele.

In questo brano Paolo afferma: dico la verità in Cristo, non mento, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua.” Ciò che Paolo intende affermare con tanta forza è la grande sofferenza che prova dal più profondo del cuore. Si comprende che questo dolore deriva dal fatto che i suoi connazionali giudei sono in gran parte separati da Cristo.
Infatti egli vorrebbe essere persino anàtema,(scomunicato) separato da Cristo se ciò portasse qualche vantaggio a coloro che egli considera ancora come “fratelli” e suoi consanguinei “secondo la carne”.
Qui si potrebbe anche cogliere in Paolo il mistero stesso di Gesù, il suo inabissarsi nella povertà della condizione umana fino alla morte in croce.

Il distacco dei giudei da Cristo è tanto più doloroso per Paolo in quanto essi sono stati dotati di numerosi privilegi: essi hanno l’onore di chiamarsi e di essere “israeliti e hanno l’adozione a figli,” hanno sperimentato la presenza “la gloria” di Dio in mezzo a loro, “le alleanze”, spesso ripetute nel corso della storia sacra, “la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi.
Soprattutto da essi proviene Cristo “secondo la carne”, cioè in base alla sua origine naturale (1,3). C’è poi al termine del brano l’affermazione massima di Paolo nei confronti di Gesù: “egli è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen.” E’ rara l’attribuzione a Gesù del nome diretto di “Dio”, e qui Paolo lo dichiara.
Noi cristiani parliamo a volte genericamente di Dio, ma se siamo veramente cristiani dovremmo sempre affermare che per noi “Gesù è Dio”. Dovremmo avere il coraggio e l’ardire di gridare il Suo nome – di uscire allo scoperto manifestando la nostra fede in Gesù, “Dio benedetto nei secoli”.

Dal vangelo secondo Matteo
Dopo che la folla ebbe mangiato, subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo.
La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!».
Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».
Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».
Mt 14, 22-33

Questo brano del Vangelo di Matteo viene subito dopo l’evento della moltiplicazione dei pani e dei pesci. I discepoli e anche il popolo, sono sazi e soddisfatti, ma la loro soddisfazione umana non dura molto, Gesù li manda quasi via dall’altro lato del lago. Devono prendere la barca e andare lì da soli, mentre lui si ritira a pregare. A questo punto il racconto si sposta sui discepoli. Loro sono con la loro barca nel bel mezzo del lago di Gennesaret, sono lontani dalla riva e combattono contro le onde. Come pescatori conoscono benissimo il lago con tutte le sue correnti e sono ben abituati a navigare; le onde però hanno ora il sopravvento sulla barca, la situazione diventa difficile e Gesù non è con loro. Sul finire della notte capita l’imprevisto, Gesù va verso di loro camminando sulle acque, ma i discepoli non lo riconoscono e si spaventano da morire, e pensano prima a un fantasma e non al loro Signore. E come una volta l’angelo sul campo diceva ai pastori: “Non temete!” così parla adesso Gesù al gruppo dei dodici: “Coraggio, sono io; non abbiate paura!”

Ora l’attenzione si sposta su Pietro che chiede a Gesù di poterlo raggiungere sulle acque e all’invito di Gesù, Pietro è fuori dalla barca, che gli dava almeno un po’ di sicurezza (se lo vediamo con occhi umani) e si trova nel bel mezzo di un mare di paura. La barca è lontana, si sente solo, non trova più niente dove aggrapparsi, vede le onde che lo sommergono e inizia ad annegare. Con la paura di morire, chiede aiuto al suo Signore, che non fa sparire né le onde, né la tempesta, ma si rende subito presente, afferra la mano di Pietro e la tiene ben stretta. “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?” Questa volta Pietro non risponde, si tiene solo stretto alla mano di Gesù.
“Uomo di poca fede!” … Gesù non dice altro, ma va semplicemente insieme a Pietro nella barca vicino agli altri. Tutto si calma, il vento tace.
Il racconto termina con la reazione di coloro che erano sulla barca che si prostrarono dicendo: “Tu sei veramente il Figlio di Dio”.
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Quante volte nel mare della nostra la vita un vento impetuoso ci poteva fare affogare. Non scorgevamo intorno a noi nessuno che ci potesse aiutare per non finire nel buio, in un gorgo risucchiante. Come ultima speranza, la nostra fede, più piccola di un granello di senape, ci ha permesso di gridare: “Signore Gesù salvami!” Ed è proprio là che il Signore Gesù ci ha raggiunto, al centro di quella nostra debole fede. Ci ha raggiunto: non ha puntato il dito per accusarci, ma ci ha teso la mano per afferrare la nostra, e tramutare la nostra paura in abbraccio.

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Origene, (II-III sec) riguardo a questo brano ha lasciato questo commento:

“Se un giorno ci troveremo alle prese con inevitabili e implacabili tentazioni, ricordiamoci che Gesù ci ha obbligati ad imbarcarci
e vuole che da soli lo precediamo sulla riva opposta.
Quando, in mezzo alle tempeste delle sofferenze, avremo passato tre quarti dell’oscura notte che regna nei momenti della tentazione, lottando il meglio possibile e sorvegliando per evitare il naufragio della fede, siamo sicuri che, al sopragggiungere dell’ultimo quarto di notte, quando la tenebra sarà ormai avanzata e il giorno vicino, accanto a noi arriverà il Figlio di Dio, per renderci il mare benigno, camminando sui flutti.
E anche noi cammineremo con lui sulle onde della tentazione, del dolore e del male”
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Il Vangelo di oggi ci presenta l’episodio di Gesù che cammina sulle acque del lago. Dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, Egli invita i discepoli a salire sulla barca e a precederlo all’altra riva, mentre Lui congeda la folla, e poi si ritira tutto solo a pregare sul monte fino a tarda notte.
E intanto sul lago si leva una forte tempesta, e proprio in mezzo alla tempesta Gesù raggiunge la barca dei discepoli, camminando sulle acque del lago. Quando lo vedono, i discepoli si spaventano, pensano a un fantasma, ma Lui li tranquillizza: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». Pietro, col suo tipico slancio, gli chiede quasi una prova: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque»; e Gesù gli dice «Vieni!». Pietro scende dalla barca e si mette a camminare sulle acque; ma il vento forte lo investe e lui comincia ad affondare. Allora grida: «Signore, salvami!», e Gesù gli tende la mano e lo solleva.
Questo racconto è una bella icona della fede dell’apostolo Pietro. Nella voce di Gesù che gli dice: «Vieni!», lui riconosce l’eco del primo incontro sulla riva di quello stesso lago, e subito, ancora una volta, lascia la barca e va verso il Maestro. E cammina sulle acque! La risposta fiduciosa e pronta alla chiamata del Signore fa compiere sempre cose straordinarie. Ma Gesù stesso ci ha detto che noi siamo capaci di fare miracoli con la nostra fede, la fede in Lui, la fede nella sua parola, la fede nella sua voce. Invece Pietro comincia ad affondare nel momento in cui distoglie lo sguardo da Gesù e si lascia travolgere dalle avversità che lo circondano. Ma il Signore è sempre lì, e quando Pietro lo invoca, Gesù lo salva dal pericolo. Nel personaggio di Pietro, con i suoi slanci e le sue debolezze, viene descritta la nostra fede: sempre fragile e povera, inquieta e tuttavia vittoriosa, la fede del cristiano cammina incontro al Signore risorto, in mezzo alle tempeste e ai pericoli del mondo.

È molto importante anche la scena finale. «Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a Lui, dicendo: “Davvero tu sei Figlio di Dio”!» . Sulla barca ci sono tutti i discepoli, accomunati dall’esperienza della debolezza, del dubbio, della paura, della «poca fede». Ma quando su quella barca risale Gesù, il clima subito cambia: tutti si sentono uniti nella fede in Lui. Tutti piccoli e impauriti, diventano grandi nel momento in cui si buttano in ginocchio e riconoscono nel loro maestro il Figlio di Dio. Quante volte anche a noi accade lo stesso!

Senza Gesù, lontani da Gesù, ci sentiamo impauriti e inadeguati al punto tale da pensare di non potercela fare. Manca la fede! Ma Gesù è sempre con noi, nascosto forse, ma presente e pronto a sostenerci.
Questa è una immagine efficace della Chiesa: una barca che deve affrontare le tempeste e talvolta sembra sul punto di essere travolta. Quello che la salva non sono le qualità e il coraggio dei suoi uomini, ma la fede, che permette di camminare anche nel buio, in mezzo alle difficoltà. La fede ci dà la sicurezza della presenza di Gesù sempre accanto, della sua mano che ci afferra per sottrarci al pericolo. Tutti noi siamo su questa barca, e qui ci sentiamo al sicuro nonostante i nostri limiti e le nostre debolezze
Siamo al sicuro soprattutto quando sappiamo metterci in ginocchio e adorare Gesù, l’unico Signore della nostra vita.
A questo ci richiama sempre la nostra Madre, la Madonna. A lei ci rivolgiamo fiduciosi..
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 10 agosto 2014

Le liturgia di oggi ci offre la contemplazione della Trasfigurazione del Signore. Per gli orientali il 6 agosto rappresenta la Pasqua dell’estate per l’importanza dell’avvenimento ricordato nel Vangelo. Questa festa fu estesa all’Occidente nel 1456 da Papa Callisto III in ricordo di una vittoria sull’Islam.

Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Daniele, viene raccontata la visione del profeta “di uno simile ad un figlio d’uomo” rivestito di potere e di gloria, che prefigura il Cristo trasfigurato e risorto, nello splendore della sua regale divinità.

Nella seconda lettura, tratta dalla seconda lettera di S.Pietro apostolo, c’è la testimonianza stessa di Pietro riguardo l’evento della Trasfigurazione. L’evento è stato per lui una conferma di ciò che i profeti avevano preannunciato.

Nel Vangelo di Matteo troviamo il racconto della Trasfigurazione di Gesù, il cui significato si coglie pienamente solo alla luce della fede pasquale, a cui si riferisce l’esortazione finale di Gesù: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti». Dio stesso manifesta la vera identità di Gesù, la cui umanità viene momentaneamente trasfigurata e avvolta dalla luce radiosa della divinità, quale anticipazione della sua gloria pasquale.

Dal libro del profeta Daniele
Io continuavo a guardare,quand’ecco furono collocati troni e un vegliardo si assise.
La sua veste era candida come la neve e i capelli del suo capo erano candidi come la lana; il suo trono era come vampe di fuoco con le ruote come fuoco ardente. Un fiume di fuoco scorreva e usciva dinanzi a lui, mille migliaia lo servivano e diecimila miriadi lo assistevano.
La corte sedette e i libri furono aperti.
Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto
Dn 7,9-10.13-14

Il Libro del profeta Daniele è un testo contenuto nella Bibbia ebraica e cristiana. È stato scritto in ebraico e una parte in aramaico e secondo molti studiosi, la redazione definitiva del libro è avvenuta in Giudea attorno al 164 a.C.. È composto da 12 capitoli che descrivono le vicende ambientate nell'esilio di Babilonia (587-538 a.C.) del profeta Daniele, saggio ebreo che rimase fedele a Dio, e visioni apocalittiche preannuncianti il figlio dell’Uomo-Messia e il regno di Dio.

Nel testo si cerca di intravedere il senso della storia come si presenta ai credenti nel Dio d'Israele, nel II secolo a.C.. Il capitolo 7, da dove è tratto il brano liturgico, inizia con la visione apocalittica di quattro bestie che sorgono dall'oceano, il luogo del caos e del male. Le bestie rappresentano il dominio e il potere di quattro regni che si sono succeduti nel Medio Oriente e di cui è stato testimone il popolo d'Israele nel suo cammino faticoso: il leone che rappresenta Babilonia, l'orso che rappresenta il popolo della Media, il leopardo con quattro teste che è simbolo dei Persiani che scrutano in ogni direzione in cerca della preda, la quarta bestia, un mostro terribile, che richiama il regno di Alessandro Magno e dei suoi successori.

Israele sta vivendo un tempo angoscioso in cui si ribella e tenta di conquistarsi una libertà, combattendo l'oppressione culturale e religiosa di Antioco IV Epifane (175-164 a.C.).
Nella visione, Daniele intravede il giudizio finale come un grande processo da parte di Dio, un vegliardo, che pronuncia la sentenza contro le bestie che opprimono il mondo con la violenza. Poi continua:“Guardando ancora nelle visioni notturne,ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo;

Perciò questo figlio dell’uomo non viene dal caos, dall'abisso, ma dal cielo, ed è portatore di speranza e di accoglienza, è semplicemente "uomo" ma viene nel mondo come risolutore della speranza di un popolo,
Egli giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto.

Egli è un uomo che rappresenta Israele e che prenderà il posto rimasto vacante dalla caduta degli imperi e porterà finalmente la pace ed il benessere. Sottometterà tutti i popoli come i regni precedenti, ma viene da Dio, e da Dio riceve i poteri per regnare con giustizia poiché il Signore gli avrà riconosciuto potenza e forza su tutti i regni della terra.
Su questa attesa la guerra partigiana dei Maccabei incomincia e si sviluppa con vicende via via più promettenti, fino a pensare che si possa arrivare, non solo alla indipendenza ma anche al dominio del mondo come, del resto, lo sono state altre nazioni. Purtroppo però, anche i vincitori ebrei non sanno mantenere salda l'alleanza con Dio e rientrano anche loro nella prospettiva del potere mantenuto con violenza, oppressione, intrighi e crudeltà.

La profezia di Daniele, tuttavia, continua a mantenere la speranza e il tempo di Gesù è particolarmente maturo per vedere realizzate queste attese. Infatti , Gesù applicherà a se stesso l'espressione "figlio dell'uomo", mettendovi dentro sia l'aspetto più umano della sofferenza (Lc 22,22), sia quello più divino della facoltà di rimettere i peccati (Lc 5,24), sia quello conclusivo della storia (escatologico) del giudizio finale (Lc 21,27.36).

Salmo 96 - Il Signore regna, il Dio di tutta la terra
Il Signore regna: esulti la terra,
gioiscano le isole tutte.
Nubi e tenebre lo avvolgono,
giustizia e diritto sostengono il suo trono

I monti fondono come cera davanti al Signore,
davanti al Signore di tutta la terra.
Annunciano i cieli la sua giustizia,
e tutti i popoli vedono la sua gloria

Perché tu, Signore,
sei l’Altissimo su tutta la terra,
eccelso su tutti gli dèi.

Il salmo comincia con la proclamazione della regalità attiva di Dio. Tutta la terra è invitata all'esultanza, come pure le isole lontane (i lidi) del Mediterraneo (Cf. Ps 71,10; Is 42,4.10.12: 66,19).
Dio è visto in un trono sulle nubi, che in tempesta trasvolano i territori delle nazioni; egli è Dio dell'universo. Il tema di Dio che avanza nella tempesta è già noto al salterio (Ps 17; 28). La sua avanzata è irresistibile, possente, niente può resistere, la sua potenza è al servizio del suo diritto di sovrano e alla sua giustizia: “Un fuoco cammina davanti a lui e brucia tutt'intorno i suoi nemici. Le sue folgori rischiarano il mondo: vede e frema la terra. I monti...”.

La tempesta, gloria del Signore che trasvola sovrana i territori, smentisce gli adoratori di statue, che si rivolgono a pietre scolpite: Dio è vivo, unico, ed è sovrano di tutto.
Il salmista con impeto invoca che "si vergognino tutti gli doratori di statue e chi si vanta del nulla degli idoli”; e con l'immagine poderosa degli dei che si prostrano a Dio chiede che i culti idolatrici si liberino dalle loro menzogne e si indirizzino al vero ed unico Dio: “A lui si prostrino tutti gli dei!”. “Perché tu, Signore, sei l'Altissimo su tutta la terra, eccelso su tutti gli dei” afferma il salmista, volendo dire che i demoni che agiscono all'ombra degli idoli, sono i bassissimi, davanti a colui che è l'Eccelso, l'Altissimo.
Dio è potente e i suoi fedeli saranno strappati dalle mani degli empi che impongono i loro idoli, cioè dagli Assiri e dagli Egiziani, che operavano nell'area Palestinese: “Egli custodisce la vita dei suoi fedeli, li libererà dalle mani dei malvagi”.

La battaglia contro gli idoli adorati dai malvagi è condotta da Dio per mezzo di un re che è punto di riferimento per i giusti: “una luce è spuntata per il giusto”. Questa luce è identificabile con il re di Gerusalemme Giosia (640-609 a.C.), che condusse in Israele una decisa campagna contro l'idolatria (2Re 22,1s). Egli è una figura di Cristo.
Noi, Chiesa, non abbiamo solo di fronte genti che adorano idoli di pietra o legno o metallo; noi abbiamo in occidente anche idoli-uomo, che vengono adorati dalle folle. Questi falsi dei in carne e ossa “si prostrino a Dio”. Rallegriamoci, noi, che siamo in Cristo, che apparteniamo alla Chiesa, di cui Sion è una figura. Amiamo Gesù Cristo, “egli custodisce la vita dei suoi fedeli”; egli ci libera “dalle mani dei malvagi”; lui, che regna e che viene sulle nubi del cielo (Cf. Mt 24,30; 26,64) a vincer per mezzo della Chiesa le fortezze del peccato, per poi un giorno venire lui stesso a porre fine agli empi della terra con la fine del mondo (Cf. Gl 2,1s; Sof ,1-3; Ap 1,14).
Commento di P.Paolo Berti

Dalla seconda lettera di S.Pietro apostolo
Carissimi, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro
Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate,
ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza.
Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria:
«Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento».
Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul
santo monte. E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate
bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché
non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino.
2Pt 1,16-19

La seconda lettera di Pietro è probabilmente l’ultimo scritto, in ordine di tempo, del Nuovo Testamento, e come la prima lettera, è tradizionalmente attribuita a San Pietro, ma molti esperti hanno ritenuto che sia stata scritta da un altro autore che aveva preso lo pseudonimo di Pietro, che tra la fine del I secolo e l'inizio del II aveva raccolto e messo per iscritto il pensiero di Pietro a favore dei cristiani dell'Asia Minore provenienti dal paganesimo. In questa comunità si erano introdotti alcuni falsi maestri che interpretavano le scritture in modo da giustificare la propria condotta immorale e deridevano coloro che attendevano la seconda venuta del Signore. La lettera assume toni molto forti, in modo da riportare i cristiani alla retta dottrina.
Il brano che la liturgia propone oggi è stato scelto poiché Pietro porta a sostegno delle sue argomentazioni l'evento della Trasfigurazione di Cristo, a cui lui stesso aveva assistito..
Egli si appella alla forza del Vangelo che è stato proclamato ed afferma che non si tratta di favole artificiosamente inventate, cioè le dottrine che circolavano in quel periodo nell'ambiente greco e giudaico e si riferivano soprattutto alla fine del mondo.

Proprio contro queste dottrine, Pietro fa appello a un fatto straordinario di cui è stato testimone lui stesso ed afferma: Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria:«Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento».
Il fatto prodigioso è la trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor. Non solo egli manifestò tutta la Sua gloria e il Suo splendore, ma il Padre con la Sua voce dal cielo lo ha dichiarato Figlio amato e oggetto di compiacimento. Gesù nella trasfigurazione ricevette onore e gloria dal Padre e con questo si sottolinea che in Lui la maestà e la divinità nascoste furono rivelate dal Padre stesso, pertanto quando gli apostoli annunciano che Cristo ritornerà con grande maestà e gloria, non inventano favole.

Poi Pietro continua commentando: Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte. L'essere stati testimoni di questa manifestazione della gloria di Gesù e aver sentito la Sua glorificazione da parte del Padre, è una garanzia per gli apostoli che la loro predicazione non è stata inventata, e non è certo una favola.
E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino.
L’evento è stato per Pietro una conferma di ciò che i profeti avevano predetto. Accettare quindi la testimonianza dei profeti, cioè delle Scritture, per conoscere il Cristo, non è fondare la propria fede sui miti, ma sulla stessa Parola di Dio che come una lampada nella notte ha aiutato ed aiuta i credenti a mantenere viva la propria fede.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.
Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube
che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».
All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».
Mt 17,1-9

Questo brano del Vangelo di Matteo, che viene dopo la confessione di Pietro, il primo annunzio della Passione, e le condizioni per seguire Gesù, inizia con questa precisazione:, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. Anche se non è specificato, si è sempre pensato che il monte fosse il Tabor, comunque, trattandosi di una scena simbolica, ciò che conta non è il luogo ma il significato della parola “monte”, che esprime la vicinanza a Dio: (su un monte hanno avuto luogo secondo Matteo la tentazione di Gesù (4,8), il discorso inaugurale (5,1) e le apparizioni del Risorto (28,16).

Matteo poi ci riporta che: “E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.” Per spiegare la nuova forma assunta da Gesù, Matteo aggiunge il dettaglio del volto splendente come il sole, mentre per quanto riguarda le sue vesti afferma che esse divennero bianche, ma come secondo termine di paragone prende la luce e non l’opera del lavandaio, come fa Marco.
Alla trasfigurazione di Gesù fa seguito l’apparizione di due personaggi biblici, Mosè ed Elia La presenza dei due personaggi esprime la totalità della rivelazione veterotestamentaria (Legge e Profeti). Il racconto prosegue con la reazione dei discepoli: “Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Pietro interviene anche a nome anche degli altri due discepoli presenti, e chiama Gesù “Signore” (Kyrios) e non “rabbi”, come riferisce Marco, mettendo così più in luce la trascendenza. Infine Matteo evita di mettere in cattiva luce Pietro omettendo l’osservazione riportata da Marco circa lo stato confusionale in cui si trovava per la paura.
Si può osservare però che la tenda richiama il luogo in cui Mosè riceveva gli oracoli del Signore (Es 33,7-11) e su questo sfondo l’intenzione di fare tre tende potrebbe significare il desiderio di mettere Gesù sullo stesso piano dei due personaggi biblici, rinchiudendo così la sua persona e il suo messaggio nell’ottica dell’AT.
Improvvisamente la scena cambia: Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».

La nube (solo per Matteo è “luminosa”) indica la presenza di Dio, la sua shekinâ o la sua Gloria, che in passato aveva accompagnato il popolo nel deserto (Es 13,21), aveva preso dimora nella Tenda costruita da Mosè (Es 40,34-35) e successivamente aveva riempito il tempio eretto da Salomone. La voce dalla nube contiene una dichiarazione cristologica: Gesù racchiude in sé le prerogative di Messia, Servo e profeta. Mosè ed Elia ormai hanno finito il loro compito, solo Gesù resta come intermediario tra Dio e l’umanità.
Matteo aggiunge al racconto di Marco un accenno alla reazione dei discepoli All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.
Il loro atteggiamento esprime il sacro timore che invade l’uomo di fronte a Dio, e la reazione dei discepoli rievoca quella di tutto Israele all’apparire della nube all’ingresso della tenda dove il Signore “parlava con Mosè faccia a faccia” (Es 33,10).
Riprendendo il racconto di Marco, Matteo soggiunge che essi, alzando gli occhi, non videro nessuno “se non Gesù solo”. La scomparsa di Mosè e di Elia mette in luce il ruolo unico che compete a Gesù nel piano di salvezza.

Il racconto termina con le parole di Gesù, Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».
Con la Sua trasfigurazione Gesù ha voluto attenuare il timore dei discepoli per l’annuncio della Sua passione e morte, per rinforzare in loro la fede professata. Il cammino di ritorno dal Tabor è preparatorio per la salita verso Gerusalemme e il Golgota: comprendere il mistero di Cristo, equivale a entrare nella stessa logica della rivelazione.
Il discepolo che ha contemplato in anticipo la gloria di Cristo, ha davanti a sé il tracciato del cammino che è chiamato a seguire.

 

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Il Vangelo di oggi ci presenta il racconto della Trasfigurazione di Gesù. . Presi in disparte tre degli apostoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, Egli salì con loro su un monte alto, e là avvenne questo singolare fenomeno: il volto di Gesù «brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce».
In tal modo il Signore fece risplendere nella sua stessa persona quella gloria divina che si poteva cogliere con la fede nella sua predicazione e nei suoi gesti miracolosi. E alla trasfigurazione si accompagna, sul monte, l’apparizione di Mosè e di Elia, «che conversavano con lui».
La “luminosità” che caratterizza questo evento straordinario ne simboleggia lo scopo: illuminare le menti e i cuori dei discepoli affinché possano comprendere chiaramente chi sia il loro Maestro. È uno sprazzo di luce che si apre improvviso sul mistero di Gesù e illumina tutta la sua persona e tutta la sua vicenda.
Ormai decisamente avviato verso Gerusalemme, dove dovrà subire la condanna a morte per crocifissione, Gesù vuole preparare i suoi a questo scandalo – lo scandalo della croce -, a questo scandalo troppo forte per la loro fede e, al tempo stesso, preannunciare la sua risurrezione, manifestandosi come il Messia, il Figlio di Dio. E Gesù li prepara per quel momento triste e di tanto dolore.
In effetti, Gesù si stava dimostrando un Messia diverso rispetto alle attese, a quello che loro immaginavano sul Messia, come fosse il Messia: non un re potente e glorioso, ma un servo umile e disarmato; non un signore di grande ricchezza, segno di benedizione, ma un uomo povero che non ha dove posare il capo; non un patriarca con numerosa discendenza, ma un celibe senza casa e senza nido.
È davvero una rivelazione di Dio capovolta, e il segno più sconcertante di questo scandaloso capovolgimento è la croce. Ma proprio attraverso la croce Gesù giungerà alla gloriosa risurrezione, che sarà definitiva, non come questa trasfigurazione che è durata un momento, un istante.

Gesù trasfigurato sul monte Tabor ha voluto mostrare ai suoi discepoli la sua gloria non per evitare a loro di passare attraverso la croce, ma per indicare dove porta la croce. Chi muore con Cristo, con Cristo risorgerà. E la croce è la porta della risurrezione. Chi lotta insieme a Lui, con Lui trionferà. Questo è il messaggio di speranza che la croce di Gesù contiene, esortando alla fortezza nella nostra esistenza. La Croce cristiana non è una suppellettile della casa o un ornamento da indossare, ma la croce cristiana è un richiamo all’amore con cui Gesù si è sacrificato per salvare l’umanità dal male e dal peccato. …
La Vergine Santa ha saputo contemplare la gloria di Gesù nascosta nella sua umanità. Ci aiuti lei a stare con Lui nella preghiera silenziosa, a lasciarci illuminare dalla sua presenza, per portare nel cuore, attraverso le notti più buie, un riflesso della sua gloria.
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 12 marzo 2017

 

 

Le letture che la liturgia di questa domenica ci presentano il tema della persecuzione e della missione profetica

Nella prima lettura, tratta dal Libro del profeta Geremia, nelle pagine delle sue “confessioni”, il profeta denuncia le insidie dei suoi calunniatori che lo deridono mentre egli mette in guardia il suo popolo dalla sventura: la conquista di Gerusalemme e la deportazione in Babilonia. La fedeltà alla vocazione è per Geremia una conquista quotidiana che conosce dubbi e crisi e che talora pesa come una maledizione, soprattutto quando si sperimenta il silenzio di Dio.

Nella seconda lettura, tratta dalla lettera di S.Paolo ai Romani, l’apostolo afferma che Cristo è l’uomo nuovo, l’iniziatore di una nuova umanità e fa risaltare questa verità contrapponendo l’opera di Cristo all’opera di Adamo

Nel brano tratto dal Vangelo secondo Matteo, Gesù parla ai suoi discepoli delle sofferenze che dovranno affrontare e lo fa con tale concretezza di particolari che sembra descrivere la Chiesa dei nostri tempi. Il centro dell’annuncio cristiano può portare derisione, persecuzione, tutto ciò comunque non deve stupire i discepoli del Signore, perchè anche i profeti hanno vissuto questo e Gesù stesso è passato attraverso l’incomprensione e la persecuzione. La fede dei cristiani si fonda sul grande paradosso che anche quando per il mondo si è perdenti, nessuno è mai perduto da Dio.

Dal libro del profeta Geremìa
Sentivo la calunnia di molti:«Terrore all’intorno!Denunciatelo! Sì, lo denunceremo».
Tutti i miei amici aspettavano la mia caduta: «Forse si lascerà trarre in inganno,
così noi prevarremo su di lui,ci prenderemo la nostra vendetta».
Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso,per questo i miei persecutori vacilleranno
e non potranno prevalere;arrossiranno perché non avranno successo,
sarà una vergogna eterna e incancellabile.
Signore degli eserciti, che provi il giusto,che vedi il cuore e la mente,
possa io vedere la tua vendetta su di loro,
poiché a te ho affidato la mia causa!
Cantate inni al Signore,lodate il Signore,
perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori.
Ger 20,10-13

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T. a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico. Il momento più difficile sicuramente fu quando si sente tradito persino da Dio e cade in una crisi dolorosa che lo porta quasi a rifiutare la sua vocazione. Dio però, senza togliergli le sue sofferenze, anzi annunziandogliene di più grandi, gli rinnova la sua chiamata, chiedendogli di abbandonarsi interamente a Lui.

In una drammatica e celebre “confessione” (20,7-18) il profeta si lamenta con Dio di averlo sedotto, e lui di essersi lasciato sedurre, di averlo attratto con l'inganno, affidandogli un annunzio di sventura che non si è attuato, e di averlo così abbandonato allo scherno dei suoi avversari (vv. 7-8). Egli afferma poi di aver voluto rinunziare a parlare in nome di DIO, ma sentiva nel suo cuore come un fuoco ardente, chiuso nelle sue ossa; si sforzava di contenerlo, ma non poteva.

A questo punto inizia il brano liturgico in cui Geremia denunzia le macchinazioni che vengono fatte contro di lui. Anzitutto rivela che molti riprendono con sarcasmo il suo messaggio di minaccia: «Terrore all’intorno! Denunciatelo! Sì, lo denunceremo». La sventura che egli annunzia è l’imminente conquista di Gerusalemme da parte dei babilonesi e la sua distruzione, che egli presenta come castigo di DIO per i peccati del popolo. Immagina il pensiero dei suoi amici che spiano la sua caduta: ”Forse si lascerà trarre in inganno,così noi prevarremo su di lui,ci prenderemo la nostra vendetta”. Se questi “amici” erano le persone di cui lui si fidava, Geremia sperimentò anche l'offesa e il dolore atroce del tradimento. L’abbattimento morale del profeta dovette durare a lungo ed essere ben visibile ai suoi avversari, i quali osservano le sue sofferenze con l’intento di coglierlo in fallo, cioè di fargli dire qualcosa di compromettente per riferirlo poi alle autorità e così demolirlo definitivamente. Qui però il profeta esprime la sua fiducia incrollabile in Dio, che sente al suo fianco come un prode valoroso.

Geremia aveva certamente presente la promessa fattagli dal Signore al momento della sua vocazione (Ti muoveranno guerra ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti”(.1.19) e questo lo rende sicuro della sua vittoria.
Guidato dalla sua incrollabile fiducia in Dio, Geremia fa una preghiera, e si rivolge al Signore, come a “colui che prova il giusto e scruta il cuore e la mente” ( la prerogativa del Dio di Israele è precisamente quella di non fermarsi alle apparenze, ma di scrutare il cuore e la mente, cioè l’intimo dell’uomo).
Geremia è certo di fare gli interessi di Dio e quindi non ha paura del Suo giudizio. A Dio egli chiede di poter vedere la sua vendetta sui suoi avversari, poiché a Lui ha affidato la sua causa. Egli non pensa di vendicarsi personalmente, ma attende da Dio la vendetta, cioè la giusta punizione dei suoi persecutori. E per di più chiede una vendetta che riguarda non lui personalmente, ma Dio. Egli si è talmente identificato con Lui da ritenere che la sua causa non è altro che la causa di Dio e la sua vendetta la vendetta di Dio!!. Qui il profeta sembra avere un eccesso di zelo, in quanto dimentica che Dio non vuole arrivare alla vendetta, ma al perdono.

Il brano termina con un invito a cantare inni al Signore perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori. Ma subito dopo, nei versetti non riportati dalla liturgia, il profeta prorompe in una terribile maledizione, imprecando persino contro il giorno in cui è nato (vv. 14-18).
Questo brano è il più drammatico delle confessioni, perché vi appare il rifiuto non solo della vita, ma anche e soprattutto della vocazione profetica, che aveva ricevuto fin dal seno materno (1,5).
Le confessioni di Geremia mettono in luce la profonda umanità del profeta. Egli non è un uomo violento o aggressivo, se ne starebbe volentieri per proprio conto, non cerca notorietà o potere. Invece è coinvolto in una situazione drammatica, nella quale è costretto, per il bene dei suoi connazionali, ad annunziare una terribile sciagura che potrà essere evitata solo con un gesto che poteva sembrare un tradimento della patria: aprire le porte ai nemici. La sofferenza più grande del profeta non è stata quella di essere incompreso e perseguitato, ma di vedere avvicinarsi la rovina del suo popolo senza poterla impedire.

Geremia si può dire che è il profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù. Quando si sente abbandonato sembra scorgere in lui il Cristo nell’orto del Getsemani. Egli rimane per il suo popolo, ed anche per tutti i cristiani, un testimone della speranza e fedeltà alla propria vocazione nonostante le sofferenze fisiche e morali.
Salmo 68 - Nella tua grande bontà rispondimi, o Dio.

Per te io sopporto l’insulto e la vergogna mi copre la faccia;
sono diventato un estraneo ai miei fratelli,
uno straniero per i figli di mia madre.
Perché mi divora lo zelo per la tua casa,
gli insulti di chi ti insulta ricadono su di me.

Ma io rivolgo a te la mia preghiera,
Signore, nel tempo della benevolenza.
O Dio, nella tua grande bontà, rispondimi,
nella fedeltà della tua salvezza.
Rispondimi, Signore, perché buono è il tuo amore;
volgiti a me nella tua grande tenerezza

Vedano i poveri e si rallegrino;
voi che cercate Dio, fatevi coraggio,
perché il Signore ascolta i miseri
non disprezza i suoi che sono prigionieri.
A lui cantino lode i cieli e la terra,
i mari e quanto brùlica in essi.

La lettura attenta del salmo porta a datarlo al tempo di Ezechia, dopo la campagna di Sennacherib contro la Giudea e il fallito assedio di Gerusalemme (ca. 701) a causa di un’epidemia nell’esercito (2Re 18,13s.35). L’azione militare di Sennacherib aveva devastato la Giudea. Gli annali di Sennacherib rivelano che furono espugnate 46 città. In questo contesto il pio giudeo del salmo si trova ad urtare contro coloro che guardano all’Egitto come soluzione dei mali nazionali mettendo in dubbio Dio, la fedeltà di Dio, e abbracciando il relativismo religioso. Il pio giudeo prega, digiuna, indossa un abito di sacco, segno penitenziale, e zela per la “casa del Signore”, cioè il tempio, e ciò che il tempio significa. Egli propone la conversione a Dio e ha un certo numero di persone che guardano a lui. E’ il tempo della benevolenza, cioè l’anno sabbatico, ed egli spera la pace nei cuori: “Ma io rivolgo a te la mia preghiera, Signore, nel tempo della benevolenza”. Per noi il tempo della benevolenza è quello che ha promulgato Cristo e che durerà sino alla fine del mondo (Cf. Mt 4,19). Il pio giudeo però è osteggiato e perseguitato da molti; proprio a causa della sua fede. Viene beffeggiato e deriso nella sua azione penitenziale, e quando entra a Gerusalemme quelli che mercanteggiano e sostano divertendosi alla porta, dalla quale passa per entrare in città, lo deridono, senza che alcuno si metta dalla sua parte: “Sparlavano di me quanti sedevano alla porta, gli ubriachi mi deridevano”. La sua situazione si presenta drammatica perché viene calunniato di furto: “Quanto non ho rubato, dovrei forse restituirlo?”. Tutto ciò gli ha creato il vuoto attorno: “Sono diventato un estraneo ai miei fratelli, un straniero per i figli di mia madre“. Egli avverte tutta la sua debolezza e invoca Dio affinché gli dia forza, poiché non vuole diventare una delusione per coloro che fanno riferimento a lui: “Per causa mia non si vergogni chi ti cerca, Dio d’Israele”. Le espressioni che usa per presentare a Dio la sua situazione sono di un’intensità pari alla drammaticità della sua situazione: “L’acqua mi giunge alla gola. Affondo in un abisso di fango, non ho nessun sostegno... Sono sfinito dal gridare, la mia gola è riarsa...”. Ma il pio giudeo non desiste dalla preghiera, dalla fiducia in Dio; ed è sostenuto dalla speranza che Dio continuerà a difendere Sion, e che le città di Giuda saranno riedificate: “Perché Dio salverà Sion, ricostruirà le città di Giuda”. Questa speranza rimarrà nel nucleo fervente d’Israele anche quando, a causa dei peccati e della loro mancata penitenza, Israele sperimenterà la distruzione di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia. Riguardo la Chiesa, di cui Sion è una figura, risuonano queste parole di Gesù: (Mt 16,18) “Le potenze degli inferi non prevarranno su di essa”.
Questo salmo è ricco di profezia riguardo le sofferenze di Cristo (Cf. Gv 2,17; 15,25).
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato...
Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti.
Rm 5,12-15

San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere nominati a Gerusalemme. La Lettera ai Romani, che è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo, è composta da 16 capitoli: i primi 11 contengono insegnamenti sull'importanza della fede in Gesù per la salvezza, contrapposta alla vanità delle opere della Legge; il seguito è composto da esortazioni morali.
Paolo, in particolare, fornisce indicazioni di comportamento per i cristiani all'interno e all'esterno della loro comunità.

Questo brano tratto dal capitolo 5 rappresenta l’ultimo anello della lunga esposizione riguardante la giustificazione mediante la fede che aveva avuto inizio al capitolo 1. In esso l’apostolo, dopo aver messo in luce la prospettiva escatologica della giustificazione (vv. 1-11), passa a trattare il tema della vittoria sul peccato che essa comporta (vv. 12-21). Egli aveva già affrontato questo secondo tema quando, dopo aver descritto la rivelazione dell’ira di Dio, causata appunto dal peccato dell’uomo, aveva presentato l’opera di Cristo come una redenzione e una espiazione (3,21-26). Ora lo riprende sottolineando come la liberazione dal peccato implichi il passaggio dell’uomo dalla solidarietà con l’umanità peccatrice (vv. 12-14) alla solidarietà con Cristo (vv. 15-19).

Il brano inizia con questa affermazione: “come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato”. In questo versetto la situazione in cui si trovava l’umanità prima di Cristo viene descritta alla luce di quanto la Genesi dice di colui che è stato il primo peccatore. Il brano inizia con un “come” esplicativo, mediante il quale Paolo ricollega quanto sta per dire al brano precedente, indicando così l’intenzione di dare ulteriori spiegazioni circa il ruolo svolto da Cristo nella riconciliazione dell’umanità con Dio. L’apostolo prosegue con un “così”, che introduce il confronto tra Adamo e Cristo.

Dopo aver qualificato Adamo come colui che ha introdotto il peccato e la morte nel mondo, Paolo prosegue con il secondo termine di paragone, cioè la figura e il ruolo di Cristo, ma approfondisce ulteriormente le conseguenze del gesto di Adamo. Il peccato di Adamo ha avuto effetti devastanti in quanto tutti gli uomini, con i loro peccati personali, si sono resi partecipi e corresponsabili di quella situazione di morte a cui egli ha dato inizio.

Dopo aver segnalato l’ingresso nel mondo del peccato e della morte, Paolo prosegue: “Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, ...La situazione di peccato e di morte determinata dal primo uomo si è protratta fino al momento in cui Dio ha conferito la legge a Israele.
Paolo pone però un’obiezione: come è possibile ciò “se il peccato non può essere imputato quando manca la legge?” Se non c’è una legge che proibisce una certa azione, il commetterla non può essere considerato come peccato, se si intende per peccato la trasgressione di un precetto. Ma per Paolo non esiste nessun essere umano che non abbia avuto, se non la legge mosaica, almeno qualcosa di simile: tutti infatti hanno conosciuto Dio, venendo così a conoscere quella legge morale che hanno trasgredito. Perciò risponde all’obiezione osservando che “la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo”. Ossia siccome la morte, vista come un fatto non solo fisico ma anche spirituale, ha manifestato i suoi effetti devastanti anche su coloro che non avevano ricevuto come Adamo un precetto esplicito, ciò è sufficiente per dire che anch’essi non sono esenti dal peccato.

Dopo aver nominato espressamente due volte il nome di Adamo, Paolo aggiunge che egli “è figura di colui che doveva venire”. Con queste parole riporta il discorso all’intenzione originaria, che era quella di confrontare Adamo con Cristo.
Tutti gli uomini si sono resi corresponsabili del peccato commesso dal primo uomo, cioè si sono lasciati liberamente coinvolgere nella situazione che da lui ha avuto origine.
Paolo sviluppa la sua dimostrazione mediante tre argomenti. Anzitutto egli afferma: “Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti”.

La superiorità di Cristo su Adamo appare anzitutto dal fatto che “il dono di grazia”non è come la “caduta”: infatti se la caduta di uno solo ha fatto sì che “tutti” morissero, molto di più grazie a un solo uomo, Gesù Cristo, la grazia di Dio ha abbondato “su tutti”. In altre parole, proprio per la sua funzione di Uomo (Figlio dell’uomo, nuovo Adamo), Cristo ha portato a tutta l’umanità una realtà di grazie che supera immensamente la realtà di morte di cui è stato portatore Adamo.

Paolo non pensa dunque che il peccato di Adamo si trasmetta misteriosamente da lui a ognuno dei suoi discendenti, ma lo considera come l’inizio di una “situazione di peccato” in cui tutti, non senza loro colpa e con le debite eccezioni, sono coinvolti.

Circa Adamo e il suo peccato Paolo non ha dunque una rivelazione speciale da fare, ma riprende questa suggestiva immagine biblica per mostrare come Dio abbia inviato un nuovo Adamo, capostipite di un’umanità riconciliata, al quale ognuno è chiamato ad associarsi mediante la fede.
Riguardo al rapporto tra peccato e morte, Paolo non vuole certo affermare che, senza il peccato di Adamo, la morte in senso fisico non sarebbe esistita, al contrario egli ritiene che, a causa del peccato, la morte cambi profondamente significato: senza di esso l’uomo avrebbe terminato la sua esistenza terrena nella comunione con Dio e nella serena fiducia di una sopravvivenza in Lui; il peccato, invece, fa sì che la morte diventi il simbolo e il marchio del suo fallimento, trasformandola quindi in una realtà ostile, che l’uomo tende continuamente a rimuovere.
In questa sua opera, che lo accomuna al Servo del Signore, Gesù appare come il nuovo Adamo da cui ha origine un’umanità riconciliata con Dio.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze. E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura:
voi valete più di molti passeri!
Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.“
Mt 10,26-33

In questo brano tratto dal discorso missionario di Gesù, Matteo raccoglie una serie di massime, che mettono in luce l’atteggiamento che il discepolo deve assumere di fronte alle pressioni che gli vengono dall’esterno.
Nel primo detto Gesù invita il discepolo a non temere coloro che lo perseguitano “poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto”. Dai termini usati appare chiaro che il detto si rifà al genere apocalittico: Dio rivela gli avvenimenti futuri al suo inviato, affinché li scriva in un libro che sarà letto quando staranno per avverarsi. Nel contesto attuale il detto significa che l’innocenza dei discepoli ora perseguitati apparirà un giorno con chiarezza ed essi saranno pienamente riabilitati.

Nel secondo detto Gesù fa un altro invito ai discepoli: Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze.
Anche questo detto è sorto nel contesto apocalittico, che proietta al momento della fine la rivelazione piena dei misteri di Dio. Infine Gesù invita i discepoli a non avere paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima, ma piuttosto di colui che può perdere l’anima e il corpo nella geenna
Egli così prospetta loro la possibilità di una morte violenta, ma li esorta a non temere gli uomini che possono al massimo privarli della vita fisica. Devono temere piuttosto Dio che nel giudizio può condannarli alla dannazione eterna nell'inferno (= geenna). La vita terrena non è nulla in confronto alla vita imperitura che il Padre darà loro in cielo.

Benché Matteo distingua l'anima dal corpo, non prende in considerazione l'esistenza dell'anima separata dal corpo dopo la morte, cioè nel tempo intermedio prima della parusia di Gesù. Per il semita è inconcepibile la vita senza il corpo. Il detto si riferisce quindi alla totalità della vita dell'uomo, che può essere conservata da Dio anche dopo la morte.
L’esortazione si prolunga in un detto riguardante positivamente la fiducia. Gesù afferma che neppure uno di due passeri, per poco che possano valere, cadrà a terra senza che il “Padre vostro” lo voglia. E prosegue nell’esortazioneL Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura:voi valete più di molti passeri!
In questo detto Gesù illustra la cura premurosa di Dio per i discepoli: essi non potranno subire alcun danno senza che egli lo permetta, e se lo permette ciò è certamente per poter attribuire loro un bene maggiore.

Gli ultimi due versetti contengono un parallelismo antitetico: chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.“
Il detto riguarda la confessione pubblica di Gesù, (quella che Pietro non aveva saputo fare al momento del processo), e nell’annunzio del vangelo. Si può notare che mentre nel detto precedente Gesù parlava di Dio come “Padre vostro”, ora lo definisce “Padre mio”. Il richiamo insistente del Padre richiama il motivo della paternità divina che rappresenta la novità centrale del messaggio evangelico: Gesù ha fatto per primo l’esperienza del rapporto speciale che Dio ha stabilito con l’umanità e l’ha comunicata ai suoi discepoli.

La bontà di Dio deve essere di conforto e di incoraggiamento nelle sofferenze e nella morte che aspettano i discepoli. Nei confronti di Dio la paura non ha più ragione di essere. È vero che Gesù accenna al timore che bisogna avere per colui che può mandare l’anima e il corpo nella geenna, ma questo riferimento alla paura serve a sottolineare la responsabilità del discepolo e a fargli capire che il rinnegare può avere conseguenze dannose sia per lui stesso che per gli altri. Non deve però essere la paura a motivare le sua scelte ma la fiducia nel Padre e soprattutto la solidarietà con Gesù, il quale ha dimostrato che proprio attraverso la sofferenza si attua la salvezza.
In questo senso Gesù è il modello e la guida di tutti coloro che cercano Dio. Rinnegare Gesù, quando lo si è adeguatamente conosciuto, significa rifiutare il progetto divino di salvezza.

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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